
Dopo un episodio interlocutorio, pur ottimamente rappresentato dal tratto energico di Giorgio Santucci – una specie di ospitata dalla serie classica Dylan Dog OldBoy, volta più a rassicurare i vecchi fan sul ritorno all’ortodossia che a imprimere una direzione chiara alla testata regolare – il numero 439 di Dylan Dog, intitolato L’invasione silenziosa, mette in scena alcuni ingredienti più interessanti per una riflessione sul futuro del personaggio.
La bella copertina dei Fratelli Cestaro, con un Dylan Dog aggredito dalla sua immagine allo specchio, si rifà platealmente a una vecchia illustrazione di Angelo Stano per “i Tarocchi dell’incubo” (anno 1991): è solo una delle tante autocitazioni che incontreremo nel corso di un albo che non mancherà di proporre sapori già noti del Dylan Dog sclaviano. Il più evidente di questi rimandi al tempo che fu è senza dubbio al numero 62, I vampiri (di nuovo: anno 1991): un altro episodio dal sapore “complottistico” che si apriva, come questo, con una scena d’azione molto drammatica, l’assalto di una squadra di polizia a un edificio occupato.
In quella storia di Sclavi e Carlo Ambrosini, l’edificio assaltato era la sede di un gruppo di ribelli londinesi che cercava di opporsi all’invasione di esseri malvagi dal volto appunto di pipistrelli vampiri. Tramite l’assunzione di un particolare siero, una “droga” prodotta clandestinamente dai ribelli, Dylan Dog scopriva come gli esseri vampireschi già «vivono tra noi» (altra autocitazione dello stesso Sclavi), perfettamente inseriti nella società, nella politica e nelle istituzioni, portando di fatto il mondo verso la deriva.

Traendo spunto da film come L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel (1956), Il villaggio dei dannati di Wolf Rilla (1960) e il suo remake firmato da John Carpenter (1995), Sclavi voleva esprimere un’amara condanna verso l’individualismo, l’arrivismo, il conformismo dei suoi tempi, di cui il vampiro si faceva metafora visiva e politica.
In uno dei momenti più lucidi del pessimismo sclaviano, l’episodio si concludeva con la resistenza ormai soffocata, e con un Dylan Dog chino sul suo diario a riconoscere la sconfitta: «I vampiri sono reali e vivono tra noi. Bisogna imparare a riconoscerli senza droga e a combatterli senza violenza. Che cosa dicevano, nel ‘68? Allargare l’area della coscienza: ma del ‘68 ormai si ride, e la coscienza si restringe sempre più».
Trent’anni dopo quelle amare parole, la coscienza ha preso forse tutto un altro significato: Dylan Dog si guarda allo specchio e trova di fronte a sé un’immagine sfocata. In questa sorta di remake scritto da Barbara Baraldi, l’edificio preso d’assalto dalla polizia a inizio albo è la sede di una stazione radiofonica i cui dipendenti sono tenuti in ostaggio da uno squilibrato, tale Wayne, con la mania delle armi e con una malattia pittoresca, la prosopagnosia, ovvero l’incapacità di riconoscere i volti delle persone.

Nell’interpretazione notevole di Davide Furnò, i volti rappresentati nella soggettiva di Wayne appaiono con un inquietante effetto sfocato: ed è proprio in questa felice intuizione visiva che si ricava l’elemento più significativo dell’albo. Al posto della droga, è ora una sperimentazione tecnologica, il 6G, che tiene sotto controllo le persone, che riporta all’ordine gli elementi non conformi e fa impazzire chi si oppone al pensiero comune.
La ragazza del mese, Sheri, è costretta a rinunciare al suo desiderio di lavorare in radio per inseguire un futuro di sicurezza nell’azienda del padre. In questa resa personale si percepisce almeno qualcosa di presente: tra tante citazioni un po’ gratuite di cose di decenni fa, finalmente una citazione del contemporaneo. Di nuovo la libertà si rivela un sogno irraggiungibile, soffocato da una società sempre più standardizzata a cui nessuno può sfuggire, nemmeno Dylan. E la sua finale ammissione di sconfitta suona oggi ancor più drammatica di allora.

Nei volti confusi della folla, negli slogan dei politici in televisione (“Prima gli inglesi!”), nella spaventosa confusione di un’era digitale che si contrappone a un’età d’oro analogica fatta di vinili, di fotografie in pellicola, di stazioni radio, Dylan ammette ancora di più la propria inadeguatezza. Allontanata ogni ipotesi di rinnovamento e affermata la fedeltà ai suoi mensili cliché – le frasi fatte e autoreferenziali, il quinto senso e mezzo, Groucho che gli lancia la pistola – il personaggio di Sclavi si è arreso alla rassicurante certezza della nostalgia: ma è una sicurezza solo apparente.
Trent’anni dopo i “vampiri”, la coscienza si è ristretta al punto da ribaltarsi in perenne teoria del complotto, sistematica contrapposizione tra noi e “loro”, tra un passato identitario e un futuro quanto mai incerto. Questo è il peggior incubo per il nostro indagatore. Rinchiuso suo malgrado in un mondo di mostri che non hanno neanche più il volto spaventoso dei vampiri, ma i contorni indefiniti di una fotografia sfocata, l’Old Boy non è mai stato così old.
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