RubricheSofisticazioni PopolariNostalgia, hype e l'ennesima capsule collection di cui (non) essere sorpresi

Nostalgia, hype e l’ennesima capsule collection di cui (non) essere sorpresi

Tendenze e direzioni della pop culture viste da chi non riesce a farne a meno, anche se vorrebbe. "Sofisticazioni popolari": una rubrica di Fumettologica a cura di Marco Andreoletti. Il giovedì, ogni 15 giorni.

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Durante l’ultima fashion week milanese ha fatto molto parlare di sé la collaborazione tra il brand danese Han Kjøbenhavn e la software house Blizzard per una collezione ispirata al videogame di prossima uscita Diablo 4. La stampa generalista e quella specializzata si sono dimostrati così eccitati dall’evento che ho rintracciato tracce dello stesso comunicato stampa in due articoli di testate agli antipodi come il Corriere della Sera e Polygon.

L’idea che una collaborazione simile sia ancora qualcosa di cui sorprendersi è forse l’ultimo strascico di una mentalità che non ha ancora capito quanto la pop culture sia diventata pervasiva in ogni ambito. E di come l’età media (e la disponibilità economica) del fruitore medio di fumetti/videogiochi/animazione sia ormai il doppio rispetto a quello a cui erano abituate le generazioni pre-Millenial. 

Vale la pena ricordare come la prima iterazione di Diablo risalga al 1996, mentre il mega successo del secondo capitolo al 2000, ponendo il fan di lunga data in una fascia d’età come minimo over 30. Al contempo, risulta difficile immaginarsi troppi quindicenni interessati alla Milano Fashion Week. In altre parole, le freschissime collaborazioni tra brand di grido e IP dall’alto tasso nerd parlano per lo più a un pubblico adulto desideroso di mostrarsi in pubblico con una felpa di Pikachiu da 275 dollari.

Non si vuole criticare la creatività di queste iniziative – anzi, spesso il risultato è davvero spettacolare, e il rischio di farsi male mettendo istintivamente mano al portafoglio è tangibile – quanto l’incapacità di presentarle come una prassi ormai comune del mondo della moda.

Se Louis Vuitton che collabora come Yayoi Kusama è ancora considerato qualcosa di enorme e “alto” – anche se si tratta di un filone che va avanti da decenni, basti ricordare il precedente coinvolgimento di artisti come Richard Prince e Takashi Murakami – l’avvicinarsi ad ambiti di pura evasione viene ancora visto come qualcosa di cui parlare con (annoiata) sorpresa. Proprio per questo motivo ho pensato di fare il punto di tutta la storia di queste collaborazioni, cercando di essere il più completo possibile. 

Ho evitato di citare tutti i casi di puro merchandising, la cosiddetta fast fashion (tipo le linee di t-shirt UT di Uniqlo), concentrandomi sulle proposte dove lo sforzo creativo è palese e la capsule collection di turno ha un minimo di significato di per sé. Ho anche evitato di citare i casi di ispirazione o richiamo – per quelli vi rimando a questo ottimo articolo – limitandomi a quei casi dove la collaborazione è esplicita e regolamentata.

Ogni sconfinamento in ambito di meta-universi vari, NFT o riconducibile a ogni tentativo di comunità virtuale e privo di prodotti tangibili è stato evitato con cura. Se avessi dovuto fare una scelta in questo ambito, mi sarei limitato agli interventi all’interno dell’universo Animal Crossing, ma solo per simpatia personale verso il prodotto. Il resto è da considerarsi come fuffa basata sull’hype del momento.

La più antica collaborazione tra un brand dotato di una certa allure e l’universo nerd potrebbe essere quella riconducibile alla collezione voluta da Takao Yamashita per il suo marchio Beauty:Beast. Era il 1998, e i robot corazzati di Mobile Suit Gundam si trovarono a essere i protagonisti assoluti della capsule Hyper Over Drive. Per trovare qualcosa del genere sull’altra sponda dell’oceano bisognò aspettare la collaborazione tra Paul Pope e DKNY del 2007. Il fumettista non si limitò a fornire qualche illustrazione ma disegnò una vera e propria storia che finì stampata sui vari capi.

Una scapa di DKNY firmata da Paul Pope

Nello stesso anno, Prada non si fece trovare impreparata e coinvolse James Jean – all’epoca vincitore di quattro dei suoi sei Eisner Awards consecutivi come come migliore copertinista – replicando poi la collaborazione nel 2008, nel 2017 e nel 2018 e inserendo di volta in volta una parte sempre più importante dei suoi disegni negli abiti in vendita. Sempre nel 2007 arrivò nei negozi una linea dedicata a Sonic The Hedgehog voluta da Carri Mundane, all’epoca forse il nome più caldo di tutta l’industria. Tanto per rafforzare un connubio in evidente ascesa, alla stessa stilista furono commissionati da Nintendo alcuni accessori per customizzare la console Nintendo DS.

Saltiamo al 2012, quando Prada annoverava i personaggi del popolare videogame Final Fantasy XIII-2 come testimonial per la propria collezione. In realtà l’idea non arrivava dalla maison milanese ma da Max Pearmain, editor del magazine Arena Homme+, che dedicò all’evento un servizio di dodici pagine.

Ben diverso l’approccio di Louis Vuitton quando, nel 2016, scelse Lightning di Final Fantasy come XII come modella su forte richiesta del proprio direttore creativo, Nicolas Ghesquière. «Lightning è l’avatar perfetto per una donna globale ed eroica e per un mondo in cui i social network e le comunicazioni sono perfettamente intrecciati alle nostre vite. È anche il simbolo di nuovi processi pittorici. Come si può creare un’immagine che vada oltre i principi classici della fotografia e del design? Lightning annuncia una nuova era di espressione» furono le parole dello stesso Ghesquière in occasione del lancio della campagna.

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Una maglia della collezione Slam Dunk x Jordan

Tra il 2013 e il 2014 ci fu l’ingresso di due autentici giganti del fumetto nella galassia fashion. Frida Giannini richiese infatti il contributo creativo di Hiroki Araki nel mondo di Gucci, tanto da arrivare a pubblicare un manga disegnato per l’occasione. Meno estesa ma ugualmente notevole fu la collaborazione tra Takehiko Inoue e Nike, che si concretizzò in una fantastica capsule a tema Slam Dunk, con tanto di irrinunciabile maglia dello Shohuku marchiata numero 10. Merita una citazione, anche se non del tutto attinente alla nostra ricerca, l’utilizzo da parte di Comme des Garcons di alcune pagine di Akira per una pubblicazione pubblicitaria curata dalla nota casa editrice NoBrow.

Tra le migliori collaborazioni del 2015 impossibile non citare quella di Moschino in sinergia con Nintendo in concomitanza con i 30 anni di attività di Super Mario, l’idraulico più famoso del mondo. Il risultato fu la coloratissima collezione SuperMoschino. Lo stesso anno segnò l’ingresso nel mondo nerd anche del gigante (e solitamente austero) Yohji Yamamoto, che dedicò una collezione della sua linea Groundy ai villain della Disney. Lo stilista ci prese gusto e negli anni è finito per omaggiare diverse icone dell’animazione e dei manga: nel 2019 è stato il turno di Ghost in the Shell e One Piece, mentre nel 2020 di Devilman e del mondo Pixar.

Nel 2018 fu ancora una volta Prada ad alzare ulteriormente l’asticella coinvolgendo un nutrito numero di fumettiste per una collezione improntata sul female empowerment: Brigid Elva, Giuliana Maldini, Joelle Jones, Trina Robbins, Emma Rìos, Tarpé Mills, Natsume Omo e Fiona Staples. Se la scelta di alcune di queste disegnatrici poteva essere riconducibile solo alla ricerca di un’estetica allineata alle ultime tendenze del fumetto popolare – all’epoca Rìos, Jones e Staples erano tra i nomi di punta di Image Comics – la volontà di raccontare la storia di Angela Davis, «associata al Black Panther Party, attivista, educatrice e autrice, conosciuta negli anni Sessanta per le sue azioni di controcultura radicale, leader del Partito Comunista USA e parte del Movimento per i Diritti Civili», testimoniava un pensiero sull’argomento profondo ed estremamente politicizzato.

Nel 2019 la quantità di collaborazioni ad arrivare sul mercato subì un ulteriore aumento. Oltre a quelle già citate di Groundy, abbiamo una linea di Moschino ispirata a The Sims, una di Louis Vuitton collegata a League of Legends, GCDS per i Pokémon, Coach in collaborazione con l’attore Michael B. Jordan per Naruto, Bape e DC Comics, ma soprattutto, per quanto mi riguarda, le incredibili Vans dedicate al mondo de Le bizzarre avventure di JoJo. Il brand californiano comprese alla perfezione l’estetica di Araki e lanciò sul mercato un paio di modelli che parevano uscire direttamente dal manga. 

Un maglione di Moschino con Super Mario per la collezione Supermoschino

Il trend proseguì senza il minimo accenno anche nel 2020 con il solito Yamamoto, il brand italiano GDDS con un inedito omaggio a Tom & Jerry, una collaborazione tra il brand nippo-tedesco specializzato in abbigliamento urbano dal folle tasso tecnico Acronym e il game designer Hideo Kojima e l’idea dello stilista Xavier Brisoux di coinvolgere i fumettisti Adam Pollina, Frank Quitely, Héctor Barros, Big Zim, DJRK, Maxime Garbarini, David Finch e Pierre Philippe chiedendogli di immaginare una nuova generazione di eroine partendo dai suoi abiti. Il risultato fu a tratti clamoroso, ma non c’è nulla di cui stupirsi, considerando il talento di alcuni degli autori coinvolti. 

Continuiamo questa nostra estenuante maratona arrivando al 2021 e citando almeno il Doraemon di Gucci, l’incontro tra Balenciaga e Fortnite – la cui cosa migliore rimangono i billboard immersivi sparsi per il mondo -, la Supreme che ha pensato bene di rispolverare il Corvo di James O’Barr – vale pena ricordare come nel 2008 il brand di New York scelse invece come testimonial Kermit la rana – e BAIT che ha realizzato per Adidas un modello di Montreal 76 a tema One-Punch Man.

Arriviamo dunque all’esplosione del 2022, con una pletora di collaborazioni così fitta da costringerci a un mero elenco. Abbiamo GDDS (ancora!) per One Piece, i Pokémon di BIllionaire Boys Club, Maje per Sailor Moon, omaggiata anche dall’inarrestabile Vans, che non si è fatta mancare neppure una capsule a tema One Piece, HYPE per Sonic the Hedgehog, Lacoste e Minecraft, DC Comics che arriva all’ufficio stile di Lanvin e Balman con Z2 Comics. Senza dimenticare poi le stupende Onitsuka Tiger di Urusei Yatsura

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Immagine promozionale della collezione di Jimmy Choo ispirata a Sailor Moon

Il 2023 è appena cominciato e già abbiamo Jimmy Choo e Sailor Moon (evidentemente proprietà intellettuale super attraente per una determinata fascia di pubblico) e la sfilata a tema Diablo 4 di cui ho scritto in apertura. Arrivati a questo punto, risulta davvero difficile credere agli increduli entusiasmi di articoli che pensano di richiamare l’attenzione puntando sull’eccezionalità di questi eventi. Al netto di tutti gli esempi riportati sopra – dove non è una proprietà intellettuale a essere richiesta ma il talento e l’estetica di un autore – coinvolgere personaggi della nostra infanzia o adolescenza all’interno di linee di abbigliamento non è mai stato uno stunt pubblicitario o una mossa di marketing quanto un rafforzamento del legame con un mondo il cui distacco è sempre più difficile. Se non impossibile.

Qualche settimana fa il Saturday Night Live ha mandato in onda un incredibile sketch che fonde la serie HBO tratta dal videogame The Last of Us con Mario Kart. Quello che colpisce maggiormente non è la qualità dello stesso, quanto il fatto che si dia per scontata una perfetta conoscenza del materiale di partenza da parte del fruitore. Se aver visto la serie del momento è un prerequisito abbastanza scontato per uno stile di scrittura che fa della presa sull’attualità uno dei suoi punti di forza, considerare il racing game di Nintendo una parte integrante dell’educazione di ogni singolo spettatore è un altro paio di maniche. Probabilmente lo stesso che convince da 25 anni direttori creativi di tutto il mondo ad associare le proprie creazioni a personaggi ormai assunti a costanti della nostra vita.

Non prendere coscienza di questo cambiamento di paradigma significa non avere chiaro quanto l’infantilizzazione della cultura ormai sia fuori controllo. A tutti piacciono fumetti e videogiochi, ed è legittimo investire il proprio tempo a goderne come più si preferisce. Il pericolo nasce quando si smette di percepire le iterazioni più infantili di questi linguaggi come tali e li si eleva a pilastri fondamentali della nostra vita interiore. A perderne è la complessità potenziale della produzione creativa e, a lungo andare, il nostro spettro di possibilità come utenti.

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