
Lavorando alla curatela di Nick Carter Story per Editoriale Cosmo mi è capitato di imbattermi in un articolo molto interessante e dimenticato. Si tratta di un’intervista che Bonvi rilasciò quasi mezzo secolo fa a Giulio Cesare Cuccolini, decano e Gran Maestro di tutti noi fumettologici, per la rivista Il Fumetto dell’Associazione Nazionale Amici del Fumetto (per gli amici Anaf, oggi Anafi).
Oltre alle sue risposte su Sturmtruppen e Nick Carter, ai suoi pareri sulla critica e su maestri e colleghi, è interessante rileggerla oggi perché fotografa un momento particolare della vita del fumettista, già famoso ma che non aveva ancora realizzato i suoi progetti più autoriali e maturi, come L’uomo di Tsushima e Cronache del dopobomba.
Dalle sue parole (oltre ad alcune espressioni che la sensibilità odierna giustamente non approverebbe) traspare il carattere iconoclasta, anarchico, orgoglioso che ben ricordano le persone che l’hanno conosciuto, in una conversazione con meno filtri del solito grazie al fatto di essere stata pubblicata su una rivista per appassionati.
Oltre all’intervista, Il Fumetto 14 del maggio 1974 pubblicò un vero e proprio “dossier Bonvi”, aperto da una biografia e da una serie di giudizi critici sul fumettista modenese firmati da Luciano Secchi/Max Bunker, Maria Grazia Perini, caporedattrice di Eureka e di Editoriale Corno, e Giancarlo Francesconi, direttore del Corriere dei Ragazzi, estratti da introduzioni di libri e raccolte di strisce. Inoltre pubblicava due storie inedite: una breve di fantascienza, Il campo di Liebowitz, e addirittura un episodio di Nick Carter, intitolato …Ottobre!.
La presenza di quest’ultimo su Il Fumetto fu dovuta al rifiuto proprio di Francesconi di pubblicarla sul settimanale che dirigeva, e su cui uscivano regolarmente le avventure del piccolo detective, in una vita editoriale autonoma e parallela rispetto agli episodi televisivi di Gulp! (1972) e Supergulp! (1978). Il Corriere dei Ragazzi lo aveva rifiutato perché (parole del direttore riportate da Cuccolini) «non si scherza con le cose serie».
Secondo Alfredo Castelli, amico di Bonvi e anche redattore della rivista, c’era anche una motivazione politica, perché l’argomento sarebbe risultato poco gradito ai genitori dei lettori del giornale, filiazione del Corriere della Sera e rivolto di conseguenza tipicamente ai figli borghesia italiana. In …Ottobre!, infatti, Nick Carter si trovava ad assistere alla Rivoluzione bolscevica nella Russia del 1917, ed era chiaro che l’autore parteggiasse per essa. Un episodio troppo di sinistra per via Solferino, soprattutto in un’epoca storica così politicamente calda come gli anni Sessanta.
Di seguito, ripubblichiamo per la prima volta l’intervista integrale uscita su Il Fumetto 14 del maggio 1974, per gentile concessione di Giulio Cesare Cuccolini.
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Nel cuore di Bologna, al terzo piano di un vecchio palazzo della centralissima via Rizzoli, spicca su una porta una targa in ottone su cui sta scritto in elegante corsivo inglese “Bonvicini”; una targa che ha girato mezzo mondo e che un nipote ha tolto dal baule da marinaio del nonno per fissarla sulla porta d’ingresso del proprio appartamento. Suono e viene ad aprirmi, sfoderando un paio di biondi baffi alla francese, Franco Bonvicini alias Bonvi.
Entro ed una giovane signora (un’ammiratrice) col figlio s’appresta ad uscire. Il bambinetto è felice e porta con sé disegni e poster. Non è di tutti i bimbi poter andare da un disegnatore di fumetti e far man bassa. Bonvi è fatto così, quello che ha ti dà (peccato che io arrivi sempre dopo un qualche pargoletto).
L’aria è impregnata di nicotina, in un angolo sul tavolo da lavoro un bicchiere con un fondo di whisky. L’atmosfera è febbrile, da lavoro e quindi l’intervista (o meglio la chiacchierata) sarà veloce anche perché il giorno dopo Bonvi è di partenza per Parigi.
Bonvi è conosciuto, conosciutissimo e su di lui è stato scritto parecchio. Alcuni giudizi critici sono ormai canonizzati. Lui stesso ne riconosce la validità e l’acume anche se ammette, al pari di tanti altri disegnatori, che al momento della creazione non è certo sua intenzione dire tutto quanto i critici intravedono nelle sue storie e nelle sue strip. È sempre una scoperta, dichiara, leggere le recensioni che ti concernono: uno, in genere, s’accorge di aver detto cose che non si sognava nemmeno e si scopre culturalmente più impegnato di quanto credesse; ma dopo tutto il ruolo del critico non è inutile in quanto spesso aiuta lo stesso autore ad individuare quanto di inconscio ha operato in lui al momento del processo creativo.
A me interessa un ritratto meno aulico di quest’autore di successo. Voglio andare al di là dell’immagine stereotipa che la pubblicità (e forse lui stesso, in alcune occasioni) ha contribuito a creare, e conoscere qual è la realtà quotidiana di lavoro di un disegnatore giovane e già celebre in Italia e all’estero. Insomma gradirei un ritratto più sincero di uno già consacrato all’Olimpo del fumetto. Metto in funzione il registratore ed attacco a fargli domande e lo lascio parlare perché quando è sollecitato “tiene banco”. La bobina gira per un’ora e registra.

È vero che con la striscia 1350 hai smesso di disegnare le Sturmtruppen?
Dopo quattro anni la striscia accusava stanchezza. O uno tira fuori 200-300 gag, ne salva una trentina e le trasforma in altrettante strisce o altrimenti uno smette. Non potevo continuare a fare trenta strisce ogni tre giorni lavorando come un matto e rinunciando a tutto. In luglio-agosto dello scorso anno mi sono reso conto che la striscia stava diventando una barzelletta da settimana enigmistica e allora ho detto: fermi tutti! Preferisco darci un taglio netto, non pensarci per niente e quando me la sentirò riprendere la striscia.
Se ho capito bene si tratterebbe d’una crisi di ispirazione da superlavoro, fenomeno normale — prima o poi — in ogni creatore artistico.
Sì, sì. Alle Sturmtruppen tengo molto. Non è come Nick Carter o altre cose che faccio. È una striscia ad un certo livello. Riguardando le ultime cose fatte mi sono accorto che non andavano.
Possiamo allora dire che come creatore artistico i tuoi “gioielli” sono le Sturmtruppen.
Sì, certo, senz’alcun dubbio.
Quando ritornerai alle Sturmtruppen pensi che lo farai con dei ripensamenti?
No, non credo, perché è una striscia calibrata e giusta come mondo ed atmosfera. Via via ho eliminato motivi inseriti all’inizio e che ho scoperto esser superflui: gli ebrei, i riferimenti espliciti alla Seconda guerra mondiale ed altri che erano fuori luogo. Le Sturmtruppen sono un esercito che si colloca fra Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque e 08/15 di H. H. Kirst, descrivono cioè una certa situazione esistenziale; pretendere di inquadrarle ed individuarle storicamente è una forzatura.
Le Sturmtruppen quando furono disegnate la prima volta erano dei marines con l’elmo a tartaruga, poi ripensandoci ho deciso che il prototipo del soldato era quello prussiano. Oggi se dovessi ridisegnarle sceglierei il soldato tedesco degli inizi della Prima guerra mondiale, quello con l’elmo a chiodo: sarebbe più esatto e simboleggerebbe forse meglio il militare, l’ubbidienza, la sottomissione, il regolamento, la gerarchia insomma un esercito atemporale, un esercito e basta.
Che poi le Sturmtruppen sono un pretesto. I critici scrivono che voglio fare dell’antimilitarismo, del pacifismo. No, io faccio cose che mi divertono e in tal modo descrivo delle situazioni. Per esempio quando vado in banca per scambiare un assegno ed il cassiere va dal capufficio e questi dal direttore per il visto mi trovo di fronte ad un ambiente gerarchizzato, militare; pur essendo in ambiente civile siamo già nelle Sturmtruppen Quando riprenderò le Sturmtruppen, e le pubblicherò su Paese Sera [il quotidiano su cui erano nate, N.d. Fumettologica], ricomincerò pari pari dal punto in cui le ho lasciate come se fosse passato solo un giorno invece di 6 mesi o di più.

Hai detto che quando lavori cerchi di divertirti. In altre parole pur presentando il lavoro aspetti negativi (fatica, ripetitività, ecc.) tu cerchi di farne, nei limiti del possibile, un motivo di divertimento personale. Le tue storie presentano dei momenti che si potrebbero definire impegnati. Orbene quest’impegno te lo poni come meta allorché crei?
Assolutamente no. Ciascuno, al proprio livello, fa ciò che gli piace. Naturalmente risente di tutto quanto ha fatto, visto e letto, in una parola delle sue esperienze che trasfonde in ciò che produce. Non sono capace di fare cose a comando, non faccio l’impegnato su ordinazione. In tal caso andrebbe tutto alla malora: perderei in freschezza e s’annebbierebbe l’ispirazione.
Per esempio recentemente quelli della LID (Lega Italiana Divorzio) mi hanno incaricato di fare una serie di strisce sul divorzio. Sulla base delle loro istruzioni non ne usciva niente. Ho mandato tutto al diavolo, ho usato la mia chiave e ne è uscito qualcosa che mi pare carino e divertente. Sono poi i critici che dicono «Oh che bravo! Ha voluto dire questo e quest’altro». No. Non ho voluto dire un bel niente. Ho creato le mie storie perché mi divertivano e basta.
Se ho ben capito tu sostieni che la tua attività creatrice è un’attività di pura ispirazione personale nella quale tu ti realizzi senza pretendere di assumere a priori alcun impegno di sorta.
Certo, se no chi me lo farebbe fare di stare quotidianamente dalle 12 alle 14 ore dietro un tavolo da disegno, se non mi divertissi?
Spesso il critico lavora sulla produzione artistica altrui intessendo tutta una serie d’interpretazioni. È interessante verificare se il creatore delle strisce ha voluto esprimervi tutto quanto il critico vi ha intravisto o se invece non si è impegnato a questo punto.
No, assolutamente. La cosa più divertente è quando incontrando Pratt o qualche altro collega, costui, sbandierandomi la recensione di qualche critico, mi dice «Hai visto cosa volevo dire? Che intelligente che sono!». Forse voleva anche dirlo ma non è sempre così. In effetti però il critico ha una sua funzione: quella di cercare di capire e far capire cosa l’autore ha voluto dire. E non bisogna scordarsi che l’autore stesso spesso non ne è cosciente o almeno non lo è fino in fondo.
C’è indubbiamente qualcosa nel processo di produzione artistica che opera a livello inconscio e che involontariamente si trasmette alla mano ed emerge poi nel disegno e nei testi. Qualcosa al quale l’artista forse non pensa quando sta lavorando, ma che il critico riesce ad individuare a volte acutamente, a volte per niente.
Sì, è il caso di recensioni splendide sul piano formale, piene di belle parole che non dicono un cavolo!
Puoi dirmi qualcosa di queste proiezioni personali nei tuoi lavori, nei tuoi personaggi?
Se leggi le mie storie t’accorgi in definitiva che sono sempre io il protagonista. Tutto quanto uno fa è sempre una proiezione di se stesso, positiva o negativa, dei suoi desideri irrealizzati, delle sue ansie, delle sue aspettative. Al limite potrei dire che sono anch’io Nick Carter o Patsy o Ten, ovvero tutti e tre messi insieme. Li faccio agire come io agirei in quella situazione o meglio come penso che essi agirebbero in dette circostanze.
Inoltre a moltissimi miei personaggi presto il mio volto per due motivi: primo, perché mi diverte di più; secondo, perché è molto più facile quando ho bisogno di qualche espressione scendere in strada entrare in una di quelle cabine dove puoi ottenere quattro foto per cento lire, fare alcune espressioni o boccacce, ritornare nello studio e copiarle. Un modello mi costerebbe più caro e non sarebbe disponibile alle tre di notte.

A proposito della tua origine emiliana alcuni critici hanno parlato di un’influenza sul tuo umorismo che affonderebbe le radici in certe caratteristiche regionali. Concordi?
Sì, certamente. L’Emilia ha una grossa tradizione di umorismo viscerale, sanguigno. Quando uno muore, muore e basta. Quando uno si fa sodomizzare dietro Piazza Maggiore, è un fatto che è accaduto e basta. La gente ci ride sopra senza falsi moralismi. La vita viene presa così com’è.
Nelle Sturmtruppen c’è una certa fedeltà descrittiva d’ambiente: le armi, le uniformi, la buffetteria, ecc. L’ho notato in quanto sono appassionato di armi.
Anch’io lo sono, e nelle Sturmtruppen e in Nick Carter (anche se con i colori me lo hanno assassinato) le uniformi e i particolari d’ambiente sono esatti. Son cose che mi piacciono e le faccio bene. D’altronde anche il grande Barks aveva capito che il disegno seppur comico deve rispettare la realtà come in un film.
Se ho ben capito si tratta del desiderio di creare una verosimiglianza di ambiente nella quale inserire la storia comica.
Sì, esatto. L’umorismo sta tutto lì.
A proposito di certe strisce delle Sturmtruppen qualcuno (la Perini) ha parlato di “umorismo nero”. Cosa ne pensi?
L’umorismo è umorismo e basta. Siccome non so quello che diverte il lettore, faccio quello che diverte me. Per me non esiste umorismo bianco o nero e non credo si possa classificare. L’umorismo è ciò che fa ridere.
Mi riferivo a certe forme di grottesco, di assurdo.
Siamo sempre a livello di un divertimento personale.
Ritornando per un attimo sui criteri e sui loro giudizi a proposito del tuo lavoro (e gli mostro quelli allegati) vorrei saper cosa ne pensi.
Posso essere d’accordo al 70%. Spesso quando leggo le recensioni mi chiedo fino a che punto il critico ha capito ciò che sta leggendo o vuol mostrare di aver capito. Per quanto riguarda i giudizi critici su di me, non me ne preoccupo granché.
A proposito delle Sturmtruppen e del loro linguaggio, che valore attribuisci a far parlare il soldaten in “italiano tedeschicizzato”?
Quello di caratterizzare meglio la striscia e poi perché il tedesco mi sembra una lingua che rende bene l’imperiosità del comando. Per questo spesso i cani sono addestrati in tedesco. La fonetica della lingua tedesca è quella giusta per comandare e per questa sua durezza fa ridere lo straniero. Per esempio, trovo che scrivere “Achtung Minen” sia più efficace, immediato e scoppiettante di “Attenzione, qui ci sono delle mine”.
Disegni a pennino o a pennello ?
Sempre a pennino.
Circa il tuo stile la Perini ha parlato di “grafia corposa”, Secchi di “segno deciso e corposo”, io aggiungerei “marcato segno rotondo”. Cos’hai da dire in merito?
Premetto che non so disegnare e che agl’inizi facevo sforzi enormi per imparare. Ancora devo ricorrere a trucchi di mestiere, di tipo registico: per esempio sono negato per fare i piedi e nelle Sturmtruppen spesso per togliermi d’impaccio li nascondo dietro una cassa, una sedia, ecc. La mia forca penso risieda nella gag, nella bella battuta che risolve brillantemente la storiella. Nel disegno sono zero!
Chi è il disegnatore che ti ha influenzato maggiormente?
Carl Barks, senza dubbio. La sua abilità di ricostruire un ambiente in modo veritiero e fedele nel quale collocare non tanto degli esseri umani quanto degli animali — spesso nemmeno antropoformizzati — è magistrale.
Nelle ultime storie di Nick Carter mi pare di individuare delle battute più impegnate o almeno più scopertamente allusive. Sono cose che senti o che ti vengono commissionate con la storia?
No, assolutamente.
Allora in Nick Carter o almeno rispetto al Nick Carter televisivo (in cui c’era un ambiente di detection tipo pochade) c’è stata un’evoluzione.
No, in Nick Carter ci sono sempre state queste puntatine.
Ma anche in quello televisivo ?
No. Ero molto più legato, perché alla RAI stanno molto più attenti.
C’è allora una certa “censura” da parte di chi commissiona il lavoro.
A livello televisivo addirittura allucinante e spesso del tutto gratuita. A volte a metà lavoro ti bloccano e ti obbligano ad apportare rettifiche o a ricominciare tutto daccapo. Nel Corriere dei Ragazzi è andato invece tutto bene perché Francesconi è un ragazzo in gamba.
Ma ti hanno rifiutato …Ottobre! ed a Lucca c’è stato uno scontro cordiale tra te e lui. Possiamo parlarne?
Certo.
Mi pare che la giustificazione di Francesconi fosse che al Corriere non avevano intenzione di far ridere su cose serie.
Sì, in sostanza ha detto che la storia era qualunquista. Ma io credo che la storia non facesse ridere per via della Rivoluzione russa ma per quello che Nick Carter faceva e diceva. Nick Carter lo faccio agire nelle situazioni più disparate e impensate: nella Prima guerra mondiale, nella Rivoluzione messicana, ecc. Fra poco lo invierò sui laghi Masuri. A me serve che la situazione in cui opera Nick Carter sia interessante — possibilmente un fatto storico preciso che costituisca lo sfondo nel quale Nick Carter agisce, beninteso da Nick Carter, cioè come un personaggio comico.
Non si può pretendere che Nick diventi serio perché lo sfondo storico in cui agisce è serio. Potrei rendere Nick Carter più satirico nei confronti di certi valori dell’attuale società, ma non posso ignorare cos’è il Corriere dei Ragazzi e naturalmente devo inserire le battutine nei limiti consentiti dalla pubblicazione.

Che rapporto esiste fra il tuo Nick Carter e l’originale di Coryell?
Nessuno. Quando alla fine del 1969 – inizio del 1970 i funzionari della TV cominciarono a pensare a Gulp! volevano impostare la trasmissione su due personaggi: Nick Carter e Petrosino (si faceva un’enorme confusione fra romanzo nerbiniano e fumetti). Mi chiesero cosa volevo. Scelsi Nick Carter. Non l’ho mai letto e me ne guardo bene. So che è un detective e che ha degli aiutanti: questo mi basta. Per il resto l’ho reinventato completamente.
Un’ultima domanda — quasi mi dimentico di portela: Hai fatto il militare ? Quali sono state le eventuali ripercussioni di questa tua esperienza sulle Sturmtruppen.
Sì, ho fatto l’ufficiale e le Sturmtruppen sono nate da quell’esperienza, dall’incontro con la complicatissima e codificata prassi militare, con i regolamenti e tutto il resto. Mi ricordo che quando noi allievi arrivammo alla fine del gennaio 1963 alla scuola ufficiali fummo ricevuti da un maggiore in guanti bianchi, monocolo, stivaloni e calzoni alla Flash Gordon, con queste testuali parole: «Vi strapperemo i c… e v’infileremo ferri roventi nel c… ma faremo di voi degli uomini».
Tutto un programma!
Bonvi ride sonoramente, come un emiliano sa ridere.
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