
I bambini piccoli che provano a fare da soli una cosa da adulti, come preparare la merenda o pagare la spesa, fanno sorridere per la loro buffa e involontaria imitazione dei gesti dei grandi, ma anche per l’orgoglio con cui dimostrano a sé stessi di essere autonomi. Vederli all’opera è uno spettacolo insieme divertente e tenero, che non a caso in Giappone è diventato un programma televisivo, Old Enough!, in onda con successo dagli anni Novanta.
Se però viene a mancare la cornice affettuosa di familiari adulti che rimuovono pericoli e difficoltà, la condizione di un bambino che fa tutto da solo assume all’improvviso una connotazione molto diversa. È questa per esempio la situazione raccontata nella serie animata Kotaro abita da solo, tratta dal manga di Mami Tsumura (pubblicato in Giappone dal 2015 ma inedito in Italia), diretta da Tomoe Makino per Liden Films e distribuita da Netflix.
A 4 anni e mezzo, Kotaro si trasferisce da solo in un monolocale all’interno di uno squallido palazzo. Il suo vicino, un mangaka di nome Karino che esce a malapena di casa e non riesce a far decollare il suo lavoro, vorrebbe continuare a vivere come ha sempre fatto ma non ci riesce, sia perché è impossibile ignorare le implicite richieste di attenzione di Kotaro – che pure è autonomo in tutto – sia perché grazie al bambino comincia a familiarizzare con i vicini di cui ignorava persino l’esistenza: Mizuki, una bellissima ragazza che lavora in un hostess club ed è imprigionata in una relazione tossica, e Tamaru, un uomo dall’aria poco raccomandabile che proietta su Kotaro quell’affetto che non riesce a esprimere al figlio.
Per quanto incapaci di risolvere i loro problemi, tutti e tre gli adulti si sforzano di essere presenti nella vita del bambino e, imparando le sue abitudini, vengono a conoscenza della sua difficilissima situazione familiare. Kotaro sorride poco e non piange mai. Parla con il linguaggio arcaico di Tonosaman, il samurai dei cartoni animati serali che guarda per riuscire ad addormentarsi. Convinto che la disgregazione della sua famiglia sia colpa sua, nutre la speranza che, diventando forte, i suoi genitori torneranno a volergli bene, e tutti i loro problemi si risolveranno.
In Kotaro abita da solo il mondo degli adulti mostra tutte le sue contraddizioni attraverso personaggi irrisolti, incapaci di aderire ai ruoli sociali che dovrebbero ricoprire: chi deve fare il genitore è assente o è una minaccia o è incapace di comunicare, chi mostra tutti i requisiti da fidanzatina perfetta si ritrova un partner scroccone e violento, chi fa manga non riesce a disegnare come si deve.
A queste falle del mondo adulto cerca di sopperire il personaggio bambino: Kotaro finisce infatti con l’avere un ruolo risolutivo nelle vite di chi gli sta intorno, e in questo senso ricorda sia i piccoli protagonisti che gridano quelle verità che nessuno vuole sentire e vedere in famose strisce a fumetti – da Buster Brown di Richard F. Outcault a Mafalda di Quino, da Calvin & Hobbes di Bill Watterson a Cul de Sac di Richard Thompson – sia le bambine “salvifiche” di certi romanzi ottocenteschi per ragazzi, capaci di curare gli adulti da egoismo e traumi con il loro ottimismo – da Heidi di Johanna Spyri ad Anna dai capelli rossi di Lucy Maud Montgomery.
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Eppure, muovendosi in un contesto realistico più duro o forse semplicemente meno edulcorato, Kotaro non fa miracoli e resta pur sempre un bambino che affronta una situazione difficile con i mezzi che ha, per forza di cose inadeguati e insufficienti. E se da una parte smaschera con candore i problemi degli adulti che gli stanno accanto, quando pensa ai suoi genitori non può che vederli come quelle creature meravigliose che in realtà non sono, giustificando e accettando comportamenti che, dal punto di vista di Karino e di chi guarda, appaiono innegabilmente abusanti, anaffettivi e irresponsabili.
In Giappone si usa un termine specifico, hochigo, per indicare i bambini abbandonati a sé stessi da genitori poveri, troppo presi dal lavoro o semplicemente indifferenti, segno che si tratta di un problema sociale abbastanza diffuso. Ci sono diversi film che lo raccontano, tra cui Tokyo Godfathers (2003) di Satoshi Kon, Nobody Knows (2002) di Hirokazu Kore-eda e L’estate di Kikujiro (1999) di Takeshi Kitano. Kotaro abita da solo si riallaccia al tono di quest’ultimo nel presentare una situazione drammatica in una chiave commovente e non priva di speranza, facendo intuire il disagio e le responsabilità degli adulti assenti ma concentrandosi sul punto di vista del bambino, per ridargli finalmente quella centralità – e quella cura – che merita.
Tutto questo è reso attraverso un’animazione asciutta e senza fronzolie un disegno essenziale e spartano, che riprende fedelmente gli stilemi del manga di Tsumura, in particolare la scelta di disegnare gli occhi con una pupilla verticale e rettangolare. Slice of life commovente ma mai stucchevole, da vedere a cuor leggero ma non troppo, Kotaro abita da solo restituisce l’immagine di Giappone problematico che non corrisponde ai suoi standard di efficienza, e che per questo risulta più umano e interessante.
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