
Nel mare magnum di prodotti culturali che si possono consumare nella nostra oramai pantagruelica dieta mediale – come dicono quelli che se ne intendono di sociologia della comunicazione – ho trovato che galleggiava qualcosa che mi ha fatto molta simpatia. Assieme a Paramount+, qualche mese in Italia è sbarcata Halo, la serie tv del 2022 tratta dal videogioco omonimo.
Il videogioco è un classicone con una storia delle origini notevole già di suo: creato originariamente dalla software house Bungie come evoluzione di Marathon (uno dei pochi giochi belli su Mac negli anni Novanta) e di Myth, diventa poi con l’acquisizione di Bungie da parte di Microsoft il “pezzo portante” della strategia di lancio della Xbox. Halo è una esclusiva Xbox ed è uno sparatutto in soggettiva che racconta le avventure di Master Chief, cioè John-117, un marine geneticamente potenziato (si chiamano “Spartan” ma i nemici preferiscono chiamarlo “diavolo”) che fa da solo o quasi la guerra agli alieni.
Di razze aliene ce ne sono varie, tra quelle estinte a quelle invece piallate dalla loro religione esoterica che cercano di realizzare la profezia, cioè cancellare la vita nella galassia. Il successo planetario di Combat Evolved, cioè il primo titolo della serie videoludica ambientato su un mondo ad anello che è semplicemente una libidine onirica per chi ci ha giocato, è stata la base del successo di Xbox e ha provocato notti insonni a milioni di adolescenti su tutto il pianeta, senza contare gli spin-off transmediali: libri, fumetti, webclip e telefilm.
La serie di Paramount+ – 9 puntate di 45 minuti l’una – è già stata rinnovata per una seconda stagione e secondo me è fatta molto bene, con plauso per le scene di azione e qualche critica sulla qualità complessiva della scrittura e soprattutto sul suo rapporto decisamente infedele con il videogioco da cui tutto origina. Ma è proprio questo a farmi simpatia.
Halo è un buon esempio di quello che chiamo “prodotto transmediale circolare“, cioè prodotti culturali che nascono su un mezzo (le console dei videogiochi), passano a un altro (l’editoria dei romanzi) e un altro ancora (i fumetti) sino a sbarcare nello streaming (che oggi è come dire il grande schermo dei nostri genitori), e poi tornano indietro nella console e ricominciano il giro. Tuttavia, quello che li rende circolari, come l’economia, è che si cibano di loro stessi e si arricchiscono. Si fecondano e si contaminano.
Personaggi e situazioni nascono in un formato (essenziale) su console ma cambiano e diventano epopee vere e proprie soprattutto nei libri, assumendo poi un carattere ancora diverso – ma con elementi presi da tutto quel che ha preceduto – nella serie tv. Per poi ricominciare il giro dalla console, portando nel nuovo capitolo del gioco un po’ di idee maturate in altri mondi mediali.
Intanto, penso che non ci sia niente da scandalizzarsi riguardo all’infedeltà della trasposizione di un prodotto fortemente narrativo da un media all’altro: tutti i reboot, i film Marvel e DC, ma soprattutto i gaiden giapponesi (tra i quali spiccano quelli del cosmo di Gundam) sono un tradimento dopo l’altro. La ricchezza delle narrazioni non viene dalla claustrofobia delle storie monogame e talvolta incestuose, che si riproducono solo all’interno della stessa cerchia di idee e finiscono per degradare le trame e i personaggi. No, per avere belle storie e belle saghe ci vuole libertinismo culturale, capacità di reinventarsi, di tradirsi, di riscoprirsi.
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Halo ha fatto un ottimo lavoro, al riguardo, ma la capacità di creare grandi pastiche culturali si trova ovunque, soprattutto nella letteratura popolare e di genere. Pensate ad esempio al lavoro di Philip Jose Farmer, lo scrittore americano (dell’Indiana, ci teneva a precisare) che ha fatto polpettoni fenomenali e molto saporiti con Lord Greystoke, Doc Savage (l’uomo di bronzo) e decine di altri personaggi: da Phileas Fogg a Richard Francis Burton, da Hermann Göring a Samuel Clemens. Tutti personaggi riscritti, rivisitati, remixati.
Oppure, andando all’opposto nel mondo della fanfiction beatificata e delle scritture collettive, il costante lavoro di reinvenzione che decine di autori più o meno dotati fanno del personaggio di Sherlock Holmes, grazie al fatto che sono scaduti i diritti sul personaggio e su buona parte dei suoi libri. Oggi tutti possono scrivere nuove storie ambientate nell’universo di Sherlock Holmes creato da Sir Arthur Conan Doyle. Se andate su Delos.it o fantascienza.com ne trovate un sacco e una sporta, come si dice. Alcune decisamente intriganti e altre persino belle.
Tornando ad Halo, ritrovarlo in questa nuova incarnazione, oltretutto non animato o in grafica 3D, mi ha stupito e fatto piacere. Il protagonista, Pablo Schreiber, è notevole, anche se bisogna prima superare lo shock di immaginare Master Chief senza casco (che ha un valore simbolico enorme perché a specchio, cioè specchio del volto del giocatore che lo impersona di volta in volta). E poi c’è un trittico di attrici potentissime: dalla stupenda Charlie Murphy alla energica Yerin Ha sino alla coraggiosa Olive Gray..
Ho giocato molti giochi di Halo su Xbox, negli anni. È uno dei miei favoriti accanto a Tomb Raider e Call of Duty, tra i gioconi mainstream. Ho letto anche un paio di romanzi pubblicati in Italia da Multiplayer.it, che ha fatto un lavoro di apripista nel portare la letteratura di genere dei videogiochi nel nostro Paese incredibile. E mi sono goduto questa serie molto più della webserie live-action Halo 4 Forward Unto Dawn e dei due corti che l’hanno preceduta, Landfall e Life (ben fatti ma non abbastanza: siamo a livelli da telefilm anni Ottanta per storia e qualità delle ambientazioni). Oltre a numerose chicche su YouTube e Twitch fatte di fanfiction animata o girate con la tecnica della Machinima, cioè la machine animation, animazione fatta usando i personaggi del gioco “catturati” con una scheda di acquisizione video.
Insomma, se avessi a disposizione un’altra mezza dozzine di vite particolarmente lunghe e sedentarie, sicuramente avrei di che tenermi impegnato.
Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.
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