
Cosa ti rimane di un libro, di una canzone, di un videogioco o un fumetto, di un film o di una serie? Poche, pochissime cose. Un’atmosfera, una sensazione, spesso e volentieri un luogo. Come un sogno o una vacanza ormai quasi dimenticata: c’è un genius loci, un piccolo genio nascosto dentro ogni luogo, reale o immaginari, che sia New York o l’isola che non c’è, Los Angeles o Tatooine. Un genio che ci entra nella testa e rimane a viverci, senza pagare l’affitto. Quel genius loci era dentro un videogioco e adesso è passato nella serie che ne è stata tratta, e su di noi ha il medesimo effetto. Ci piace.
Mi riferisco ovviamente a The Last of Us, la serie televisiva post-apocalittica che sta aprendo un dibattito molto ampio e interessante a partire da un concetto: se il videogioco è bello come un film, perché allora la serie non deve essere bella come un videogioco? The Last of Us, nel caso frequentiate una scuola steineriana e viviate deprivati di qualsiasi strumento di comunicazione o di intrattenimento di massa, analogico o digitale che sia, è un videogame di quelli tosti. Creato nel 2013 da Naughty Dog, diretto da due autori “veri” (Neil Druckmann e Bruce Straley) è in realtà l’incidente che prima o poi doveva avvenire, la collisione tra videogame e serie tv.
La storia la sapete: post-apocalittico (invasione funghina), rivisita l’idea degli zombi nell’ennesima variazione del tema. I protagonisti, dopo che la civiltà è stata decimata dall’infezione, vivono nelle zone di quarantena. Joel, contrabbandiere un po’ stupido e duro, deve portare Ellie, ragazzina con un mistero al seguito, fuori dalla zona di quarantena. Sacrifici, cinismo, horror ma anche un bel po’ di geopolitica. Dentro sono congelati orrori ed errori della società americana assieme a paure più generali che risuonano con il resto di noi.
La cosa più strana della post-post-televisione è che puoi vedere l’originale su YouTube (o sulla tua PlayStation). The Last of Us è diventato famoso non solo per la storia ma anche per la grafica e la recitazione, e le numerose scene di raccordo. Paragonato più volte a un film – con la sua storia forse non originale ma certamente costruita come un vero filmone – è stato uno dei “titoloni”, quei best seller con cui tutti i videogiocatori fanno i conti. Su YouTube trovate anche in italiano i walkthrough che, più che procedure dettagliate su come risolvere il gioco, sono veri e propri film. Basta cercarne uno, magari in italiano, mettersi comodi, tirare fuori i popcorn e godersi quelle sei o sette orette di grande intrattenimento.
Veniamo alla serie tv. È stata fatta e costruita partendo dall’aspetto visivo e cinematico del videogioco, ricostruendo le scenografie (e anzi, sfruttando asset digitali del gioco) con la collaborazione dei due registi e autori del videogame più lo showrunner Craig Mazin. È un lavoro di completamento, un avvicinamento molto fedele che interpreta in senso migliorativo (un po’ si può sempre migliorare) ma soprattutto che si può basare su una piattaforma, quella del videogame, narrativamente e visivamente già predisposta al salto di specie. Dalla console allo streaming.
A questo punto si entra nel vivo: com’è che ha avuto tutto questo successo già con tre puntate? Semplice: il cast molto pop e un’emozione strana che viene dal genius loci di questa serie. Il cast ruota attorno a Pedro Pascal, che fa ovviamente la parte di Joel Miller, e a Bella Ramsey, che invece interpreta Ellie Williams. Pascal, classe 1975, originario di Santiago del Cile ma naturalizzato americano, è diventato l’attore centrale del momento, al punto che si è guadagnato anche una copertina su Wired edizione americana (tra tutte le possibili riviste) e compare in qualsiasi cosa, da Wonder Woman 1984 alla serie ambientata nell’universo di Star Wars The Mandalorian.
Ma ha fatto anche qualche giro nel Trono di Spade, in Narcos e chi più ne ha più ne metta. Insopportabile e sciapo, con una recitazione eccessiva e sempre sopra le righe e un volto da caratterista, funziona meglio quando deve indossare una sola faccia, possibilmente quella di una maschera (tipo l’elmo di Mandalorian). Niente da dire sul fatto che abbia fatto un bel po’ di teatro, soprattutto Shakespeare (un Re Lear, un Macbeth, due diversi Amleto), tuttavia a modesto avviso di chi scrive rimane un improbabile miracolato, che fa sembrare Michael Ironside un grande interprete del cinema contemporaneo.
Il discorso cambia con Bella Ramsey, classe 2003, che è semplicemente ipnotica. Anche lei, nonostante la giovane età, è passata attraverso un bel po’ di produzioni, tra cui ovviamente Il Trono di Spade e varie altre cose. Lei porta la gravitas che manca a Pascal e restituisce profondità non solo al personaggio di Ellie ma soprattutto a tutta la narrazione.
E veniamo al punto centrale. Il posto. Il genius loci. L’emozione di un luogo (o di una serie di ambientazioni) che ti appassionano e a cui ti affezioni, di cui hai nostalgia. Oppure semplicemente paura. Perché sono gli sfondi quelli che fanno la differenza. E lo sfondo di The Last of Us è stato pensato bene, molto bene. Se le storie che raccontiamo sono sempre quelle dall’alba dei tempi e quel che cambia è il modo con cui le decliniamo, i fondali e le ambientazioni, sia il videogioco che la serie tivù portano dentro un sapore di mondo, un odore di terra americana, un gusto per la luce che va al di là di un semplice sceneggiato. È un lento e ben costruito viaggio attraverso le fantasia e gli orrori di un popolo, la quotidianità che viene travolta e rivista, come forse Dante Alighieri aveva saputo fare organizzando le pedine del suo inferno in versi.
The Last of Us non è la serie tv definitiva e anzi, è presto destinata a scontrarsi con i limiti che la produzione ha più o meno consapevolmente inserito, tra cui una narrativizzazione a tratti eccessiva e attori non sempre giusti, ma potrebbe farlo solo fra un bel po’ di tempo. E allora intanto vale la pena godersela per bene. Perché la sua trama che si snoda attraverso l’America, come un romanzo on the road, sottolineato dal passare del tempo e dalla declinazione delle stagioni di una natura gigantesca e indifferente ma che, assieme al fungo assassino, ha devastato di fatto la nostra civiltà, è un vero spettacolo.
Ha una briciola di novità, di “non già visto” (che nella civiltà del remake in cui viviamo è veramente tanta roba), mentre la scelta di essere intimisti, di toccarla piano (anche se presto le cose belle toste arriveranno) sta pagando alla grande. Ci voleva.
Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.
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