Claudio Villa sarà ospite d’onore di Lucca Collezionando 2023, che si svolgerà nel capoluogo toscano dal 25 al 26 marzo, e dove sarà tra i protagonisti di una mostra per i 75 anni di Tex (qui i dettagli). Per l’occasione l’abbiamo intervistato, provando a capire i segreti della fragile arte di illustrare storie che devono sembrare sempre nuove e diverse, pur non cambiando mai.
Il fumettista si è confermato un consumato professionista quando, al termine della nostra conversazione, mi ha detto che mentre parlava con me non ha mai smesso di lavorare. Classe 1959, il disegnatore, in forze a Sergio Bonelli Editore dal 1982, è uno dei nomi di punta della casa editrice: creatore grafico di Dylan Dog e Nick Raider, ha disegnato storie di Martin Mystère, Dylan Dog e Tex.
Il suo tratto preciso, definito e profondamente realistico è stato messo a servizio anche degli eroi di Marvel Comics, con la storia del 2006 Doppia morte, scritta da Tito Faraci e che vedeva protagonisti Daredevil e Capitan America, ma si è affinato soprattutto su Tex. Claudio Villa disegna infatti le copertine della serie regolare dal 1994, affiancandoci negli anni tanti altri progetti legati al ranger, tra cui un Texone che gli ha richiesto, tra interruzioni varie, dodici anni di lavoro.

Hai mosso i primi passi lavorando sotto l’ala di Franco Bignotti, che aveva collaborato per moltissimi anni con Bonelli. La Bonelli con cui esordisti tu era diversa rispetto a quella che aveva conosciuto lui?
La situazione del fumetto in cui mi sono trovato a lavorare io era piuttosto differente da quella che aveva sperimentato lui all’inizio della sua carriera. Io tra l’altro ero figlio stilistico del fumetto americano. Avevo negli occhi e nelle corde dell’anima il segno di Neal Adams, Curt Swan e di tanta altra gente che non aveva la tipica mano italiana o da scuderia Bonelli, per cui c’era stato un contagio culturale. Bignotti stesso, quando ero a bottega da lui, mi ha fatto conoscere artisti come Al Williamson che mi hanno segnato.
Trovavo in quei disegni un tipo di cultura dell’immagine che qui non avevo ancora visto. Lui vedeva che i tempi stavano cambiando, ma al tempo stesso io vedevo che gli autori della mia generazione avevano preso sul serio la lezione che lui e i suoi colleghi avevano dato attraverso il loro lavoro. Partendo da loro, cercavamo di andare avanti, come nani sulle spalle dei giganti.
C’era aria di novità negli stili che proponevate?
È stato naturale, quando cerchi un certo tipo di segno sei come un rabdomante, vai in giro a cercare qualcosa che non esiste ancora ma che tu sai esistere e lo devi cercare in un foglio bianco, raccogliendo tutto le informazioni captate fino a quel momento. E quando nasce un nuovo segno, questo contagia altre persone creando un circolo che non si ferma mai. Secondo me è questo il bello del disegno.
Entrasti in Bonelli poco più che ventenne e le tue erano, come dicevi, letture di stampo americano. Avevi un atteggiamento iconoclasta o ti eri già preparato a ricoprire un ruolo più tradizionalista all’interno della casa editrice?
Capivo che non avrei mai potuto disegnare supereroi alla corte di Bonelli. Questo mi dispiaceva, ma ero comunque entusiasta di far parte di quel mondo. Chiaramente poi un disegnatore si adatta a quello che gli viene proposto. Quando ho cominciato a fare Martin Mystère, il primo personaggio che ho disegnato per Bonelli, arrivavo da un tratto che avevo utilizzato per il mio primo fumetto in assoluto, Enguerrand e Nadine, realizzato per la Francia [in Italia edito da ANAFI nel 2018 ndr], dove era richiesto un segno sporco, perché la storia era ambientata in un contesto di cavalieri, da cappa e spada, e io volevo dare un senso di polvere, di antico e vecchio.
Quando entrai nello staff di Martin Mystère mi resi conto che quel segno non sarebbe stato adatto per le atmosfere di quella serie. Dovetti pulire il segno e renderlo più essenziale, attuale e moderno. Poi sono passato al western e ho dovuto sporcarlo di nuovo. Ho anche sfiorato il genere horror, con Dylan Dog, e lì c’era un altro segno ancora, un altro tipo di luci e inquadrature soprattutto. È una questione di cammino che non si esaurisce mai. A ogni passo vedi un pezzo di paesaggio che prima non avevi visto. Si tratta solo di andare avanti con gli occhi aperti ed essere disponibili a ogni cambiamento.

Dylan Dog l’hai proprio creato graficamente, anche se all’inizio la tua idea era molto diversa: Sclavi disse che l’avevi reso «un ballerino spagnolo» e ti suggerì di ispirarti a Rupert Everett. Ma tu che idea ti eri fatto del personaggio?
Tutti i personaggi dei fumetti di solito erano dei bellocci, avevano una faccia regolare e alla fine se li si fanno tutti così non li distingui più l’uno dall’altro. Pensai che sarebbe stato bello poter vedere un protagonista con una faccia interessante, subito riconoscibile da un particolare anatomico che lo caratterizza senza renderlo antipatico o comico. Così mi venne in mente una faccia con un nasone piuttosto importante, che si sarebbe visto a chilometri di distanza, i capelli folti e i basettoni…
Il problema era che non sapevo che Dylan Dog sarebbe stato un inglese. Ed è un dettaglio che conta molto, perché l’anatomia facciale inglese è molto più allungata rispetto a quella europea o mediterranea, hanno un’eleganza fisionomica unica, che in effetti Everett vestiva alla perfezione. Quando l’hanno visto in Bonelli, il primo che l’ha visto, Mauro Marcheselli, ha detto «ma questo è Claudio Baglioni!».
Infatti rivedevo Le vie dei colori, la storia di Dylan Dog che realizzasti insieme a Baglioni, dove c’è questa pagina finale con il musicista da una parte e il personaggio dall’altra e non avevo mai realizzato che fossero così simili.
Assomigliare a un attore può essere anche pericoloso, da un certo punto di vista. Viaggiamo nel mondo della fantasia e dovremmo prendere gli spunti da tutto. Sarebbe buona regola, per un personaggio a fumetti, prendere spunti dalla realtà ma diventare un design unico e irripetibile.

Prima parlavi di Enguerrand e Nadine, che fu il tuo primo lavoro da disegnatore. Ti ricordi che sensazione provasti a disegnare quelle pagine d’esordio?
La sensazione era che avevo tanta voglia di farlo ma mi rendevo conto che non ero ancora in grado di riuscire a portare a casa un progetto del genere. Infatti il primo episodio me lo corresse tantissimo Bignotti e io mi ero anche un po’ arrabbiato, pensavo: ma come, lo devo disegnare io e me lo corregge lui? Però aveva ragione. Non ero ancora pronto per quella sfida. Mi sono reso conto nel tempo quanta concentrazione e intensità mentale ci vogliano per tenere in piedi una storia a fumetti.
Da fuori, uno legge un fumetto e pensa che il talento naturale basti a risolvere ogni problema. Ma raccontare è un’altra cosa: devi uscire da te stesso, per evitare di proporre qualcosa che potrebbe essere equivocato, ti devi mettere nei panni del lettore, che non conosce la storia, e sottoporti a un fuoco di fila di critiche. Ti devi chiedere il perché di ogni segno che metti sulla carta, perché devi saper giustificare ogni scelta che fai. Mi ricordo che Alfredo Castelli mi criticò perché avevo enfatizzato la recitazione di Diana, la ragazza di Martin Mystère, durante un loro litigio. Avevo calcato troppo la mano e, una volta aggiunti i dialoghi, Diana sarebbe risultata antipatica ai lettori. Quindi devi avere misura anche in quello.
A volte non è facile né soddisfacente, perché vorresti fare i fuochi d’artificio, ma la storia ti spinge a essere chiaro e magari banale, ma almeno leggibile. Tanto poi ci sarà l’occasione per qualche vignetta spettacolare in cui far vedere di cosa si è capaci. Non bisogna mai dimenticare che siamo qui a raccontare una storia al meglio possibile. [pausa] Non so se ho risposto alla tua domanda.
Sì, anche in maniera molto consapevole. Mi sembri capace di grande autoanalisi, almeno del tuo lavoro. È sempre stato così?
No, è arrivata con gli anni di attività. Continui a cercare qualcosa, qualcosa che non conosci nemmeno tu. E in qualche modo ti appare man mano che affronti dei problemi. Noi disegnatori siamo dei risolutori di problemi. Ogni volta che abbiamo davanti una sceneggiatura abbiamo davanti dei problemi. Tutte le azioni che mostri devono essere calibrate in modo naturale, non ci devono essere stacchi improvvisi e l’occhio, almeno secondo me, si deve muovere tra i personaggi in maniera morbida e naturale. Tenere insieme tutto questo richiede un continuo riesame di quello che fai.
Ogni volta che faccio una matita penso «ma come si fa a disegnare ‘sta roba qua?», così la cancello e la rifaccio. A volte, darsi una nuova possibilità aiuta, perché a volte quella mattina in cui hai disegnato la vignetta eri convinto che quella inquadratura fosse la migliore. Ma quando la rivedi, e passano magari due giorni, non sei più lo stesso, hai un altro punto di vista. E quella stessa vignetta ti sembra una cavolata. È chiaro che è un comportamento suicida nel momento in cui lavori a cottimo, però la soddisfazione che c’è nel portare a casa un lavoro di cui sei mediamente convinto vale la pena.

Quando, invece, hai iniziato a sentirti padrone del tuo mestiere?
È una domanda difficile. Sinceramente, per me ogni volta è una sfida nuova. È come ricominciare da zero. Il tempo passa, tu cambi. Questo è un lavoro che non esiste, perché non è un lavoro in cui si mettono insieme dei pezzi, è un lavoro fatto del senso di bellezza. E dimmi tu che cos’è la bellezza… è un concetto personale. Noi viaggiamo in un campo in cui la ricerca della bellezza non ha mai fine. E si accompagna alla tua maturità e alla scoperta di nuove soluzioni. Scopri che non serve più far vedere un personaggio intero per comunicare un’azione ma basta un dettaglio, però allora devi curare quel dettaglio al meglio.
In ogni lavoro c’è un nuovo inizio pieno di incognite. Non saprai mai se ci sono nuovi problemi davanti a te. Sarà sempre necessario un impegno molto profondo per dare il meglio di sé. Sono cose che non si vedono da fuori. Un lettore non si rende conto di questo impegno, ma per noi è fondamentale perché se ti distrai il pennello va per conto suo e, invece di farti un capello, ti fa un macigno.
Tutti questi anni di attività però non ti danno anche qualche sicurezza sui problemi che sei riuscito a sbrogliare?
A volte è il contrario. Più disegno, più so di non disegnare. Poi, sì, è vero, di fronte a una sceneggiatura complicata te la sai cavare meglio rispetto a quando eri all’inizio della carriera. È chiaro che c’è l’esperienza e il monte ore passato a risolvere problemi a salvarti. Questo non toglie che, come dicevo, il nostro lavoro non esiste, non è una cosa meccanica. Dipende da come sei tu, ci sono giornate che vanno bene, altre che vanno male. È un lavoro liquido, per usare una parola molto moderna, e che per solidificarsi richiede tanto impegno.
Per dirti, io vado sempre a guardarmi cosa fanno gli altri, dai maestri ai giovani. Nel computer ho un sacco di cartelle piene di disegni di altri autori per capire dove piffero riescono a guadagnarsi due secondi al giro, per parafrasare la Formula Uno. Capisco che non sia molto soddisfacente, tu dirai «parlo con uno che lavora da quarant’anni, le avrà due certezze». No, non ci sono! L’unica certezza è che domani disegnerò una pagina nuova e mi verrà chiesto qualcosa che ancora non conosco. Sono curioso di vedere cosa riuscirò a tirar fuori da un foglio bianco e stupirmi di me stesso, perché a volte le soluzioni vengono fuori anche all’insaputa di quello che volevi fare tu.
Vale anche per le copertine di Tex?
I lettori hanno una memoria di ferro, noi a volte siamo assorbiti dal lavoro e, vuoi gli argomenti o le situazioni che ritornano (ed è impossibile che non ritornino in un fumetto seriale che è in edicola da 75 anni), si rischia di riproporre situazioni già viste. Riuscire a raccontare qualcosa che si appoggia a un tipo di narrazione legato all’immaginario del 1948, per niente attuale, è difficile. Devi stare in un range di situazioni ristretto: l’eroe deve essere sempre sorridente, senza mai un dubbio, che «quando arriva le suona a tutti» (come diceva Gianluigi Bonelli), però parli a un pubblico che vive in un’epoca priva di tutte quelle certezze granitiche.
Ti rendi conto di fare un discorso di cultura visiva non propriamente attuale, ma devi renderlo attuale con il segno, con l’impostazione, senza per questo staccarti dall’iconografia tradizionale del personaggio. È una bella sfida, quando hai davanti il foglio bianco, fare una copertina nuova di Tex, con tutte quelle che già abbiamo fatto. E ogni copertina fatta è una possibilità in meno per il futuro.

Da dove si parte, quando arriva quel foglio bianco?
Si parte sempre dalla storia. A me viene inviata la storia in pdf, a volte senza i balloon. Se c’è un titolo, mi viene dato. Da lì parto a ipotizzare un’idea. Faccio più di uno schizzo, Mauro Boselli, il curatore di Tex, li valuta, a volte me li boccia, perché si aspettava un altro tipo di immagine, anche basandosi su quelle che saranno le storie successive. Ne parliamo un po’ e poi passo al definitivo, che è il lavoro meno impegnativo. Quello che porta via più tempo è la definizione dell’immagine.
Quando c’era Sergio Bonelli, immaginava lui la copertina. Abituato a lavorare con Galleppini, tentava di rendere più facile la vita del disegnatore. Magari aiutato da Luigi Corteggi, lo storico art director, realizzava degli schizzi in cui mi suggeriva delle situazioni. Era un punto di riferimento da cui partire ed era un processo molto più diretto. Però restava sempre un casino. Le copertine di Tex devono rispettare moltissime regole, soprattutto restando nostalgici in termini di cultura visiva. Si tratta di tirare un po’ il freno, ritrovare il gusto dei film di Tom Mix e cercare il meglio di quel tipo di immagini.
Un po’ ne hai accennato, ma il tuo immaginario visivo con che letture nasce?
Da piccolo leggevo, anzi, guardavo, le figure di un settimanale per bambini chiamato Michelino. Poi scoprii le illustrazioni, bellissime, di Libico Maraja per un’edizione di Pinocchio. Ci passavo le ore a guardare quelle illustrazioni. Crescendo, dato che mio papà era appassionato di fumetti e portava a casa i fumetti della Mondadori, mi appassionai a Superman e Batman. Stavo lì a guardare le anatomie di Curt Swan, che secondo me è stato uno dei migliori disegnatori di Superman. Delle storie mi fregava poco, ma andavo matto per quel tipo di disegno. E da lì tanti altri autori americani, Carmine Infantino, Neal Adams… sono stati tutti nomi fondamentali per la mia formazione di un’idea di disegno e bellezza.
Condividevi questa passione per i fumetti e il disegno con qualcuno?
No, era sempre un’attività solitaria. In classe ero “quello che disegnava”, ma poi per il resto i fumetti e il disegno stimolavano dei processi mentali, erano un tipo di ricerca, dinamica, ma all’interno di sé.

Il cavallo ha la nomea di soggetto difficile da disegnare. Per te lo è?
Mi pare che, qualche tempo fa, per selezionare gli autori di Tex, una delle prove era disegnare i cavalli. E solo quando li disegni capisci quanto siano delle brutte bestie. Brutte da disegnare, bellissime da vedere. Io per tanto tempo sono stato il maggior azionista di riviste come Il cavallo, Il mio cavallo, Cavallo Magazine… mi tenevo tutte le foto come riferimenti visivi. Era fondamentale studiare quelle foto.
Oggi con internet si trova tutto, ma comunque il punto non è copiare, ma capire come si comporta l’anatomia. Le foto devono diventare un archivio mentale in cui tu ti fai uno schema, semplificato ma efficace, di come funziona un cavallo. Questo ti permette poi di disegnarlo in ogni tipo di posizione.
Deve essere stato difficile documentarsi, venti o venticinque anni fa, perché per quanto uno potesse costruirsi un archivio, magari c’era sempre qualcosa di specifico che mancava.
Verissimo. Io facevo incetta di tutti i giornali che buttavano via i miei parenti. Mi ritrovavo con pacchi di Novella 2000, Gente, Oggi, L’Espresso, Panorama… poi mi compravo riviste come King o Moda, perché nei servizi era probabile trovare qualche foto interessante, magari proprio di gente a cavallo, o di gente che cadeva da cavallo. Le più gettonate erano quelle di Carlo d’Inghilterra, perché spesso lo fotografavano per terra, dopo che era caduto giocando a polo.
Poi c’erano le foto, bellissime, del Palio di Siena. Lì il problema era l’anatomia, perché erano cavalli magrolini rispetto al quarter horse, il tipico cavallo del west, molto più robusto. E se cambi il cavallo, cambia l’atmosfera. O, almeno, a me sembra così. Io sono più contento quando in un fumetto western vedo un quarter horse o un appaloosa…
Sei diventato esperto di cavalli giocoforza.
Non lo sono ancora, in realtà, a volte chiedo a qualche mio contatto su Facebook dei lumi per alcuni dettagli, tipo la lunghezza delle redini, gli straccali, la mascalcia… tutte cose che uno non sa finché non le indaga. Però è un mondo affascinante, perché ti rendi conto che dietro una vignetta di Tex c’è una storia, una ricerca. Magari non tutta finisce in quella vignetta, ma per fare quella vignetta lì c’è stato bisogno di sapere anche quelle cose.

Tex richiede sempre questo lavoro di documentazione o sei solo tu molto attento per indole?
Ci può anche essere chi lavora a rimorchio del lavoro degli altri. Tipo i cavalli o i cappelli di Giovanni Ticci sono un punto di riferimento per ogni disegnatore di Tex. Tutti abbiamo avuto la tentazione di prendere un suo cavallo, bellissimo, e copiarlo. Però poi pensi alla fatica che ha fatto e ti metti a studiare anche tu.
In genere, la cultura dei miei colleghi su Tex è di questo tipo. Cercano di approfondire per conoscere in prima persona le cose ed essere più efficaci possibile. Poi è anche una sensibilità, a volte non c’è bisogno di sapere tutto di tutto. Può bastare un minimo cenno per raccontare qualcosa. Non c’è bisogno di sapere cosa c’è dentro la scatola, basta farla vedere da fuori. Quello che c’è dentro tu magari lo sai ma non è utile al racconto.
Poi, sai, è cresciuta la cultura dei lettori. Sanno benissimo come sono i paesaggi in cui si muove Tex o come è fatta una colt, perché nel tempo la gente ha potuto muoversi e informarsi. Ai tempi di Galleppini, la gente si informava attraverso i film western o gli stessi fumetti. Mio padre, grande appassionato di fumetti e di Tex, si era costruito la colt di Tex in legno a partire dai disegni di Galleppini. Che però non era proprio una colt, perché spesso, lo ha ammesso lui stesso, Galleppini inventava un po’ delle cose che disegnava.
Tuo papà quindi sarà stato contento di vederti finire a disegnare proprio su Tex?
I miei genitori mi hanno sempre sostenuto. Quando ho iniziato a disegnare Tex mio papà era tutto contento perché suo figlio lo disegnava ma soprattutto perché poteva rompermi le balle sulle armi che disegnavo. Mi diceva «eh ma questa colt non è giusta così, devi farla così…». Avevo un lettore molto esigente in più in casa.
Entra nel canale Telegram di Fumettologica, clicca qui. O seguici su Instagram, Facebook e Twitter.