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FocusIntervisteBonvi: il fumetto, la critica e la censura, in un'intervista del 1974

Bonvi: il fumetto, la critica e la censura, in un’intervista del 1974

bonvi intervista 1974 fumetto
Bonvi al tavolo da disegno, con una tavola dell’episodio di Nick Carter “…Ottobre!”. Si ringrazia Sofia Bonvicini per la foto.

Lavorando alla curatela di Nick Carter Story per Editoriale Cosmo mi è capitato di imbattermi in un articolo molto interessante e dimenticato. Si tratta di un’intervista che Bonvi rilasciò quasi mezzo secolo fa a Giulio Cesare Cuccolini, decano e Gran Maestro di tutti noi fumettologici, per la rivista Il Fumetto dell’Associazione Nazionale Amici del Fumetto (per gli amici Anaf, oggi Anafi).

Oltre alle sue risposte su Sturmtruppen e Nick Carter, ai suoi pareri sulla critica e su maestri e colleghi, è interessante rileggerla oggi perché fotografa un momento particolare della vita del fumettista, già famoso ma che non aveva ancora realizzato i suoi progetti più autoriali e maturi, come L’uomo di Tsushima e Cronache del dopobomba.

Dalle sue parole (oltre ad alcune espressioni che la sensibilità odierna giustamente non approverebbe) traspare il carattere iconoclasta, anarchico, orgoglioso che ben ricordano le persone che l’hanno conosciuto, in una conversazione con meno filtri del solito grazie al fatto di essere stata pubblicata su una rivista per appassionati.

Oltre all’intervista, Il Fumetto 14 del maggio 1974 pubblicò un vero e proprio “dossier Bonvi”, aperto da una biografia e da una serie di giudizi critici sul fumettista modenese firmati da Luciano Secchi/Max Bunker, Maria Grazia Perini, caporedattrice di Eureka e di Editoriale Corno, e Giancarlo Francesconi, direttore del Corriere dei Ragazzi, estratti da introduzioni di libri e raccolte di strisce. Inoltre pubblicava due storie inedite: una breve di fantascienza, Il campo di Liebowitz, e addirittura un episodio di Nick Carter, intitolato …Ottobre!.

La presenza di quest’ultimo su Il Fumetto fu dovuta al rifiuto proprio di Francesconi di pubblicarla sul settimanale che dirigeva, e su cui uscivano regolarmente le avventure del piccolo detective, in una vita editoriale autonoma e parallela rispetto agli episodi televisivi di Gulp! (1972) e Supergulp! (1978). Il Corriere dei Ragazzi lo aveva rifiutato perché (parole del direttore riportate da Cuccolini) «non si scherza con le cose serie».

Secondo Alfredo Castelli, amico di Bonvi e anche redattore della rivista, c’era anche una motivazione politica, perché l’argomento sarebbe risultato poco gradito ai genitori dei lettori del giornale, filiazione del Corriere della Sera e rivolto di conseguenza tipicamente ai figli borghesia italiana. In …Ottobre!, infatti, Nick Carter si trovava ad assistere alla Rivoluzione bolscevica nella Russia del 1917, ed era chiaro che l’autore parteggiasse per essa. Un episodio troppo di sinistra per via Solferino, soprattutto in un’epoca storica così politicamente calda come gli anni Sessanta.

Di seguito, ripubblichiamo per la prima volta l’intervista integrale uscita su Il Fumetto 14 del maggio 1974, per gentile concessione di Giulio Cesare Cuccolini. 

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Nel cuore di Bologna, al ter­zo piano di un vecchio pa­lazzo della centralissima via Rizzoli, spicca su una porta una targa in ottone su cui sta scritto in elegante corsivo inglese “Bonvicini”; una targa che ha girato mezzo mondo e che un nipote ha tolto dal baule da marinaio del nonno per fissarla sulla porta d’ingresso del proprio apparta­mento. Suono e viene ad aprirmi, sfo­derando un paio di biondi baffi alla francese, Franco Bonvicini alias Bonvi.

Entro ed una giovane signora (un’ammiratrice) col figlio s’ap­presta ad uscire. Il bambinetto è felice e porta con sé disegni e poster. Non è di tutti i bimbi poter andare da un disegnatore di fumetti e far man bassa. Bonvi è fatto così, quello che ha ti dà (peccato che io arrivi sempre do­po un qualche pargoletto).

L’aria è impregnata di nicotina, in un angolo sul tavolo da lavoro un bicchiere con un fondo di whisky. L’atmosfera è febbrile, da lavoro e quindi l’intervista (o meglio la chiacchierata) sarà veloce anche perché il giorno dopo Bonvi è di partenza per Parigi.

Bonvi è conosciuto, conosciu­tissimo e su di lui è stato scritto parecchio. Alcuni giudizi cri­tici sono ormai canonizzati. Lui stesso ne riconosce la validità e l’acume anche se ammette, al pari di tanti altri disegnatori, che al momento della creazione non è certo sua intenzione dire tutto quanto i critici intravedono nel­le sue storie e nelle sue strip. È sempre una scoperta, dichiara, leggere le recensioni che ti con­cernono: uno, in genere, s’accor­ge di aver detto cose che non si sognava nemmeno e si scopre culturalmente più impegnato di quanto credesse; ma dopo tutto il ruolo del critico non è inutile in quanto spesso aiuta lo stesso autore ad individuare quanto di inconscio ha operato in lui al momento del processo creativo.

A me interessa un ritratto me­no aulico di quest’autore di suc­cesso. Voglio andare al di là del­l’immagine stereotipa che la pub­blicità (e forse lui stesso, in al­cune occasioni) ha contribuito a creare, e conoscere qual è la real­tà quotidiana di lavoro di un di­segnatore giovane e già celebre in Italia e all’estero. Insomma gradirei un ritratto più sincero di uno già consacrato all’Olimpo del fumetto. Metto in funzione il registratore ed attacco a fargli domande e lo lascio parlare per­ché quando è sollecitato “tiene banco”. La bobina gira per un’ora e registra.

La prima tavola di “Il campo di Liebowitz”, racconto pubblicato per la prima volta su Il Fumetto 14.

È vero che con la striscia 1350 hai smesso di disegnare le Sturmtruppen?

Dopo quattro anni la striscia ac­cusava stanchezza. O uno tira fuori 200-300 gag, ne salva una trentina e le trasforma in altret­tante strisce o altrimenti uno smette. Non potevo continuare a fare trenta strisce ogni tre giorni lavorando come un matto e rinun­ciando a tutto. In luglio-agosto dello scorso anno mi sono reso conto che la striscia stava diven­tando una barzelletta da settima­na enigmistica e allora ho detto: fermi tutti! Preferisco darci un taglio netto, non pensarci per niente e quando me la sentirò riprendere la striscia.

Se ho capito bene si trat­terebbe d’una crisi di ispirazione da superlavoro, fenomeno nor­male — prima o poi — in ogni creatore artistico.

Sì, sì. Alle Sturmtruppen tengo molto. Non è come Nick Carter o altre cose che faccio. È una stri­scia ad un certo livello. Riguar­dando le ultime cose fatte mi sono accorto che non andavano.

Possiamo allora dire che come creatore artistico i tuoi “gioielli” sono le Sturmtruppen.

Sì, certo, senz’alcun dubbio.

Quando ritornerai alle Sturmtruppen pensi che lo farai con dei ripen­samenti?

No, non credo, perché è una striscia calibrata e giusta come mondo ed atmosfera. Via via ho eliminato motivi inseriti all’inizio e che ho scoperto esser superflui: gli ebrei, i riferimenti espliciti alla Seconda guerra mondiale ed altri che erano fuori luogo. Le Sturmtruppen sono un esercito che si colloca fra Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque e 08/15 di H. H. Kirst, descrivono cioè una certa situazione esisten­ziale; pretendere di inquadrarle ed individuarle storicamente è una forzatura.

Le Sturmtruppen quando fu­rono disegnate la prima volta erano dei marines con l’elmo a tartaruga, poi ripensandoci ho deciso che il prototipo del solda­to era quello prussiano. Oggi se dovessi ridisegnarle sceglierei il soldato tedesco degli inizi della Prima guerra mondiale, quello con l’elmo a chiodo: sarebbe più esatto e simboleggerebbe for­se meglio il militare, l’ubbidien­za, la sottomissione, il regolamen­to, la gerarchia insomma un eser­cito atemporale, un esercito e basta.

Che poi le Sturmtruppen sono un pre­testo. I critici scrivono che vo­glio fare dell’antimilitarismo, del pacifismo. No, io faccio cose che mi divertono e in tal modo de­scrivo delle situazioni. Per esem­pio quando vado in banca per scambiare un assegno ed il cas­siere va dal capufficio e questi dal direttore per il visto mi trovo di fronte ad un ambiente gerar­chizzato, militare; pur essendo in ambiente civile siamo già nelle Sturmtruppen Quando riprenderò le Sturmtruppen, e le pubblicherò su Paese Sera [il quotidiano su cui erano nate, N.d. Fumettologica], ri­comincerò pari pari dal punto in cui le ho lasciate come se fosse passato solo un giorno invece di 6 mesi o di più.

Hai detto che quando lavori cerchi di divertirti. In altre pa­role pur presentando il lavoro aspetti negativi (fatica, ripetiti­vità, ecc.) tu cerchi di farne, nei limiti del possibile, un motivo di divertimento personale. Le tue storie presentano dei momenti che si potrebbero definire im­pegnati. Orbene quest’impegno te lo poni come meta allorché crei?

Assolutamente no. Ciascu­no, al proprio livello, fa ciò che gli piace. Naturalmente risente di tutto quanto ha fatto, visto e letto, in una parola delle sue esperienze che trasfonde in ciò che produce. Non sono capace di fare cose a comando, non fac­cio l’impegnato su ordinazione. In tal caso andrebbe tutto alla malora: perderei in freschezza e s’annebbierebbe l’ispirazione.

Per esempio recentemente quelli della LID (Lega Italiana Divor­zio) mi hanno incaricato di fare una serie di strisce sul divorzio. Sulla base delle loro istruzioni non ne usciva niente. Ho man­dato tutto al diavolo, ho usato la mia chiave e ne è uscito qualcosa che mi pare carino e divertente. Sono poi i critici che dicono «Oh che bravo! Ha voluto dire que­sto e quest’altro». No. Non ho voluto dire un bel niente. Ho creato le mie storie perché mi di­vertivano e basta.

Se ho ben capito tu sostieni che la tua attività creatrice è un’attività di pura ispirazione per­sonale nella quale tu ti realizzi senza pretendere di assumere a priori alcun impegno di sorta.

Certo, se no chi me lo fa­rebbe fare di stare quotidiana­mente dalle 12 alle 14 ore dietro un tavolo da disegno, se non mi divertissi?

Spesso il critico lavora sul­la produzione artistica altrui in­tessendo tutta una serie d’in­terpretazioni. È interessante ve­rificare se il creatore delle strisce ha voluto esprimervi tutto quan­to il critico vi ha intravisto o se invece non si è impegnato a que­sto punto.

No, assolutamente. La cosa più divertente è quando incon­trando Pratt o qualche altro col­lega, costui, sbandierandomi la recensione di qualche critico, mi dice «Hai visto cosa volevo di­re? Che intelligente che sono!». Forse voleva anche dirlo ma non è sempre così. In effetti però il critico ha una sua funzione: quel­la di cercare di capire e far capire cosa l’autore ha voluto dire. E non bisogna scordarsi che l’auto­re stesso spesso non ne è co­sciente o almeno non lo è fino in fondo.

C’è indubbiamente qualcosa nel processo di produzione arti­stica che opera a livello inconscio e che involontariamente si trasmette alla mano ed emerge poi nel disegno e nei testi. Qualcosa al quale l’artista forse non pensa quando sta lavorando, ma che il critico riesce ad individuare a vol­te acutamente, a volte per niente.

Sì, è il caso di recensioni splendide sul piano formale, pie­ne di belle parole che non dicono un cavolo!

Puoi dirmi qualcosa di que­ste proiezioni personali nei tuoi lavori, nei tuoi personaggi?

Se leggi le mie storie t’ac­corgi in definitiva che sono sem­pre io il protagonista. Tutto quan­to uno fa è sempre una proie­zione di se stesso, positiva o ne­gativa, dei suoi desideri irrealiz­zati, delle sue ansie, delle sue aspettative. Al limite potrei dire che sono anch’io Nick Carter o Patsy o Ten, ovvero tutti e tre messi insieme. Li faccio agire co­me io agirei in quella situazione o meglio come penso che essi agi­rebbero in dette circostanze.

Inol­tre a moltissimi miei personaggi presto il mio volto per due mo­tivi: primo, perché mi diverte di più; secondo, perché è molto più facile quando ho bisogno di qualche espressione scendere in strada entrare in una di quelle cabine dove puoi ottenere quattro foto per cento lire, fare alcune espres­sioni o boccacce, ritornare nello studio e copiarle. Un modello mi costerebbe più caro e non sa­rebbe disponibile alle tre di notte.

Autoritratto di Bonvi nei panni del dirottatore di tram in “Andiamo all’Avana”, racconto pubblicato per la prima volta su Off-Side 7 (1970) e nato da un’idea di Francesco Guccini.

A proposito della tua origi­ne emiliana alcuni critici hanno parlato di un’influenza sul tuo umorismo che affonderebbe le radici in certe caratteristiche re­gionali. Concordi?

Sì, certamente. L’Emilia ha una grossa tradizione di umorismo viscerale, sanguigno. Quando uno muore, muore e basta. Quan­do uno si fa sodomizzare dietro Piazza Maggiore, è un fatto che è accaduto e basta. La gente ci ride sopra senza falsi moralismi. La vita viene presa così com’è.

Nelle Sturmtruppen c’è una certa fe­deltà descrittiva d’ambiente: le armi, le uniformi, la buffetteria, ecc. L’ho notato in quanto sono appassionato di armi.

Anch’io lo sono, e nelle Sturmtruppen e in Nick Carter (anche se con i colori me lo hanno assassinato) le uniformi e i particolari d’am­biente sono esatti. Son cose che mi piacciono e le faccio bene. D’altronde anche il grande Barks aveva capito che il disegno sep­pur comico deve rispettare la realtà come in un film.

Se ho ben capito si tratta del desiderio di creare una vero­simiglianza di ambiente nella qua­le inserire la storia comica.

Sì, esatto. L’umorismo sta tutto lì.

A proposito di certe strisce delle Sturmtruppen qualcuno (la Perini) ha parlato di “umorismo nero”. Cosa ne pensi?

L’umorismo è umorismo e basta. Siccome non so quello che diverte il lettore, faccio quello che diverte me. Per me non esi­ste umorismo bianco o nero e non credo si possa classificare. L’umorismo è ciò che fa ridere.

Mi riferivo a certe forme di grottesco, di assurdo.

Siamo sempre a livello di un divertimento personale.

Ritornando per un attimo sui criteri e sui loro giudizi a pro­posito del tuo lavoro (e gli mo­stro quelli allegati) vorrei saper cosa ne pensi.

Posso essere d’accordo al 70%. Spesso quando leggo le re­censioni mi chiedo fino a che punto il critico ha capito ciò che sta leggendo o vuol mostrare di aver capito. Per quanto riguarda i giudizi critici su di me, non me ne preoccupo granché.

A proposito delle Sturmtruppen e del loro linguaggio, che valore attri­buisci a far parlare il soldaten in “italiano tedeschicizzato”?

Quello di caratterizzare me­glio la striscia e poi perché il tedesco mi sembra una lingua che rende bene l’imperiosità del co­mando. Per questo spesso i cani sono addestrati in tedesco. La fonetica della lingua tedesca è quella giusta per comandare e per questa sua durezza fa ridere lo straniero. Per esempio, trovo che scrivere “Achtung Minen” sia più efficace, immediato e scop­piettante di “Attenzione, qui ci sono delle mine”.

Disegni a pennino o a pen­nello ?

Sempre a pennino.

Circa il tuo stile la Perini ha parlato di “grafia corposa”, Secchi di “segno deciso e cor­poso”, io aggiungerei “marcato segno rotondo”. Cos’hai da di­re in merito?

Premetto che non so dise­gnare e che agl’inizi facevo sforzi enormi per imparare. Ancora de­vo ricorrere a trucchi di mestiere, di tipo registico: per esempio sono negato per fare i piedi e nel­le Sturmtruppen spesso per togliermi d’impac­cio li nascondo dietro una cassa, una sedia, ecc. La mia forca pen­so risieda nella gag, nella bella battuta che risolve brillantemente la storiella. Nel disegno sono zero!

Chi è il disegnatore che ti ha influenzato maggiormente?

Carl Barks, senza dubbio. La sua abilità di ricostruire un ambiente in modo veritiero e fedele nel quale collocare non tanto degli esseri umani quanto degli animali — spesso nemmeno an­tropoformizzati — è magistrale.

Nelle ultime storie di Nick Carter mi pare di individuare delle bat­tute più impegnate o almeno più scopertamente allusive. Sono cose che senti o che ti vengono commissionate con la storia?

No, assolutamente.

Allora in Nick Carter o almeno ri­spetto al Nick Carter televisivo (in cui c’era un ambiente di detection tipo pochade) c’è stata un’evolu­zione.

No, in Nick Carter ci sono sempre state queste puntatine.

Ma anche in quello tele­visivo ?

No. Ero molto più legato, perché alla RAI stanno molto più attenti.

C’è allora una certa “cen­sura” da parte di chi commis­siona il lavoro.

A livello televisivo addirit­tura allucinante e spesso del tutto gratuita. A volte a metà lavoro ti bloccano e ti obbligano ad apportare rettifiche o a rico­minciare tutto daccapo. Nel Corriere dei Ragazzi è an­dato invece tutto bene perché Francesconi è un ragazzo in gam­ba.

Ma ti hanno rifiutato …Ot­tobre! ed a Lucca c’è stato uno scontro cordiale tra te e lui. Pos­siamo parlarne?

Certo.

Mi pare che la giustificazione di Francesconi fosse che al Corriere non avevano intenzio­ne di far ridere su cose serie.

Sì, in sostanza ha detto che la storia era qualunquista. Ma io credo che la storia non facesse ridere per via della Rivoluzione russa ma per quello che Nick Carter fa­ceva e diceva. Nick Carter lo faccio agi­re nelle situazioni più disparate e impensate: nella Prima guerra mondiale, nella Rivoluzione mes­sicana, ecc. Fra poco lo invierò sui laghi Masuri. A me serve che la situazione in cui opera Nick Carter sia interessante — possibilmente un fatto storico preciso che co­stituisca lo sfondo nel quale Nick Carter agisce, beninteso da Nick Carter, cioè come un personaggio comico.

Non si può pretendere che Nick diventi serio perché lo sfondo storico in cui agisce è serio. Po­trei rendere Nick Carter più satirico nei confronti di certi valori del­l’attuale società, ma non posso ignorare cos’è il Corriere dei Ragazzi e naturalmente devo inserire le battutine nei limiti con­sentiti dalla pubblicazione.

Una tavola da “…Ottobre!”, storia che sarà ripubblicata nel numero 5 di Nick Carter Story, in uscita a metà aprile 2023.

Che rapporto esiste fra il tuo Nick Carter e l’originale di Coryell?

Nessuno. Quando alla fine del 1969 – inizio del 1970 i funzionari della TV cominciarono a pensare a Gulp! volevano impostare la tra­smissione su due personaggi: Nick Carter e Petrosino (si faceva un’enor­me confusione fra romanzo ner­biniano e fumetti). Mi chiesero cosa volevo. Scelsi Nick Carter. Non l’ho mai letto e me ne guardo bene. So che è un detective e che ha degli aiutanti: questo mi ba­sta. Per il resto l’ho reinventato completamente.

Un’ultima domanda — qua­si mi dimentico di portela: Hai fatto il militare ? Quali sono sta­te le eventuali ripercussioni di questa tua esperienza sulle Sturmtruppen. 

Sì, ho fatto l’ufficiale e le Sturmtruppen sono nate da quell’esperienza, dall’incontro con la complicatis­sima e codificata prassi militare, con i regolamenti e tutto il re­sto. Mi ricordo che quando noi allievi arrivammo alla fine del gennaio 1963 alla scuola ufficiali fummo ricevuti da un maggiore in guanti bianchi, monocolo, sti­valoni e calzoni alla Flash Gor­don, con queste testuali parole: «Vi strapperemo i c… e v’infi­leremo ferri roventi nel c… ma faremo di voi degli uomini».

Tutto un programma! 

Bonvi ride sonoramente, come un emiliano sa ridere.

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