
In un momento tribolato per The Walt Disney Company – fatto di crisi economica, tagli al personale e ai budget, difficoltà creative – il progetto Corto circuito (in originale Short Circuit) risulta una vera boccata d’aria. Lo è per gli spettatori, che si stanno abituando a un’offerta troppo spesso simile, piatta e ridondante. Ma forse anche per i Disney Studios, che hanno bisogno di ritrovare quella strada fatta di un perfetto equilibrio tra forza creativa, tensioni sperimentali, nuovi linguaggi e ibridazioni di racconto.
Disney (e Pixar) ha sempre avuto legame molto forte con i cortometraggi, a partire dalle origini, passando per le Sinfonie allegre (Silly Simphonies, 1929-1939), arrivando a lavori più o meno recenti, tra cui il cruciale Canto di Natale di Topolino su cui potete trovare un approfondimento di Andrea Fiamma qui.
Come d’altra parte dimostrano i vari candidati agli Oscar per i migliori cortometraggi animati, infatti, il formato corto permette una sperimentazione narrativa e visiva che il lungometraggio, più legato a dinamiche commerciali e di vendita, non ha. È nel cortometraggio, oggi, che possiamo incontrare le forme di animazioni più audaci e interessanti.
L’idea di Corto circuito è nata prima della pandemia, per andare a rimpolpare l’offerta della neonata piattaforma Disney+. Si trattava, a tutti gli effetti, di un azzardo: Disney ha chiesto a tutti i dipendenti, a prescindere dal loro ruolo, di proporre l’idea per un cortometraggio. I selezionati hanno potuto realizzarlo in collaborazione con un team specifico messo a disposizione. Il risultato è una serie finora composta da due stagioni, la prima di quattordici episodi, la seconda (uscita nel 2021) di sei.
L’idea alla base di Corto circuito è simile a quella di SparkShorts, una serie di cortometraggi Pixar realizzati sempre per Disney+. La differenza sta nell’approccio, nel numero di corti e nella durata, poiché in SparkShorts la durata è mediamente più consistente (attorno ai dieci minuti). La bellezza di Corto circuito, invece, sta proprio nella sua brevità, che diventa una vera e propria sfida. Ciascun episodio è introdotto dalle parole del o della regista, che spiega come è nata l’idea e come è stato lavorare con figure in grado di portare il lavoro su una dimensione creativa impensabile. Segue il corto vero e proprio che, di solito, non supera i cinque minuti di durata. Ed è un’esplosione di colori, stravaganze, sperimentazioni visive, scelte narrative ardite.
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La forza e il fascino di Corto circuito stanno proprio nella varietà dei singoli lavori, che alternano comicità e dramma, tenerezza e un pizzico di dolore. I linguaggi utilizzati sono quasi tutti diversi tra loro: cambia la tecnica, che passa dal 3D al 2D, a mano, con il computer, un insieme di entrambe le soluzioni o che simula l’effetto della stop motion. Cambiano i carachter design, le scelte fotografiche e cromatiche, gli effetti digitali. Corto circuito è, innanzitutto, un tripudio di sperimentazioni tecniche, che lavora sul medium, cercando di esplorare nuovi orizzonti (quelli che, nei lungometraggi, Disney sembra aver un po’ perso di vista).
C’è poi il cuore pulsante della serie, che riguarda i temi affrontati e che, stando alle dichiarazioni degli autori, nascono spesso da esperienze personali. Ci sono episodi più intensi e altri più leggeri, quelli che prediligono l’estetica e altri che optano per un’intimità del racconto. Nella prima stagione spiccano Puddles di Zach Parrish, in cui un bambino scopre che dentro le pozzanghere si cela un mondo fantastico; Just a Tought di Brian Menz, vero e proprio connubio fra animazione e fumetto; Cycles di Jeff Gipson, sul vero significato di casa e di memoria, pensato per essere fruito con la realtà virtuale; Drop di Trent Correy, sulle avventure di una goccia di pioggia; Fetch di Mitchell Counsell, sull’incontro fra una bambina e una creatura misteriosa in un bosco le cui atmosfere ricordano molto i film di Hayao Miyazaki. Ci sono poi episodi che prediligono l’aspetto visuale, come Downtown di Kendra Vander Vliet, Jing Hua di Jerry Huynh e Zenith di Jeniifer Stratton, quest’ultimo ispirato a Fantasia.
La seconda stagione è composta da soli sei episodi, i cui migliori sono Crosswalk di Ryan Green, su un uomo che non riesce ad attraversare la strada e che mescola animazione 3D e 2D con un approccio molto divertente, e Dinosauro barbaro di Kim Hazel, simpatico omaggio all’animazione statunitense televisiva degli anni Ottanta. Canzoni da cantare di Riannon Delanoy è invece un interessante sperimentazione sulla dialettica suono e immagine. C’è, infine, Tornare a casa di Jacob Frey, forse il miglior cortometraggio di entrambe le stagioni e sicuramente uno dei più interessanti visti negli ultimi anni.
Jacob Frey aveva già diretto altri piccoli cortometraggi, tra cui The Present (2014) prima di approdare alla Disney in veste di animatore e lavorare a Zootropolis, Ralph spaccatutto e Frozen 2 – Il segreto di Arendelle. È un lavoro emozionante, che racconta l’esperienza del regista di tornare a casa e osservare inevitabilmente quanto il mondo attorno a lui cambi e come le persone care, lentamente, invecchino. È un inno alla vita, fatto con una sensibilità mai pacchiana. Un corto doloroso, che ha il coraggio di raccontare la morte e l’invecchiamento ma che non dimentica di fornire una prospettiva più luminosa sul futuro.
Tornare a casa è senza dubbio l’apice di Corto circuito, che è un’esperienza immancabile per tutti coloro che amano l’animazione e che credono che sia stato e continui a essere il linguaggio più ardito, immaginifico e creativamente ricco tra tutti quelli oggi a disposizione.
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