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FocusListe20 fumetti da ricordare usciti nel 2003

20 fumetti da ricordare usciti nel 2003

2003: l’anno dello scoppio della seconda guerra del Golfo e della morte della pecora Dolly, ma anche della prima finale di Champions League fra due squadre italiane – Milan e Juventus – e del ritiro definitivo di Michael Jordan dalla pallacanestro, dopo la sua ultima partita con la canotta dei Washington Wizards.

Ma – in ambito fumettistico – il 2003 fu anche l’anno della scomparsa di un grande autore come Guido Crepax, oltre che dell’uscita di alcuni fumetti di cui ci ricordiamo come se fossero stati pubblicati ieri (e in alcuni casi può risultare vero, visto il ritardo che a volte avviene tra le edizioni originali straniere e quelle italiane, senza contare il mercato delle riedizioni).

Per rinfrescare la memoria abbiamo voluto selezionare 20 pubblicazioni a fumetti del 2003 che ancora oggi, nonostante gli anni trascorsi, la redazione di Fumettologica non riesce a dimenticare. Non (solo) i migliori, non (solo) guilty pleasure, ma quelli più indicativi della nostra memoria, un po’ perché davvero rappresentativi di quell’annata editoriale, un po’ perché la loro influenza si è estesa ben oltre il solo 2003. Chissà: li ricorderemo ancora tutti tra vent’anni? E voi?

The Walking Dead, di Robert Kirkman, Tony Moore e Charlie Adlard

fumetti 2003 the walking dead

Il poliziotto Rick Grimes, ferito in seguito a uno scontro a fuoco, finisce in coma e si risveglia in un mondo apocalittico popolato da morti viventi, che assalgono i superstiti spinti dalla fama di carne umana. Dopo aver incontrato Morgan e il figlio Duane, che gli spiegano che i sopravvissuti si sono radunati nelle grandi città, Rick parte per Atlanta, il centro più vicino, dove spera di ritrovare la moglie Lori e il figlio Carl. Inizia così The Walking Dead, serie creata da Robert Kirkman e Tony Moore per Image Comics, una delle più importanti degli ultimi anni, in grado di creare attorno a sé un impero fatto di serie tv, videogiochi, libri e merchandising vario.

Nel canone del genere horror, gli zombi sono stati immigrati (World War Z), vittime del capitalismo (Zombi), prodotti deviati delle corporazioni (Resident Evil), la proiezione delle paure più profonde della nostra società. Sono stati soprattutto esseri liminari, ai margini della società, una massa di anime errabonde, incapaci di comunicare e colpevoli di minacciare il nostro stile di vita. The Walking Dead guarda altrove e riempie il genere di discorsi esistenzialisti, domandandosi cosa significhi essere un uomo. Si insinua fin da subito il dubbio che i veri mostri siano i sopravvissuti, dubbio che diventa realtà in una famosa scena in cui Rick urla a tutta pagina «Siamo noi i morti viventi!».

Realizzato dopo l’abbandono di Moore interamente da Kirkman e Charlie Adlard, The Walking Dead si è concluso nel 2019 dopo 193 numeri ed è stato un successo di pubblico senza pari. Era una serie pubblicata da una casa editrice che all’epoca del suo esordio navigava in cattive acque, in bianco e nero, ultraverbosa, con una premessa (ai tempi del debutto) molto poco cool, che qualcuno stava cercando di rivitalizzare – 28 giorni dopo era uscito un anno prima e presentava, per coincidenza, la stessa identica scena d’apertura scritta da Kirkman – ma che non godeva di grande popolarità. Nonostante tutto questo, The Walking Dead è diventato uno dei franchising più popolari degli ultimi 20 anni.

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(Andrea Fiamma)

Blankets, di Craig Thompson

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Blankets di Craig Thompson è tra i graphic novel che nei primi anni 2000 cambiarono in meglio la percezione del fumetto, non solo statunitense, da parte del pubblico generalista. Per la sua mole di 600 tavole in bianco e nero e per il suo contenuto complesso e stratificato, al momento della sua prima pubblicazione Blankets fu infatti recepito come un’opera di spiccato valore artistico capace di mostrare come il fumetto potesse offrire a lettori e lettrici la stessa profondità che ricercavano nella letteratura. Il successo nelle vendite e il trionfo di Thompson agli Harvey, Eisner e Ignatz Awards contribuì non poco a definire quella che oggi ricordiamo come la grande stagione del graphic novel, nella quale i fumetti cominciarono a fare capolino in libreria.

In Blankets, Thompson racconta il suo passaggio dall’infanzia all’adolescenza all’interno di una famiglia – e di una comunità in Wisconsin – di cristiani protestanti particolarmente rigidi. C’è la ricostruzione dei legami familiari di Craig e della loro evoluzione, in particolare delle difficoltà di comunicazione con i genitori e delle sue mancanze nei confronti del fratello minore Phil. C’è il rapporto difficile di Craig con la religione, che gli impone di considerare ogni sua inclinazione naturale, dalla passione per il disegno alle pulsioni fisiche, come sbagliate e degne di contrizione. E poi c’è il racconto struggente della relazione di Craig con Raina, una coetanea del Michigan. Il sentimento tra i due, simboleggiato da una coperta patchwork cucita a mano, è puro e totalizzante come solo il primo amore sa esserlo, ma è destinato a dissolversi diventando uno dei tanti tasselli che segnano il passaggio all’età adulta, uno dei tanti ricordi confinati nell’angolo più polveroso della casa.

Thompson racconta di sé stesso ma non si pone mai come centro assoluto della narrazione. Il suo obiettivo è quello di tenere traccia di quelle delicate perturbazioni emotive che, prima di dissolversi per sempre, rivestono un’importanza cruciale nella costruzione di una personalità. Il tutto con un disegno istintivo eppure delicato, capace di reinventare con grande libertà la gabbia della tavola e di mettere in rilievo quei dettagli che restituiscono l’unicità di un’esperienza.

Con la sua capacità di raccontare la quotidianità senza mai scivolare nella banalità, Thompson riuscì a toccare corde universali e a commuovere senza mai ricorrere a toni tragici o patetici. Con Blankets creò inoltre un modello di autobiografia a fumetti spesso emulato, ma difficilmente eguagliato.

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(Mara Famularo)

Soil, di Atsushi Kaneko

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La placida Soil New Town è scossa da una serie di fatti fuori da ogni logica: il crollo di un enorme traliccio e il conseguente blackout, la scomparsa dell’intera famiglia Suzushiro, l’avvistamento di un uomo coperto di squame nei pressi della loro abitazione e l’apparizione di misteriose sculture di sale che sembrano legate al rapimento. Una catena di eventi in grado di seminare il panico ovunque, figurarsi in un tranquillo sobborgo costruito in mezzo al nulla. Uno di quei progetti residenziali pianificati a tavolino, dove tutte le case e le viuzze paiono identiche tra loro. Abitate da persone per bene, poco avvezze a questo genere di scossoni. Peccato che, come vuole il più banale dei motori narrativi, la cittadina sia stata edificata sulle rovine di un antico villaggio teatro di tremendi rituali. In che modo un passato così brutale si collega con i fatti di cronaca appena descritti? Quali terribili segreti finiranno per emergere? 

Da questo banale spunto di partenza Atsushi Kaneko costruì un manga potentissimo, dove l’apparentemente perfetta società di Soil New Town viene dissezionata senza alcuna clemenza. I misteri diventano sempre di più, in un crescendo che finirà per spaziare da David Lynch fino al Signore delle Mosche, senza dimenticare il costante gioco al rialzo tipico di molta della serialità televisiva figlia di quegli anni (Lost in primis). L’autore giocava sempre al limite ma riusciva a non rompere mai del tutto l’incanto con il lettore, consegnandoci una lettura che elettrizza fino alla fine.

Ulteriore tratto caratteristico del fumettista è il suo stile di disegno, più vicino a Charles Burn che al manga tradizionale. Pochissimi retini, campiture nere come la pece, un uso estremamente grafico del tratto e una serie di influenze che vanno dalle grafiche punk rock – di cui l’autore è un grande appassionato – all’immaginario statunitense degli anni Cinquanta. A questo si aggiunge una propensione a certa glacialità delle composizioni, come testimoniano le disturbanti copertine dei singoli volumi, a rendere l’insieme ancora più straniante e indefinibile. 

A dispetto della sua identità così sfuggente e dei temi decisamente adulti, l’arrivo di Soil nelle fumetterie italiane fece esplodere il fenomeno Kaneko in maniera istantanea, spingendo le case editrici al recupero e alla pubblicazione di tutte le sue opere precedenti e successive.

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(Marco Andreoletti)

Esterno notte, di Gipi

Le cinque storie brevi contenute in Esterno notte rappresentano il libro d’esordio di Gipi, fumettista con un passato da art director in un’agenzia pubblicitaria che nel 1994 aveva iniziato a lavorare per le riviste Cuore, Zapata, Blue, Boxer e Mano, producendo vignette e storie brevi. Una di queste si intitolava Storia di Faccia. Era nata come reazione emotiva ai fatti dell’11 settembre 2001 ma, spiega Gipi nell’introduzione di Esterno notte, «sentivo delle voci in testa che mi dicevano che stavo sbagliando argomento». 

La storia diventò quindi un gioco di alternanze in cui l’afflato lirico del narratore è continuamente riportato alla realtà della vita di provincia, esemplificata da Faccia, delinquente malato di una deformazione ossea che gli deturpa il viso. Nel raccontare le vicende di Faccia, Gipi ribaltava gli stereotipi poetici, dissacrava le sue stesse pose letterarie e riusciva comunque a raccontare una storia priva di cinismo.

Nel libro Gipi. Lo straordinario e il quotidiano di un narratore per immagini, l’autore raccontò che «Stefano Ricci parlò di Storia di Faccia a Igort, che non sapeva assolutamente chi fossi. Qualche mese dopo, rapato a zero, bianco come un foglio di carta perché non uscivo mai fuori di casa, andai al Festival di Lucca per mostrargli la storia. Lui la guardò e immediatamente mi chiese se ne avessi altre, perché avrebbe voluto farne un libro. Io risposi di no. Ignoravo la possibilità che si potesse fare un libro del genere, e del resto non me ne importava nulla. Igort buttò via un sacco di tempo per convincermi di quanto fosse importante».

Gipi lavorò per due anni e mezzo al suo primo libro, adducendo come motivazione il fatto che «facevo le storie solo quando mi venivano». Igort lo spinse a stare coi piedi per terra ed essere più concreto, arrivando a scrivergli una mail in cui gli consigliava di prendere ogni mattina due pastiglie di “pragmatina”. Il risultato fu proprio Esterno notte, uscito nel 2003 e recensito con favore dalla critica, che definì Gipi «un nuovo, grande, moderno autore italiano», mentre Il Sole 24 Ore scrisse che «Gipi appare dalla prima tavola come un maestro».

Dentro il racconto autobiografico di una violenza subita (Via degli Oleandri), in un dialogo filosofico tra due malavitosi (Macchina sotto la pioggia) o nel corso di una caccia a un clandestino su una superpetroliera tedesca (Muttererde), Gipi trova la tragedia, la miseria e l’assurdità umana, emozioni che vengono ritratte con uno stile a olio molto evocativo e che testimoniano la grande sensibilità dell’autore, uno dei più importanti degli ultimi 20 anni.

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(Andrea Fiamma)

Death Note, di Tsugumi Ohba e Takeshi Obata

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Nato da un’idea di Tsugumi Ohba e disegnato da Takeshi Obata, Death Note è uno shonen atipico, dove lo scontro tra antagonisti non è mai fisico e dove l’azione si risolve in una intricatissima e tensiva sfida di intelligenze, condotta a colpi di stratagemmi e bluff. Sono questi alcuni degli ingredienti principali che hanno reso questo manga uno dei più famosi degli ultimi 20 anni.

Il brillante studente Yagami Light trova un quaderno nero che appartiene allo shinigami Ryuk. Dalle istruzioni riportate sulla copertina scopre che basta scrivere su una pagina il nome completo di una persona di cui si conosce il volto per causarne infallibilmente la morte, e questa consapevolezza dà la stura ai suoi deliri di onnipotenza, giustificati dall’idea che uccidendo solo i criminali potrà rendere il mondo un posto migliore. La scia di morti sempre più consistente attira l’attenzione dei servizi segreti, che mettono sulle tracce del misterioso killer un giovane e geniale investigatore, Elle. Parallelamente le gesta di Light vengono accolte con ambiguo favore dall’opinione pubblica ed emulate da Misa Amane, una idol che custodisce a sua volta un altro death note.

Oltre all’intreccio avvincente (che in verità perde mordente negli ultimi volumi), a rendere la serie memorabile sono i quattro personaggi principali e le relazioni che si creano tra loro. Lo shinigami Ryuk, con la sua figura nera imponente, la fisionomia da pagliaccio inquietante e la fissazione per le mele rosse, è una rivisitazione originale della figura del diavolo tentatore, ma ricorda anche i jinn delle Mille e una notte, che non nutrono particolare interesse per gli uomini e ne sconvolgono le vite solo per noia. Il protagonista Light è un personaggio faustiano, che non esita a maneggiare un potere divino per realizzare una sua personale visione del mondo e tratta tutti come meri strumenti del suo volere.

Elle è una versione adolescente e otaku degli investigatori geniali della letteratura poliziesca, pieno com’è di fisse bizzarre e totalmente assorbito dall’obiettivo di superare il suo rivale. Infine, l’eroina femminile Misa sembra un’incarnazione particolarmente affascinante ma grottesca dell’ideale arcaico di donna giapponese, completamente asservita all’uomo che ama e pronta all’autodistruzione per lui. A rendere questi personaggi particolarmente iconici è anche la scelta di ritrarli in coerenza con alcune mode riconoscibili (che per molti versi hanno contribuito a diffondere): Ryuk ha un look punk rock, Elle un acconciatura emo e Misa veste in stile Gothic Lolita.

Con la sua atmosfera cupa, Death Note è una serie intrigante e modaiola ma che ha anche una certa profondità. Fitta di riferimenti anche visivi a varie religioni, punta l’accento su argomenti come destino e libertà di scelta, e soprattutto fa riflettere su come le motivazioni che stanno dietro alle azioni contribuiscano a distinguere – o sfumare – il confine tra il bene e il male. Un paradosso cui non si sfugge neanche nella vita vera.

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(Mara Famularo)

1602, di Neil Gaiman e Andy Kubert

1602 è uno strano progetto editoriale nato agli inizi degli anni Duemila per ragioni tutt’altro che creative: Joe Quesada, all’epoca editor-in-chief di Marvel Comics, convinse Neil Gaiman a lavorare per l’editore, in cambio assicurandogli assistenza legale per una battaglia legale che Gaiman stava portando avanti contro Todd McFarlane riguardante il possesso del personaggio Miracleman.

Gaiman tirò fuori una cosa probabilmente inaspettata, ma in linea con la sua poetica: immaginò un’Europa seicentesca in cui iniziano a spuntare esseri mutanti e superumani e strane tempeste macchiano il cielo. A sbrogliare il mistero sono chiamati Sir Nicholas Fury, capo delle spie reali della regina Elisabetta, e il medico di corte Stephen Strange. Segue un gioco di ricontestualizzazione narrativa per cui Matt Murdock è un menestrello/agente segreto, i Fantastici Quattro esploratori alla ricerca del Nuovo Mondo e Magneto il capo dispotico dell’Inquisizione in lotta con gli esseri occulti dello spagnolo Carlos Javier.

Quello di 1602 è un racconto iper-gaimaniano: ci sono elementi caratterizzanti come la fiaba, il pastiche, tanta parola e poca azione, pochi pugni e tanti sofismi, ma soprattutto c’è la magia che si insinua nel reale a poco a poco, quel senso di mistero che non riusciamo ad afferrare e poi si svela nella sua reale natura.

Gaiman mise insieme un’opera neo-silver, appartenente cioè a quel filone, teorizzato dallo storico Peter Sanderson, che recupera le atmosfere della Silver Age e ne aggiorna le intenzioni come rimedio alla cupezza dell’era oscura dei fumetti. Della Silver Age Gaiman riprese questo senso di rinascita e ci ricordò chi fossero i supereroi statunitensi: figli di immigrati, reietti della società, membri di una comunità nuova che accoglie gli oppressi. In questo caso, gli eroi inglesi scappano dalla Chiesa o dai vecchi regimi europei per colonizzare l’altra costa dell’Atlantico. Sono i supereroi, nell’universo di 1602, a fare l’America.

Disegnata da Andy Kubert, 1602 è considerata un’opera minore di Gaiman, che non riuscì del tutto a miscelare il proprio stile con i supereroi, dando una lettura alternativa del pantheon Marvel ma senza scrollarsi di dosso la sensazione di un giocoso “what if”.

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(Andrea Fiamma)

Monster Allergy, di Francesco Artibani, Alessandro Barbucci, Barbara Canepa, Katja Centomo e altri

Nella periferia di Bigburg, immensa città nordamericana, si trova la villa in cui vivono Zick e sua madre. Lui è un ragazzino pallido, solitario e pieno di allergie, che attira subito l’attenzione della nuova vicina, una sua coetanea di nome Elena Patata. Grazie alla nuova conoscenza, le si apriranno le porte di un mondo parallelo al nostro, invisibile a quello degli umani, in cui vivono i mostri.

L’idea al centro della serie, infatti, è che nella nostra realtà abitino milioni di creature fantastiche, ma che soltanto pochi individui riescano a vederle e interagirvi. Zick è uno di questi, così come sua madre: Il loro gatto, invece, è un tutore, una delle entità che hanno il ruolo di controllare il mondo dei mostri e che ha preso forma felina per passare inosservato. È proprio la sua sparizione, insieme a quella del micio di Elena, a introdurre quest’ultima alla complessa realtà in cui vive l’amico.

Monster Allergycome ha scritto anche il nostro Andrea Tosti – fu la conclusione di un percorso di rinnovamento del fumetto disneyano iniziato nel 1996 con PKNA – Paperinik New Adventures, che aveva mostrato come si potesse andare oltre la tradizione di Topolino, e continuato con W.I.T.C.H., che si era staccato dai personaggi classici Disney e aveva raggiunto un successo mondiale tra le ragazzine preadolescenti. Dietro quest’ultimo progetto c’era lo stesso team creativo che ideò Monster Allergy: Francesco Artibani, Katja Centomo, Alessandro Barbucci e Barbara Canepa, affiancati da altri autori, sceneggiatori e disegnatori, provenienti in gran parte da Topolino

A differenza di W.I.T.C.H., però, Monster Allergy era una serie “creator owned”, ovvero i suoi diritti erano (e sono) in mano agli autori: Disney ne era solo l’editore, attraverso l’etichetta Buena Vista Lab. Per questo motivo, di recente, gli autori hanno potuto rieditarei 30 episodi con Tunué e pubblicare, con la stessa casa editrice, una continuazione della storia con i protagonisti cresciuti.

Il successo della serie fu certamente dovuto all’altissima qualità di testi e disegni, in equilibrio costante tra l’umorismo e gli elementi più horror. Non mancano, infatti, creature mostruose né scene macabre, come quelle che riguardano le pelli di animali scuoiati che si lamentano della propria condizione. Al tempo stesso la serie comprende episodi altamente toccanti, che indagano con delicatezza la sensibilità dei protagonisti.

I disegni, invece, surfavano sull’onda del momento. In un periodo in cui era esplosa da poco la moda dei Pokémon, mettevano in scena una serie di mostriciattoli colorati, che fondevano morbidezza disneyana e ispirazioni manga, con un design sempre originale e azzeccato – basti vedere Bombo, la “mascotte” della serie. Nei personaggi umani si percepiscono suggestioni di fumetto e animazione americana dell’epoca, a partire dalle opere di Jamie Hewlett. Non è un caso che Barbucci e Canepa fossero anche gli autori di Sky Doll, inaugurato tre anni prima, uno degli esempi più influenti di contaminazione tra fumetto giapponese e occidentale.

Grazie a questi elementi, Monster Allergy ebbe abbastanza successo da convincere Rainbow a produrre una serie animata da 52 episodi, cosa ancora oggi quasi unica per un fumetto di creazione italiana.

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(Alberto Brambilla)

Yotsuba&!, di Kiyohiko Azuma

Creare opere spensierate e solari, che non facciano trapelare le difficoltà affrontate per raggiungere quella leggerezza, è una sfida per qualunque artista. Yotsuba &! di Kiyohiko Azuma è l’esempio perfetto di questo trucco. Il protagonista è Yotsuba Koiwai, una bambina di cinque anni eccentrica eppure descritta con credibilità.

Yotsuba si trasferisce in una nuova città con il padre adottivo e fa amicizia con le tre figlie dei vicini di casa, Asagi, Fuka ed Ena, finendo per coinvolgerle nelle sue avventure. La sua percezione del mondo è un po’ diversa da quella dei suoi coetanei (non conosce per esempio oggetti d’uso comune come le scale mobili, il condizionatore, l’altalena o il citofono) ed è, in mancanza di termini migliori, amorevolmente scema come sanno a essere a volte i bambini.

Yotsuba&! nacque dalle ceneri di un altro fumetto di Azuma chiamato Try! Try! Try!, in cui apparivano alcuni personaggi del cast di Yotsuba&!. Il ritmo del fumetto è delicato e privo di grandi ambizioni. Azuma voleva soltanto raccontare la vita placida di una bambina e lo fece con un senso dell’umorismo irresistibile e storie rilassate, con poste in gioco basse e molto cuore. 

La forza di Yotsuba &!, a 20 anni di distanza dal suo esordio, risiede ancora nel suo senso dell’umorismo, ma anche nella grande cura nel disegno. Gli ambienti sono specifici e ricercati con amore: la città in cui vive Yotsuba è un sobborgo che invita a essere visitato, e il design dei personaggi è appropriato per l’ambiente, senza pretese, piacevole. Azuma è stato eccezionalmente bravo a usare l’abbigliamento per dare personalità ai protagonisti. Yotsuba, suo padre, gli amici di suo padre e ciascuno dei suoi vicini hanno un senso della moda molto distinto. Serie dal grande fascino, Yotsuba &! è ancora oggi una rappresentazione peculiare, comica e perfetta dell’infanzia.

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(Andrea Fiamma)

Wanted, di Mark Millar e J.G. Jones

Wesley Gibson è un ventiquattrenne incastrato in una vita che detesta. Costretto a un lavoro inutile, fidanzato con una fedigrafa seriale, senza nessuna prospettiva sul futuro o capacità di cambiare la situazione. Il suo destino cambia drasticamente quando incontra l’assassina Fox e scopre la verità sul padre che l’aveva abbandonato da bambino. Il genitore è stato in realtà il più grande killer della storia, oltre che uno dei supercriminali che dal 1986 in poi hanno segretamente governato il mondo. Tutti i supereroi sono infatti stati eliminati durante una sanguinosa battaglia a metà degli anni Ottanta, lasciando spazio ai piani di conquista dei loro antagonisti.

Wanted, edita sotto la label personale di Mark Millar ma pubblicata da Top Cow via Image Comics, potrebbe essere ricordata come la cafonata definitiva firmata dallo sceneggiatore scozzese. Gli ingredienti per il più sfrontato tra tutti i polpettoni rifilati al mondo del fumetto da parte sua ci sono tutti: un’idea da baraccone hi-concept dalla carica provocatoria di grana grossissima, tanta violenza, un disegnatore bombastico in grande spolvero, volgarità a fiumi e un ritmo così veloce da farti soprassedere su una trama a dir poco inconsistente. Millar decise di presentare al mondo la sua idea di fumetto sparando altissimo, raccontandoci di un universo supereroistico senza eroi e sostituendoli con personaggi esasperatamente sopra le righe. Ricordiamo, per esempio, una controparte di Superman affetta da Sindrome di Down e un essere composto dalle feci delle 666 persone più cattive della storia.

Il livello di Wanted è più o meno sempre quello. Il picco assoluto lo troviamo nel finale, quando il protagonista, dopo averci ingannato e quasi convinto di non voler proseguire la sua carriera criminale, si rivolge direttamente a noi palesando la sua intenzione di “mettercelo nel culo”. A leggere oggi una simile serie di trovate viene da chiedersi come sia stato possibile che da questa miniserie sia stato tratto un film (comunque brutto) diretto dall’allora lanciatissimo Timur Bekmambetov e un videogioco (ancora più brutto) per Playstation 3 e Xbox 360. Eppure all’epoca Millar era quello di The Authority e The Ultimates. Lo scavezzacollo che si poteva permettere di sostituire Nick Fury con Samuel L. Jackson e di rendere una serie revisionista di Warren Ellis una spacconata senza ritegno.

Probabilmente oggi gran parte dei suoi lavori sono invecchiati malissimo, e il suo stesso stile di scrittura non ha più l’attrattiva di un tempo, ma rimane indubbio che per almeno un lustro Millar sia riuscito ad abbindolare tutti convincendoci che il mainstream statunitense dovesse per forza di cose passare da lui. 

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(Marco Andreoletti)

Fagin l’ebreo, di Will Eisner

Chi fa fumetti gioca spesso sugli stereotipi, ma ha il dovere di maneggiarli con la giusta intenzione e di capire che effetto possono avere sui lettori. Da questa riflessione nacque Fagin l’ebreo, opera sospesa tra romanzo illustrato e graphic novel, in cui Will Eisner – in uno degli ultimi lavori della sua carriera – rese giustizia a uno dei personaggi più sgradevoli de Le avventure di Oliver Twist.

Nel romanzo di Charles Dickens, Fagin è un ricettatore che offre vitto e alloggio ai ragazzini di strada in cambio di merce rubata. Incarna lo stereotipo negativo dell’ebreo, avaro e cencioso, e infatti nelle edizioni illustrate del romanzo è raffigurato con il nasone. Non è il vero malvagio della storia, ruolo che spetta al complice Bill Sikes, ma è comunque un personaggio negativo che mette il proprio tornaconto prima di ogni cosa senza preoccuparsi dei crimini cui indirettamente viene coinvolto, andando per questo incontro all’impiccagione.

Eisner immaginò gli ultimi giorni di Fagin, chiuso in cella e in attesa dell’esecuzione, mentre riceve la visita di Dickens e gli racconta la sua vita dall’inizio alla fine, dal suo punto di vista. Attraverso le sue esperienze emerge la storia di una popolazione indigente che emigra per necessità, ma che dalla povertà non riesce a emanciparsi perché, a causa dei pregiudizi che la accolgono, le viene negata qualsiasi possibilità di vivere onestamente. E, d’altro canto, l’Inghilterra vittoriana appare come un ambiente ostile e razzista, in cui la famiglia in cui nasci determina le opportunità che avrai: e se sei ebreo aschenazita vivrai probabilmente in condizioni così estreme e ingiuste da indurti a pensare che la carriera criminale sia l’unica via per la sopravvivenza.

Pubblicato oltre 160 anni dopo il romanzo di Dickens e disegnato interamente in tonalità seppia, Fagin l’ebreo è sospeso tra vocazione narrativa e finalità didattiche. Anche se a volte pecca di didascalismo, sollecita riflessioni dense e particolarmente valide in un momento storico come questo, in cui la questione dei migranti viene liquidata con superficialità razzista o struggimento paternalistico, ma di rado è presentata come una realtà concreta con cui fare i conti con responsabilità.

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(Mara Famularo)

Runaways, di Brian K. Vaughan e Adrian Alphona

All’inizio degli anni Duemila, Marvel Comics provò ad attirare a sé il pubblico più giovane e quello femminile, entrambi segmenti interessati ad altri stili e generi che si distanziavano dal fumetto supereroistico. A partire dai manga, punto di riferimento narrativo ed estetico per le nuove generazioni di lettori. Per questo la casa editrice varò l’etichetta Tsunami, una linea creata per avvicinarsi al mondo del fumetto giapponese. Nacquero titoli come Namor, Sentinel, Venom e Mystique, ma di tutto il catalogo il titolo più memorabile fu Runaways, serie di Brian K. Vaughan e Adrian Alphona che ebbe una vita travagliata, ma che forse proprio per questo diventò un’opera cult per molti appassionati di supereroi, tanto da ispirare qualche anno fa anche una serie tv live action.

Runaways racconta di sei adolescenti che scoprono di essere figli di membri di un’organizzazione supercriminale chiamata Orgoglio. I ragazzi si accorgono poi di possedere poteri mutanti o rubano le armi e le risorse dei genitori per diventare supereroi e unirsi allo scopo di espiare le colpe dei padri, diventando una forza del bene composta dal leader prodigio Alex Wilder, la strega Nico Minoru, l’aliena Karolina Dean, la piccola e potente Molly Hayes, Gertrude Yorkes (che è connessa telepaticamente con un dinosauro) e Chase Stein. Se la premessa ricorda degli X-Men in chiave contemporanea non è un caso, perché inizialmente Vaughan aveva pensato a questa idea per Ultimate X-Men (la versione aggiornata agli anni Duemila dei mutanti) e l’aveva poi trasformata in una creazione del tutto nuova.

Nonostante lo stile fusion di Alphona e la solida scrittura di Vaughan, attento anche a costruire un cast diversificato e moderno, Runaways non fece breccia nel cuore di lettori abituati agli spillati e non convinse i lettori di manga a entrare in fumetteria. La testata chiuse quasi subito, ma fu riscoperta dal pubblico nell’edizione in volumi (un formato molto più vicino agli usi e consumi dei lettori di manga) e ripartì per poi proseguire per diverso tempo, diventando un piccolo caso editoriale che Marvel Comics coltivò per anni a venire.

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(Andrea Fiamma)

Pluto, di Naoki Urasawa

Già autore affermato con serie di successo come Happy!, Monster e 20th Century Boys, Naoki Urasawa – che non ha mai fatto mistero della sua ammirazione per Osamu Tezuka – con Pluto realizzò un remake de Il più grande robot del mondo, una storia di Astro Boy del 1963.

In un futuro in cui gli esseri artificiali vivono accanto agli esseri umani ma sono spesso vittime di discriminazioni, uno dei robot più gentili e più forti del mondo viene fatto a pezzi senza pietà, e stessa sorte tocca a un umano attivista dei diritti degli automi. Il detective incaricato delle indagini, un robot di alto livello e dall’aspetto umano di nome Gesicht, scopre di essere sulla lista dell’assassino insieme a tutti quei robot – sette in tutto il mondo – che pur conducendo un’esistenza pacifica sono potenziali armi di distruzione di massa. Tra i robot in pericolo c’è anche Atom, un’intelligenza artificiale avanzatissima nel corpo di un bambino.

L’idea di reinterpretare una delle storie di Astro Boy a lui più care era venuta in mente a Urasawa in vista del 7 aprile 2003, il giorno della nascita di Atom. Quando il mangaka chiese l’autorizzazione di lavorare al progetto a Makoto Tezuka – figlio del dio dei manga e direttore delle Tezuka Productions – costui gliela concesse a una condizione: Urasawa avrebbe dovuto ridisegnare i personaggi nel suo stile e realizzare un prodotto del tutto nuovo, con cui misurarsi con l’originale.

L’Astro Boy di Tezuka è un’avventura in salsa fantascientifica di grande profondità, in cui il confronto tra esseri umani e artificiali diventa spunto per ragionare su che cosa significhi essere umani, sull’amore e il dolore come moventi di azioni grandi o terribili, sul ruolo della scienza nel costruire la pace o nel promuovere la guerra, sulla discriminazione e la solidarietà. Urasawa riprese integralmente questo bagaglio di ispirazione e di intenti, conferendo maggiore profondità e complessità ai personaggi – che non a caso nell’aspetto sono robot indistinguibili dagli esseri umani.

Pluto è una serie ben riuscita se non si conosce nulla di Astro Boy, geniale se in quell’universo ci si orienta almeno un po’. In questo secondo caso, infatti, oltre a cogliere le simmetrie rispetto all’opera originale, si può apprezzare pienamente il ri-design dei personaggi, che in Pluto assumono fisionomie realistiche senza più alcuna traccia dello stile cartoonesco tipico di Tezuka. Tra tutti non può che spiccare Atom, un robot bambino con i capelli dai ciuffi all’insù, che ha lo stesso sguardo buono e animo puro degli eroi bambini intorno a cui ruotano le opere di Urasawa.

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(Mara Famularo)

Superman: Red Son, di Mark Millar, Dave Johnson e Kilian Plunkett

Come sarebbe andata la storia se la culla di Kal-El fosse precipitata tra i campi di grano dell’Unione Sovietica invece che in quelli di mais del Kansas? In che modo crescere nell’altro blocco della Guerra fredda ne avrebbe condizionato il suo essere supereroe? Questa l’idea dietro la reinterpretazione di Superman da parte di Mark Millar, che come di suo solito partì da un elevator-pitch fortissimo per poi imbastire una storia tanto frenetica e roboante quanto, in fin dei conti, un poco vuota e fin troppo leggera.

In qualsiasi caso il passaggio dall’America rurale – fatta di senso di responsabilità, torta di mele e solidi valori – alle mire espansionistiche del regime comunista alla lunga finisce per influenzare anche il nostro uomo d’acciaio. Se all’inizio delle miniserie lo troviamo pressoché identico alla sua controparte canonica, incapace di rimanere inerte di fronte alla richiesta di aiuto da parte di chiunque, alla morte di Stalin lo vediamo prendere il suo posto come Capo di Governo. Il risultato è l’espansione dell’Unione Sovietica su tutto il globo, con l’eliminazione di povertà, malattie, inquinamento e criminalità. A questo si succede un tanto logico quanto folle innalzamento delle aspettative di vita e del livello di istruzione. Un’utopia, senza ombra di dubbio, peccato che i dissidenti vengano riprogrammati in zombi al servizio della comunità da un Brainiac convertito alla causa.

Uniche nazioni dove Kal-El non riesce a espandere il proprio benevolo regime sono il Cile e gli Stati Uniti, flagellati da violenze e povertà. Paesi che preferiscono l’incertezza del libero arbitrio alla sopravvivenza sotto la campana di vetro di Superman. Proprio con questo punto bene stampato in testa un Lex Luthor inizialmente al soldo di Washington porta avanti la sua battaglia contro l’alieno. La trama prosegue tra baruffe e comparsate di tutti i principali personaggi DC rivisti in questa nuova ambientazione.

Millar, qui coadiuvato da una squadra di disegnatori non sempre all’altezza, compresse in una miniserie di tre albi la sua personale rivisitazione del Miracleman di Alan Moore, provando a immaginare un essere dai poteri sconfinati alla guida del mondo. Lasciando saggiamente da parte le profonde riflessioni dello sceneggiatore inglese, gli preferì il divertissement fine a se stesso, giocando crudelmente con le icone di DC Comics e virando tutta narrazione verso il sensazionalismo. Finale alla The Twilight Zone compreso.

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(Marco Andreoletti)

The Order of the Stick, di Rich Burlew

Nato come tutti i webcomic della preistoria del genere sul sito personale del suo creatore Rich Burlew – Giant in the playground, che utilizzava soprattutto per pubblicare recensioni di giochi da tavolo – The Order of the Stick all’inizio era una semplice serie di battute ultranerd su Dungeons & Dragons, come quelle che ogni giocatore ha sempre fatto intorno al tavolo con gli amici, tra un tiro di dadi e un sorso di bibita gassata. 

La prima tavola, pubblicata il 29 settembre 2003, gioca su cosa succede ai personaggi del party durante il passaggio dalla terza edizione a D&D 3.5, quando quasi tutte le classi furono potenziate in un bilanciamento complessivo “verso l’alto” dei loro poteri. I disegni, super stilizzati e realizzati con una versione ormai preistorica di Adobe Illustrator, si inserivano perfettamente nel filone di webcomic minimali disegnati male. Il titolo stesso della serie giocava con il fatto che i suoi protagonisti fossero degli “stickmen”, omini stilizzati.

Per qualche mese il fumetto continuò su questi toni, con battute metanarrative e sfottò sui bardi. Pian piano, però, Burlew iniziò a inserire una trama orizzontale, ad allargare il cast, ad approfondire i personaggi. Le semplici battute sui bonus nei tiri per colpire lasciarono il posto a cicli ispirati agli stereotipi del fantasy. Il livello dell’intreccio non è quindi particolarmente raffinato, pur non mancando colpi di scena e personaggi interessanti. Ricorda molto, senza sorpresa, una lunghissima campagna di D&D in mano a un buon master, in cui i giocatori – e in questo caso i lettori – si affezionano ai personaggi perché ne seguono per anni e anni l’evoluzione più che per la loro originalità. 

La sua forza, infatti, sta nell’essere riuscito a fidelizzare i lettori, tanto che ancora oggi, a distanza di 20 anni, la serie continua a uscire. Nel 2008 vinse anche un Eagle Award come miglior webcomic, e fu candidato allo stesso premio come miglior graphic novel, perdendo contro La lega degli straordinari gentlemen: Black Dossier di Alan Moore e Kevin O’Neil.

Il seguito di pubblico numeroso e fedele di Order of the Stick si mostrò con tutta la sua forza in particolare in occasione della riedizione di War and XPs, terzo dei volumi autoprodotti in cui Burlew raccoglieva i cicli della saga. Per finanziario, lanciò una campagna su Kickstarter, che, grazie a quasi quindicimila sostenitori, raccolse oltre un milione di dollari (per l’esattezza 1.254.120 dollari) a fronte dei 50 mila necessari: il primo fumetto a superare i sei zeri in una campagna di crowdfunding, e un risultato superato soltanto nel 2020 da BRZRKR, progetto che aveva però alle spalle ben altra organizzazione.

(Alberto Brambilla)

Don Zauker, di Emiliano Pagani e Daniele Caluri

fumetti 2003 don zauker

Don Zauker, il prete esorcista creato da Emiliano Pagani e Daniele Caluri e pubblicato in origine sulle pagine del Vernacoliere, è il più irriverente, sboccato, e profano personaggio a fumetti italiano.

Secondo la coppia di autori, anche nota con il nome di Paguri, Don Zauker è «l’incarnazione dei peggiori vizi dell’uomo e non fa assolutamente niente per nasconderlo.» Nonostante ciò, il pubblico lo ama ormai da 20 anni, e nel 2007 si aggiudicò ben tre Premi Micheluzzi al Napoli Comicon: Miglior Serie Umoristica, Miglior Sceneggiatura Umoristica e Miglior Disegno Umoristico.

Il successo di Don Zauker è stato la bussola del suo particolare percorso editoriale. Dalle pagine del Vernacoliere, dove ha spopolato sin dal suo debutto, ai volumi pubblicati da Feltrinelli, una della maggiori case editrice italiane. In mezzo albi autoprodotti direttamente dai Paguri, sull’onda della grande richiesta dei lettori, letteralmente andati a ruba.

Cinico, anticlericale, violento, razzista, il prete si è fatto strada a colpi di battutacce grazie alla sua irriverenza e a una sfrontata ironia. I Paguri lo hanno plasmato un po’ alla volta, raccontandolo in storie di varia lunghezza, stratificandolo in modo sfaccettato, arricchendolo di riferimenti alla realtà, alla società, all’attualità. Negli anni lo hanno reso un personaggio totalmente libero, attraverso il quale poter a loro volta esprimersi liberamente. Un principio che ha reso il personaggio un’icona del fumetto italiano e un simbolo della satira.

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(Andrea Queirolo)

Sleeper, di Ed Brubaker e Sean Phillips

Pubblicata originariamente sotto l’etichetta Wildstorm di DC Comics, Sleeper fu la serie che lanciò definitivamente la carriera di Ed Brubaker, oltre che il primo lavoro dello sceneggiatore in coppia con Sean Phillips, con il quale avrebbe in seguito creato uno dei più importanti sodalizi artistici degli ultimi 20 anni.

Sleeper segue le vicende di Holden Carver, un super agente in bilico tra il bene e il male, che si ritrova infiltrato in una organizzazione criminale ma allo stesso tempo privo di nuove direttive dai propri superiori (che sono fuori causa per un periodo indeterminato). Toccherà a lui dunque scegliere che strada prendere, se assecondare i cattivi o cercare di sconfiggerli tutto da solo. La serie – che univa tematiche supereroistiche con atmosfere noir – si inseriva all’interno della continuity ufficiale dell’universo narrativo creato da Jim Lee, ma al tempo stesso era perfettamente leggibile senza alcune particolari conoscenze pregresse.

Con Sleeper, Brubaker sembrò voler rielaborare il classico “supereroe con superproblemi” di Stan Lee in maniera diversa dal solito, dando al personaggio principale un problema davvero insuperabile, con Carver si trova a lottare il “male” dall’interno, pur essendo in parte anche costretto ad assecondarlo. Il tutto condito da tanta azione, un po’ di introspezione, teorie cospirative e misteri a ripetizione.

Sleeper fu una delle migliori e più peculiari serie supereroistiche dei primi anni del Duemila, grazie al modo brillante in cui ruotava intorno a un personaggio non del tutto positivo. Da rileggere oggi per riscoprire i primi passi nel mainstream di uno sceneggiatore fondamentale per il fumetto contemporaneo come Brubaker.

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(Andrea Antonazzo)

Pyongyang, di Guy Delisle

Fare il direttore dell’animazione è un lavoro che ti porta in giro per il mondo. Soprattutto se la produzione delle serie per cui lavori è delocalizzata in Asia. Per questo il canadese Guy Delisle, nei primi anni Duemila, si ritrovò prima in Cina e poi in Corea del Nord, a supervisionare gli animatori locali. Dalle due esperienze nacquero altrettanti libri a fumetti, Shenzen (2000) e Pyongyang (2003), entrambi pubblicati da L’Association. Il primo è incentrato tutto sul disorientamento dell’autore nel trovarsi in una società così diversa come quella cinese, il secondo è decisamente più interessante, perché apre finestre sulla vita quotidiana di un Paese isolato come la Corea del Nord, sulla condizione della sua popolazione e su cosa succede a un occidentale quando ci finisce. E fu non a caso il libro con cui l’autore fu conosciuto anche in Italia.

Pyongyang si struttura come un vero e proprio diario di viaggio. L’autore aveva annotato giorno per giorno i fatti più interessanti o più buffi che gli erano capitati, per metterli poi “in bella” una volta a casa. Il libro è una raccolta di tanti piccoli momenti divertenti annegati in quel mare di noia – per l’autore, non per il lettore – che è la vita di un forestiero nel Paese orientale. Impossibilitato a girare da solo in città, con sempre la guida o l’interprete al seguito, quasi recluso tra l’albergo per gli stranieri e lo studio di animazione, Delisle non aveva quasi nulla da fare quando non lavorava. Ed è proprio questo a rendere così interessante il suo racconto.

Trovano così spazio, sul suo taccuino, l’osservazione di tantissimi piccoli dettagli che a un uomo mediamente indaffarato sarebbero sfuggiti. L’autore ci parla delle variazioni nell’offerta del buffet dell’albergo a seconda della presenza di ospiti importanti; commenta le manie dei colleghi coreani e l’onnipresenza delle immagini del dittatore Kim Jong-il e di suo padre Kim Il-sung; ci parla della scarsa igiene dei tavoli del ristorante e delle canzoni di propaganda ascoltate ossessivamente dalla segretaria di produzione. 

Insieme alla noia, i due temi ricorrenti sono l’incomunicabilità con i nordcoreani e l’impatto della propaganda nella vita di tutti i giorni. Delisle si rende presto conto che per lui è impossibile capirsi sul serio con guida e interprete, nonostante questi parlino francese. I loro riferimenti culturali sono troppo lontani, loro non sono in grado di capire i suoi bisogni, lui rimane costantemente sbigottito davanti alla cieca osservanza della dottrina del Partito. 

È questo, infatti, ciò che colpisce maggiormente il lettore di Pyongyang, la fede totale e sincera che dimostrano le persone con cui Delisle entra in contatto. Se alcune situazioni sono chiaramente una prova di forza a beneficio degli occidentali, in altre traspare un sentimento profondo, incomprensibile. Il fumettista si domanda spesso quanto i suoi interlocutori credano davvero a quello che proclamano e quanto sia un atteggiamento di facciata. Ovviamente senza che gli sia possibile giungere a una risposta.

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(Alberto Brambilla)

Invincible, di Robert Kirkman, Cory Walker e Ryan Ottley

Sceneggiata da Robert Kirkman per tutti i 144 numeri della sua durata e disegnata quasi interamente da Ryan Ottley – che subentrò a Cory Walker dal numero 8 – Invincible partì in maniera piuttosto tradizionale, focalizzandosi sulla doppia vita di Mark Grayson, figlio adolescente del potentissimo Omni-Man, e sul suo percorso di apprendistato come difensore della Terra. Da un incipit così abusato – quello del figlio di supereroe è ormai un genere codificato a sé, che va da Robert Rodriguez a My Hero Academia – si sviluppò però ben presto una narrazione enorme, piena di personaggi, eventi catastrofici e di una violenza più vicina agli esperimenti di Warren Ellis per Avatar Press che ai consueti canoni Marvel/DC.

Nata da una specifica richiesta di Image Comics, che all’epoca cercava personaggi per una nuova linea di supereroi, Invincible fu sviluppata in seguito alla bocciatura da parte degli editor del pitch per Science Dog. Si trattava di una serie incentrata su di un cane avventuriero antropomorfo, che sarebbe stata in seguito inserita nell’universo di Mark Grayson come fumetto preferito del protagonista. 

Partendo da simili presupposti, improntati sull’escapismo più puro e velatamente nostalgico, non stupisce come i primi numeri fossero molto conservativi e rassicuranti. L’atmosfera era quindi quella dell’affettuoso omaggio ai supereroi e alla loro vita segreta. La scrittura era brillante – nei limiti di Kirkman – e i disegni di Walker chiari e luminosi. Poi, tutto a un tratto, subentrò un elemento che sarebbe diventato una costante nella vita editoriale di Invincible: la violenza estrema.

Si trattava di uno dei primissimi casi dove le conseguenze di una scazzottata tra esseri dotati dei poteri di un Dio venivano rese in maniera esplicita. I corpi si deformavano sotto il peso di colpi pesanti come un maglio da fucina, il sangue scorreva a fiumi e a terra rimanevano un bel po’ di morti.

Kirkman e Ottley hanno mantenuto il controllo della loro creatura per tutta la durata della pubblicazione e non hanno mai ceduto al fascino di reboot o rilanci cari. Questo ha permesso a Invincible di mantenere una linea coerente, aumentando con il passare dei numeri la scala degli eventi, passando da slice-of-life surreale a saga cosmica con annesso genocidio. Le guerre sono diventate sempre più crude e interi pianeti sono stati resi al suolo, mentre la dinastia Grayson si estendeva sempre più, tracciando una sorta di trait d’union tra Savage Dragon e Dragon Ball.

Invincible è ricordata ancora oggi però anche per le sue provocazioni, come l’infinita scena di combattimento intrisa di ultraviolenza che va dal numero 61 al 64 o la scena di stupro dove Mark è violentato dall’aliena Anissa, ma prima di tutto per il respiro dato a un genere troppo spesso figlio di gestioni manageriali asfittiche e febbrili. Robert Kirkman e Ryan Ottley non sono Grant Morrison e Frank Quitely, ma la loro coerenza nella gestione di una storia così ampia gli ha permesso di far finire Invincible tra i titoli di supereroi più interessanti delle scorse decadi.

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(Marco Andreoletti)

Il fotografo, di Didier Lefèvre ed Emmanuel Guibert

Autore poliedrico, capace di svariare dalle storie per i più piccoli al racconto impegnato, il francese Emmanuel Guibert ha dedicato gran parte del suo lavoro a opere dal taglio cronachistico o documentativo, affrontando spesso il tema della guerra. Il fotografo rientra tra questi ed è uno dei fumetti più importanti realizzati in carriera dall’autore, uscito proprio nel 2003.

Il libro ricostruisce la missione del fotoreporter Didier Lefèvre con Medici Senza Frontiere in Afganistan nel 1986 per prestare soccorso nelle regioni del paese durante l’occupazione sovietica. Lo fa attraverso un minuzioso lavoro di ricerca nell’archivio di Lefèvre, mettendo ordine tra le circa quattromila foto in bianco e nero scattate e ricostruendo la vicenda inserendole tra vignette di fumetto.

Guibert provò a visualizzare tramite il disegno quello che Lefèvre non era riuscito a immortalare all’epoca. Il risultato è un racconto drammatico sulla situazione della popolazione afgana durante quei tragici anni, sull’orrore della guerra, sulla sofferenza umana, ma anche sull’impegno dello stesso fotografo e sulle sue difficoltà ad andare fino in fondo alla sua missione.

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(Andrea Queirolo)

JLA/Avengers, di Kurt Busiek e George Pérez

fumetti 2003 jla avengers

Pubblicato in collaborazione da Marvel e DC Comics nel 2003, JLA/Avengers aveva alle spalle una storia quasi ventennale fatta di litigi, false partenze e interruzioni improvvise, iniziata all’inizio degli anni Ottanta (e che noi abbiamo raccontato qui). Ma JLA/Avengers fu anche il progetto dei sogni di Pérez, disegnatore dal tratto meticoloso e noto per essere “quello che disegna le pagine piene di personaggi”, che per realizzare questo lavoro si procurò persino un’infiammazione al tendine della mano destra.

Alla fine di un lungo processo creativo e organizzativo, la storia prese la forma di una miniserie in quattro parti, due pubblicate da Marvel e altrettante da DC. La trama constisteva perlopiù nel coinvolgimento, in un modo o nell’altro, di tutti coloro che fino ad allora erano stati membri di entrambi i gruppi, e che si ritrovarono a fronteggiare le macchinazioni di due classici avversari come il Gran Maestro e Krona.

La storia è solida e avvincente ma soprattutto regala tanti momenti memorabili, grazie anche alla bravura di entrambi gli autori nel gestire tavole e scene piene di personaggi, senza però renderle (troppo) caotiche. A fare la voce grossa sono ancora oggi perlopiù i disegni di Pérez, che trasudano dell’amore per i personaggi e i loro universi narrativi.

Tra i fumetti pubblicati nel 2003, JLA/Avengers è quello che probabilmente fa leva sull’effetto nostalgia nel modo più peculiare di tutti: dopo stagioni in cui i superoi di Marvel e DC Comics si sono incontrati a più riprese – a partire da Superman & l’Uomo Ragno del 1976 – questo rimane infatti a tutt’oggi il loro ultimo incrocio ufficiale.

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(Andrea Antonazzo)

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