
Ci sono piccoli editori che a volte riservano sorprese inaspettate. Cliquot è uno di questi: la sua ragion d’essere è il recupero di classici mancati, di tutto ciò che è rimasto ai margini. Non è un caso che che il nome derivi da Monsieur Chevalier Cliquot, un noto mangiatore di spade che, agli inizi dello scorso secolo, si esibiva in spettacoli di vaudeville in giro per l’Europa. Il suo ricordo è sopravvissuto tra le stanze di polverose librerie parigine che ostinatamente conservano locandine sbiadite e consunte. Spesso, avventurandosi in alcuni di questi negozi o tra i bouquinistes asserragliati sul lungosenna, tra vecchie edizioni a stampa ormai brunite e libri che non hanno mai conosciuto per insospettabili motivi il successo del pubblico, si scovano piccole gemme nascoste.
Con questa logica del recupero di un passato che non fu mai presente, l’editore ha portato nelle librerie italiane uno di questi classici mancati: La principessa Angina di Roland Topor (in due splendide edizioni). Ormai dimenticato, se non per il classico L’inquilino del terzo piano (Le Locataire Chimérique, 1964), l’artista francese è una figura aliena e, nel contempo, moderna. Eclettico fino al midollo e irriverente nella sua inquietudine disordinata, si applicò con successo alle arti in ogni forma: dalla letteratura al disegno, passando per l’animazione e il cinema, non disegnando la grafica e la recitazione.
Insomma, una figura poliedrica, la cui cifra non è da trovare nel singolo talento, ma nella caustica capacità di mettere in disordine il mondo, di spettinare e ricomporre la realtà in maniera surreale, dando al non-senso dignità, dimostrando che forse ai margini dell’ordine costituito il particolare fuori posto mostra una via di fuga e di salvezza. «Un altro solitario, maturato in un angolino, che si è dilettato con tutte le influenze e le ha vomitate, sadico fino all’insopportabile… disturbante. Il maestro dell’inquietudine, se così si può dire» scriveva François Cavanna a proposito di Roland Topor nel 1981.
Ronald Topor frequentò l’École des Beaux-Arts di Parigi dal tavolo del bar di fronte – come era solito dire – manifestando sin da subito una certa idiosincrasia per l’irregimentazione. Fu tra i primi collaboratori della rivista Hara-Kiri, condividendo un culto per il cinismo, ma seppe anche adattarsi a lavori più alimentari, lavorando per il tabloid Elle. Insieme a Alejandro Jodorowsky e Fernando Arrabal fondò nel 1962 il collettivo Panique, con cui dare una scossa a un surrealismo ormai à la page.
Ma fu nei decenni successivi che il suo genio si applicò senza sosta all’animazione e al cinema. Non si può non ricordare il successo di un classico come La Planète Sauvage, vincitore del premio speciale delle giuria a Cannes nel 1973, così come la collaborazione con Federico Fellini e il sodalizio con Henri Xhonneux, con il quale produsse nel 1988 un adattamento della vita del Marchese de Sade, mostrando così una mai sopita passione per la sua l’opera.
Come dicevamo, La principessa Angina fu il suo secondo romanzo. Pubblicato nel 1967, mette al centro le vicende di un’insolita principessa bambina in compagnia del fido cancelliere il duca di Vitamine a bordo di un furgone a forma di Elefante: tra calembour e insolite situazioni – che sembrano scaturire dalla penna equilibrista del Raimond Queneau di Zazie nel metró – lo strampalato duo incrocia la sua strada con Jonathan, un ragazzo che suo malgrado viene trascinato in un sogno ad occhi aperti. La scrittura di Topor è un inno alla libertà, al desiderio spregiudicato di tracciare traiettorie inconsuete che godono dell’anarchia e dell’imprevedibilità tipica dell’infanzia.
Dal punto di vista “fumettologico”, La principessa Angina presenta un’interessante peculiarità: le illustrazioni che accompagnano il romanzo furono create da Topor cercando di “mimare” lo stile di Theodore Maurisset, un disegnatore attivo nel Diciannovesimo secolo, famoso per i suoi rebus apparsi sul settimanale L’Illustration e per la collaborazione con il giornalista e scrittore Louis Adrien Huart. Quest’ultimo divenne famoso per le Fisiologie, una serie di quadretti satirici in cui castigava i costumi dei parigini. Nell’ambito della rivista Le Charivari, Maurisset collaborò con artisti come Jean-Jacques Grandville e Honoré Daumier (famoso soprattutto per le sue caricature), distinguendosi per l’acume con cui ritraeva la vita quotidiana e l’inventiva nel creare rebus che godessero di un’ampia diffusione popolare.
Nei rebus come ha evidenziato Jean Francois Lyotard – accostandoli all’interpretazione analitica di Freud o alla poesia di Mallarmé – si attua una decostruzione degli spazi linguistici e plastici: una sorta di scossone ad entrambi gli ordini. Topor, da agitatore seriale, non era immune all’anarchia dei rebus, e in quello spazio di confusione del testuale e del visuale vide un’arma per poter mettere in crisi il testo romanzesco. L’illustrazione non era un semplice traduzione della parola, ma diventava un amplificatore di senso o – sarebbe meglio dire – di non-senso.
Uno spazio in cui mettere a dura prova la pazienza del lettore, che cercava una soluzione che in questo senso sfuggiva. Le immagini partorite dalla fervida mente di Topor sono sdrucciolevoli, sfuggono alla presa, sono boutade dal sapore macabro, dove il grottesco e il perturbante convivono insieme a un testo che diventa sempre più caotico. Non è un caso che il gusto decadente di Topor abbia fatto breccia in un autore come il fumettista giapponese Shintaro Kago, che ha fondato il suo stile su una continua erosione dei confini e un impatto illusionistico e disturbante.

Certo, lo stile di Topor oggi sembra anacronistico, sebbene la capacità di confondere il lettore sia pressoché intatta. Il gusto gotico – che richiama le drôlerie medievali – e quel tratto teso e graffiato rimandano per assonanza visiva a uno di quei libri necessari pubblicati per volontà di Calasso: L’altra parte di Alfred Kubin.
Il sottotitolo dell’opera dell’allora trentunenne boemo è “un romanzo fantastico”. Sicuramente la fantasticheria che agita l’immaginazione di Kubin è diversa da quella di Topor. Se quella del francese dileggia con l’onirico, quella del litografo austriaco affonda a piene mani nell’incubo. Se la pittura toporiana è fondamentalmente legata al motto di spirito freudiano, quella di Kubin alza l’asticella dell’angoscia in un crescendo allucinatorio. Eppure entrambi sono autori che pescano a piene mani dall’inesauribile serbatoio del sogno, dove l’inesprimibile si fa visibile.
L’inquietudine di Kubin è testimone di un passaggio fondamentale della storia dell’Europa. Kandinskij lo definì il «profeta del tramonto». Tuttavia, pur incarnando un preciso momento storico, Kubin affonda con la sua arte in un territorio senza tempo, popolato di immagini che restano moderne e che la continua e inesorabile interpretazione psicanalitica non riescono a scalfire. Un po’ come succede con le opere dell’artista polacco Zdzisław Beksiński, con cui condivide questa esplorazione dell’inconscio e dell’incubo.
Le esplorazioni oniriche di Topor, senza addentrarsi nelle zone più brumose, erano più interessate alla possibilità – attraverso il sogno – di sovvertire l’ordine del reale. Le immagini oniriche diventavano macchine molli con cui analizzare un mondo. Topor non si occupava del sogno, ma della crudele ingiustizia del mondo. E lo faceva con tono icastico, attraverso immagini che erano sepolte nella coscienza collettiva e che lui portava alla luce forzando i limiti del linguaggio rappresentativo.
Così come Alfred Kubin, Roland Topor non fu solo un abile illustratore, ma soprattutto un artista a tutto tondo in cui il disegno diventò uno strumento utile a imprimere sulla carta quello che sfuggiva alla parola. Anche quando il segno si faceva più profondo, con il disegno diventava tutto a un tratto pittura, permaneva una semplicità di esecuzione che annullava gli inutili fronzoli di quest’ultima. Entrambi si dilettavano con l’altra parte, quella oscura materia in cui pulsioni, sogni e umori si intrecciano in un meraviglioso perturbante, ma se Kubin faceva scivolare lo spettatore nel proprio mondo, Topor invece produceva un effetto contrario: rivelando il meccanismo allucinatorio della normalizzazione, risvegliava in noi un sentimento di repulsione.
Se Topor fosse stato un pittore migliore sarebbe stato sicuramente un artista minore. Quello che tutt’ora ci permette di gustare la sua opera non è tanto la sua bravura con il pennino, quanto le affilate e irriverenti idee del suo estro. La principessa Angina è così un’ottima occasione per immergersi in un mondo ormai apparentemente lontano, ma così vicino.
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