
H. P. Lovecraft scriveva: «L’emozione più vecchia e più forte del genere umano è la paura, e la paura più vecchia e più forte è la paura dell’ignoto». Di questo assunto, Junji Ito ne ha fatto la linea guida della sua autorialità, totalmente fondata sulle sfumature ignote e orrorifiche del quotidiano. Ito, ormai riconosciuto come maestro assoluto del manga del terrore, parte da istanze reali, conosciute, quotidiane, e le spinge oltre i limiti, immergendole nella paura, nell’assurdo, nell’estremo.
Junji Ito Maniac, su Netflix, è una serie animata realizzata con la collaborazione dello Studio Deen, che aveva già prodotto una serie tratta dalle storie dello stesso autore (Junji Ito: Collection, disponibile su Crunchyroll). La serie è composta da dodici episodi, per un totale di 24 storie. Chi conosce l’opera di Ito si ritroverà immerso nelle sue atmosfere malate, distorte, disfunzionali e in episodi già noti, tratti da suoi manga più o meno conosciuti.
Non c’è una connessione tra un episodio e l’altro, salvo qualche caso in cui un personaggio o un elemento compare brevemente per poi essere centrale altrove, come per esempio la cantante protagonista di Palloncini appesi, che appare anche in un episodio precedente.
La scelta di assegnare una durata breve ai singoli episodi (24 minuti per quelli lunghi, 12 circa per quelli brevi) funziona per la quantità di situazioni fantastiche al limite dell’assurdo in cui veniamo proiettati, ma talvolta si ha la sensazione di incompiutezza. Non tanto per la scelta di non offrire alcun tipo di spiegazione o addirittura di finale vero e proprio, ma per una generale mancanza di equilibrio narrativo.
Le situazioni orrorifiche in cui Junji Ito Maniac ci immerge sono le più svariate: si va dalla famiglia folle e disagiata, perseguitata dai genitori morti di I bizzarri fratelli Hikizuri, alle abitazioni maledette e mutevoli di Muffa, da lapidi erette nel punto esatto in cui le persone muoiono di La città delle lapidi a una rielaborazione del tema del mostro marino in Oggetti trascinati a riva, dalle rivalità di Tomie alle inquietanti teste-palloncino appese pronte a ucciderti in Palloncini appesi. Junji Ito Maniac, insomma, offre tutto il repertorio del mangaka, che i lettori dei suoi fumetti già conoscono molto bene.
Gli amanti dell’orrore si troveranno di fronte a un mondo con precise caratteristiche: Ito, nelle sue storie, si diverte a smembrare, mutare, frantumare, distruggere i corpi dei suoi personaggi, seguendo la lezione dell’horror cinematografico degli anni Ottanta (Hellraiser, Tetsuo, Society – The Horror, Re-Animator) e in particolare di David Cronenberg. Regista che, con la sua idea della “nuova carne” segnò un punto altissimo della storia del genere, coniugando la paura viscerale e fisica con un solido impianto filosofico a supporto.
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Ito, forte di una tradizione di stampo animista tutta giapponese, riesce invece a innestare a questi elementi narrativi concreti anche altri fattori più astratti, eterei, come l’idea di dimensioni parallele, spiriti infestanti e via dicendo. C’è un connubio di corporeo e incorporeo che, a sua volta, si integra con un racconto della società contemporanea e nipponica in particolare, estremizzando quindi temi come il bullismo, la genitorialità, la solitudine e la rivalità, in forme destinate a colpire l’occhio e la mente dello spettatore.
Da questo punto di vista, Junji Ito Maniac rispetta le caratteristiche prime dell’autore giapponese e restituisce, in parte, quelle sensazioni di fastidio e fascino che si provano nello sfogliare i suoi manga. Non si può dire, però, che la serie sia riuscita. Da un punto di vista tecnico, Junji Ito Maniac soffre di grandi limiti: le animazioni sono spesso statiche, la regia è banale, il character design – pur seguendo quello di Ito – è poco incisivo. Persino la fotografia e le scelte cromatiche non sono all’altezza: sebbene ci siano scelte interessanti, come quella di virare sul rosa l’episodio L’autobus dei gelati, tutto il resto sembra figlio di un’estetica e di un’idea di messa in scena di vent’anni fa.
Sembra, insomma, che quel segno grafico, quel bianco e nero graffiante, quelle chine, quella regia che troviamo nei manga di Junji Ito, fatichino a trovare una rappresentazione, una trasposizione in altro medium che sia all’altezza. Come se fosse impossibile rappresentare l’orrore assoluto al di fuori delle pagine inquietanti di uno dei mangaka più importanti degli ultimi quarant’anni.
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