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Perché dirlo con i balloon?

Di seguito proponiamo un estratto in esclusiva dal volume Dacci questo veleno del saggista e pedagogista Antonio Faeti, originariamente pubblicato nel 1980, del quale l’editore Babalibri ha realizzato una nuova edizione con saggi di apertura e chiusura a cura di Emilio Varrà e Giulia Grilli. Il volume è distribuito in libreria da marzo e si può acquistare anche online.

Nato dall’esperienza di Antonio Faeti stesso, che fece affrontare dei fumetti ad alcuni suoi studenti, il libro indaga le possibilità e il valore didattico del fumetto come mezzo in grado di coinvolgere attivamente nell’apprendimento e nell’educazione.

dacci questo veleno antonio faeti

La notevole quantità di problemi e di interrogativi nati in me dall’esame più volte ripetuto dei fumetti delle mie alunne mi ha spesso ricondotto alla necessità di pormi una specie di domanda pregiudiziale, fondata su temi che da qualche tempo sono al centro di un dibattito in cui educatori, pedagogisti, studiosi dei media hanno più volte espresso opinioni discordi e attivato polemiche. Evidentemente, se sono convinto che nei fumetti delle bambine possano trovarsi tante occasioni di riflessione e se ritengo che un così consistente numero di messaggi possa essere trasmesso da un medium, non devo evitare di esprimere anche una sincera fiducia nelle caratteristiche di uno strumento di comunicazione i cui prodotti mi hanno così profondamente impressionato. 

A un primo e sommario esame del problema, ottenuto soprattutto per mezzo di osservazioni direttamente condotte, seguendo il lavoro di bambini che disegnavano fumetti, mi sembra di potere sottolineare come, per mezzo di un simile strumento espressivo, gli autori siano indotti a trasmettere contenuti assai diversi da quelli diffusi usando altri linguaggi. Non si tratta, naturalmente, di auspicare l’avvento di una decisiva egemonia del fumetto sugli altri mezzi espressivi, è sufficiente assegnare anche a esso uno spazio entro cui possa concorrere, almeno con diritti pari a quelli da sempre attribuiti a diversi linguaggi, alla creazione di modalità comunicative assai articolate e stimolanti. Notavo, ad esempio, che un certo tipo di narratività presente nei fumetti non si ritrovava nei lavori scritti e neppure nei racconti orali. Ed ero del pari attratto dalla sicurezza con cui, specialmente le autrici, condensavano nelle storie elementi di riflessione, occasioni di realizzazione autonoma, momenti di personale confronto con altre espressioni, offerte dallo stesso medium, mentre veniva usato da illustri e notissimi autori. 

Non mi sembra inutile, dunque, anche in questa sede, e dopo che tanti altri autori si sono ormai più volte espressi a proposito dello stesso argomento, tentare di spiegare quale possa essere il senso pedagogico da assegnarsi all’utilizzazione del fumetto in varie situazioni di apprendimento e in vista del conseguimento di possibili obiettivi di carattere educativo. 

Sui pregiudizi di cui il fumetto è sempre stato vittima quando lo si è visto a contatto con una dimensione didattica, pesa probabilmente una specie di antefatto critico, una sorta di malinteso primordiale. Con esso fa assai bene i conti Gino Frezza quando polemizza con Asa Berger a proposito di una fondamentale caratteristica del fumetto. Per Asa Berger l’elemento distintivo dei comics, il segno che li definisce preliminarmente, è dato dal loro apparire «semplici e spontanei avvicinandosi forse a quella mancanza di realismo che si suppone caratterizzi le idee che la gente ha sul mondo nell’età dell’innocenza. Da questo punto di vista l’innocenza bambinesca del dialogo e il carattere, spesso infantile, delle storie, coincidono perfettamente».

Frezza invece ritiene che sia giunto il momento di fare i conti con un simile equivoco: la presunta, primigenia innocenza dei comics deriva unicamente dal cercare di spiegarne l’esistenza solo con il collocarli entro l’ambito culturale in cui, di fatto, apparvero all’inizio della loro storia, quello offerto dagli Stati Uniti, perduti nel loro sogno ottocentesco, tesi a esordire come grande potenza, a ritenere concrete e realizzabili numerose utopie. Una società «innocente» dunque, pervasa da messaggi adatti a soddisfare animi globalmente ispirati alla speranza, e permeata di quieti e luminosi valori. Un ambito ideale per la produzione di immagini altrettanto «innocenti», per la nascita e il potenziamento di un medium semplice e «onesto», capace di tradurre, in messaggi comprensibili a tutti, le istanze di fondo e quasi lo spirito di un simile universo.

Ma Frezza fa scaturire da tali considerazioni una specie di storia specifica del fumetto, che lo vede cercare e reperire proprie connotazioni e indubbie ascendenze particolari: «Il fumetto trova una sua identità sia proseguendo tradizioni letterarie-culturali (illustrazioni, letteratura “infantile”, ecc.) sia mettendo in opera specifiche leggi della percezione visiva del movimento… Nel prosieguo di precedenti tradizioni esso difatti attua uno straordinario e puntuale riferimento a certa letteratura “infantile” e in particolare al grande archetipo che di essa diventò Alice in Wonderland del reverendo Lewis Carroll. Di Alice si può dire anzi che il fumetto riesce a interpretare il suo più profondo senso: la “comicità” che scaturisce dallo scontro di logiche diverse e la paradossalità, che questo scontro mette in mostra, dei criteri di verità e di descrizione del reale inerenti a quelle logiche».

Interessanti e ricche di implicazioni, le osservazioni di Frezza mi sembrano utili per ribadire anche quanto vado sostenendo mentre scelgo il tipo di confronti e di correlazioni in cui ho deciso di collocare i fumetti delle bambine che qui presento. Proprio perché provengono da un medium che nasce dalla letteratura per l’infanzia, i fumetti non «possono» essere «innocenti» e dunque non devono essere ritenuti trascurabili e marginali. In essi, infatti, si riversa una eredità complessa e ricca di coincidenze con spazi culturali spesso oppositivi, in ogni caso difficili a decifrarsi e ricchi di ascendenze. Collegato inscindibilmente ai prodotti dell’industria culturale coeva, il fumetto nasce già eccezionalmente «maturo», sia per quanto attiene agli aspetti grafici che per quanto riguarda la struttura e i contenuti.

Le prime tavole domenicali, per esempio, ricavano dal cinema un proprio «costitutivo antinaturalismo, sulla cui base un oggetto può trasformarsi nella vignetta successiva in una dolce fata o nell’animale più spaventoso. Quest’antinaturalismo può essere non di meno interpretato come una manifestazione di leggi particolari della percezione visiva che vengono sfruttate in questo periodo: il lettore delle tavole deve imparare ad “apprendere”, a livello percettivo semiotico, il bizzarro “mantenersi” di un oggetto tra due vignette, materialmente ed empiricamente distanti, al di là delle modificazioni concrete di forma che ne sperimentano i limiti e le costanti di riconoscibilità».

Il fumetto – ed è bene che diventiamo di ciò consapevoli anche osservando, per esempio, i prodotti da cui, in Italia, esso ricavò suggerimenti: le tavole non fumettate di Rubino o di Mussino nel Corriere dei Piccoli – risulta davvero dal comporsi di eredità in cui si intrecciano problemi complessi. 

dacci questo veleno antonio faeti
Una tavola di Attilio Mussino dal Corriere dei Piccoli

In Hogben, ad esempio, sono sviluppate alcune attualissime considerazioni a proposito del rapporto esistente tra la grande stampa inglese che si fece illustrata e visivamente appetibile per ottenere lettori fra le classi lavoratrici e per sostenersi, già da allora, con la pubblicità, e i libri per l’infanzia. Nel 1899 il Daily Mail stampava 543.000 copie e si valeva sistematicamente di illustrazioni, specialmente per trasmettere i messaggi dei propri inserzionisti pubblicitari. 

Nello stesso periodo i libri per ragazzi abbandonarono quasi completamente le formule catechistiche su cui si erano tradizionalmente attestati fin dal secolo precedente, poiché vennero coinvolti nei nuovi processi produttivi e quindi videro sorgere un vero e proprio predominio dell’immagine. Secondo Hogben lo stesso lettore che si andava formando sull’impronta visiva del Daily Mail cercava, per i propri figli, libri che assomigliassero al suo giornale e ne traducessero, o meglio illustrassero, in formule pedagogiche, i contenuti più apprezzati. Peraltro poi, sempre Hogben, osserva che Dickens aveva abbondantemente anticipato le scelte editoriali del Daily Mail assegnando grandissima importanza agli illustratori e scandendo le sue storie, e le strutture delle stesse, sulla base dei suggerimenti avuti da essi. Sarebbero, questi offerti da Hogben, spunti sufficienti per chiarire come il fumetto delle origini – sempre meno «innocente» dunque – potesse già caricarsi di quella duplice capacità di analizzare tanto gli interni domestici, con adeguati repertori tipologici, quanto i grandi e complessi fenomeni della vita cittadina. I contributi di Outcault e di Dirks si valgono senz’altro di simili antecedenti.

Le origini del fumetto, sempre secondo Frezza, spiegano in modo inequivocabile come esso sia da considerarsi un medium capace di caricarsi di complessi significati: proprio in quanto le prime tavole contenevano fumetti comici si può parlare di esse come di mezzi adatti ad attivare processi collegati con vasti orizzonti conoscitivi, per esempio quelli cinematografici, di cui si ebbero grandi prove nello stesso periodo. Frezza parla del fumetto come di un «segno grafico-verbale» ritenendo però che tale definizione sia da usarsi solo in modo strumentale e rimanda ad analisi più approfondite la spiegazione relativa alle ragioni dell’autentico compenetrarsi dei due momenti indicati. 

A me è spesso capitato di scoprire che i bambini si valgono delle possibilità espresse dal fumetto proprio nel senso di utilizzare il «segno grafico-verbale» in tutta la propria capacità comunicativa. E ciò accade sia perché, fin da quando cominciano a produrre a scuola i loro disegni, sono abituati a completarli spontaneamente con fumetti, sia perché, globalmente, i comics si pongono spesso nelle condizioni di ricevere un contributo creativo anche da parte del fruitore e quindi lo abituano a cimentarsi autonomamente entro il proprio perimetro. 

dacci questo veleno antonio faeti
Dick Tracy

Il fumetto è un medium che include normalmente, nel proprio criterio di produzione, la collaborazione dei lettori; anche da questo punto di vista riprende e potenzia una delle costanti ereditate dalla letteratura popolare ottocentesca. Francis Lacassin osserva che un simile rapporto con i lettori si è ancora più strettamente consolidato da quando le modalità secondo cui l’industria dei comics affronta il mercato hanno assunto le caratteristiche e i ritmi moderni: «La permeabilità del creatore alle suggestioni esterne si spiega con le condizioni di produzione del fumetto – ancora più accentuate che nel romanzo popolare – essendo la diffusione del racconto congiunta alla discontinuità dell’ispirazione, cioè all’improvvisazione quotidiana. Come al tempo di Eugène Sue, il soggettista scrive alla giornata il suo pezzo inviato via via a un disegnatore incalzato dai tempi delle lastre e della pubblicazione: nessuna possibilità di rilettura. L’inizio della storia è pubblicato spesso senza che l’autore sappia come terminerà: a parte il certo trionfo dell’eroe. Per arrivarvi, per sviluppare l’avventura in corso, arricchirla di incidenti, l’autore conta sulle idee che gli procureranno lo spettacolo della strada, un viaggio, la lettura dei giornali, l’incontro di un amico o di un ammiratore. Arriva ad augurarsi, a provocare quasi, queste suggestioni esterne, quando la sua striscia è stata pubblicata ogni giorno senza interruzione da 35 anni (Mandrake) o da 38 anni (Dick Tracy)». 

C’è inoltre un fondamento comune che collega nettamente il lettore – specialmente il lettore bambino – al fumetto e quasi lo «obbliga» a comprenderlo, a scandirne i tempi, giungendo quasi all’immedesimazione, e in ogni caso a stabilire con esso un contatto positivo prossimo alla ripetibilità, adatto a garantire una rapida acquisizione delle modalità di creazione. Il fumetto, infatti, appartiene a un ambito in cui si situano stabilmente sogni, fantasmi, tentativi di metaforizzazione. È un medium necessario al nutrimento di un immaginario collettivo proprio in quanto, storicamente, si è reso disponibile, attraverso concrete presenze contenutistiche e figurali, per adempiere un simile compito: «Sublimazione dell’ingenuità, culto della inverosimiglianza, esaltazione della dismisura nei caratteri, atti, poste in gioco. Celebrazione del doppio, dell’ambiguo, del derisorio. Antologia dell’artificio, impostura deliberata che accredita l’irreale come reale. Tali sono i motivi che hanno valso alla letteratura popolare e al fumetto, suo erede, le condanne più severe e le adesioni più entusiastiche. L’una e l’altro hanno rappresentato in tempi successivi ciò che si è creduto l’inferno della letteratura e che ne è in realtà il suo inconscio».

Permeati dall’inconscio letterario in cui sono immersi in quanto fruitori di fumetti, i bambini dovrebbero risultare, almeno per quanto riguarda ciò che del loro immaginario deve essere meglio studiato e possibilmente compreso, abbastanza facilmente inseribili nel mondo di archetipi che Lacassin definisce comune ai comics e alla letteratura popolare. L’elenco, anche succinto, di momenti mitici, fissato da Lacassin, in cui Zorro, Tarzan, Mandrake, Rocambole, l’Ebreo Errante, l’Uomo Mascherato rappresentano altrettanti punti di riferimento, riesce peraltro assai poco convincente se rapportato ai sogni e alle fantasie delle ultimissime generazioni di bambini, quelle cresciute invece sui ritmi di Sesame Street o sulle ripetitive sequenze di Goldrake o di Capitan Harlock.

capitan harlock complete edition goen
Capitan Harlock

Qui si pongono allora vari interrogativi, cui è difficile rispondere: le comunicazioni di massa, nel loro rivolgersi all’infanzia, stanno indubbiamente cambiando il loro potenziale mitopoietico. Non è possibile indicare ancora in quali direzioni stiano globalmente procedendo i media, nelle loro attualissime specificazioni, ma a un breve raffronto tra i «vecchi» miti delle comunicazioni di massa e della letteratura popolare e i nuovi prodotti, sembra già evidente una constatazione.

I miti che Lacassin ritiene ancora attuali, mentre si dovrebbe notare come essi abbiano davvero costituito punti di riferimento per generazioni che hanno da tempo abbandonato l’età infantile, costituivano precisi repertori, si componevano quasi in una specie di abbecedario cosmico in cui l’immagine poteva trovare alimento a sogni, contenuti per effettuare raffronti, elementi di un vocabolario onirico di cui servirsi per esprimere bisogni altrimenti destinati a rimanere muti o a subire censure. 

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