Rubriche And So What? Star Trek è una cosa complicata

Star Trek è una cosa complicata

Pensiero critico e laterale attorno a quell'incrocio molto trafficato fra cultura, tecnologia e mercato. "And So What?", una rubrica di Fumettologica a cura di Antonio Dini. Il giovedì, ogni 15 giorni.

star trek picard

Quello di cui voglio parlare questa volta sta tutto in un verso di Shakespeare tratto da Sogno di una notte di mezza estate: «La vita è una storia piena di suoni e di furia, che non ha alcun significato». Ecco, alle volte, devo dirlo, quando penso a Star Trek e al prossimo episodio da guardare (perché c’è sempre un altro episodio da guardare delle innumerevoli serie e film), mi torna in mente questo verso. Ci sono dei motivi strutturali per pensarlo: esploriamoli.

Nel 2005 finì la serie tv Enterprise e, sino a che non fu portato nelle sale il film Star Trek diretto da J.J. Abrams, nel 2009, per la prima volta si ebbe uno iato di ben quattro anni: quasi un lustro senza una serie tv o un film del franchise creato da Gene Roddenberry nel 1966. Perché la verità è che c’è sempre stato, praticamente ogni anno o due, qualcosa con dentro le astronavi della Federazione, trasmesso da qualche parte. Se poi contiamo repliche, syndication e tutto il resto, non c’è rischio che l’astronave Terra abbia fatto un giro attorno a Sol senza che qualcuno fosse davanti a uno schermo di qualche tipo a guardarsi le avventure degli equipaggi e delle storie di capitani di Star Trek.

Potremmo avanzare tante ipotesi sul ruolo e gli scopi del franchise, che è stato preso di peso da J.J. Abrams e Alex Kurtzman e rivoluzionato con due reboot paralleli (ma non convergenti) e un “universo espanso” che adesso è anche entrato in una fase tanto confusa quanto particolare. Finita la terza e ultima stagione di Picard, che saluta definitivamente uno dei grandi capitani del franchise (le storie di Star Trek sono sostanzialmente storie di capitani, delle loro navi e del loro equipaggio), adesso ci sono un paio di altre serie sospese e molta, molta confusione sotto il cielo su quel che succederà dopo.

Cominciamo da quel che c’è nel piatto. Abbiamo Strange New Worlds, che ha terminato molto bene la prima stagione (la seconda uscirà a giugno e la terza è già stata ordinata), mentre tutti quanti attendiamo di vedere se si farà qualcosa con il personaggio di Jack Crusher (interpretato da Ed Speleers, bravino), il figlio di Picard e della dottoressa Beverly Crusher. Il tema è se Jack andrà da qualche parte, come si è visto alla fine di Picard, con il neo-capitano Seven of Nine (Jeri Ryan, davvero notevole) e il resto dell’equipaggio della nuova U.S.S. Enterprise post-Picard (la Titan, ribattezzata in suo onore), che comprende anche Sidney La Forge, cioè la figlia di Geordi La Forge, e che potrebbe decollare verso una serie che ancora non è stata annunciata (ma i fan pensano potrebbe essere intitolata Star Trek Legacy). Dentro ci sarebbe di tutto, anche Q (ringiovanito).

E poi ci sono varie cose da finalizzare: Star Trek Discovery ha creato una montagna di spin-off di cui vanno tirate un po’ le fila. Oltre a SNW ci sono gli Short Treks, il film in produzione con il premio Oscar Michelle Yeoh intitolato Star Trek: Section 31 (definito come: «Mission Impossible incontra i Guardiani della Galassia», e probabilmente ci sarà da ridere), poi la serie a cartoni animati Star Trek Lower Decks, più altre due o tre produzioni che potrebbero diventare qualsiasi altra cosa, molto velocemente: la serie live action Star Trek: Starfleet Academy e quella animata ‌Star Trek: Prodigy. Senza contare il videogame strategico Star Trek Timelines (non male, tra l’altro) di pochi anni fa, ma che continua a essere rimpolpato aggiungendo nuovi personaggi e nuove missioni. E ancora, la quarta e ultima stagione da 10 episodi di Discovery, che sarà distribuita a inizio 2024.

Siamo a dodici serie televisive (incluse tre animate) e 14 film (inclusi i tre della Kelvin Timeline di J.J. Abrams), per non parlare delle otto serie di libri, che si assommano a circa 850 titoli (!), e che per di più non sono considerati necessariamente parte di nessuno dei vari canoni di Star Trek. Come vedete, sotto il cielo c’è tanta confusione di cui parlare. E la complessità è il principale problema, infatti, soprattutto nel momento storico che stiamo vivendo.

In generale, il grande pubblico è molto meno attento che in passato alla complessità, che pure è un elemento costitutivo di qualsiasi universo narrativo, perché l’eccessivo bombardamento di storie legate tra loro a cui siamo stati sottoposti in questi ultimi anni sta ulteriormente devastando la nostra capacità di ritenere le informazioni. Se da un lato abbiamo bisogno di storie sempre più simili a soap-opera per adolescenti (con trame tagliate con il coltellaccio da cucina), dall’altro è complicato ricordasi cosa è successo nelle puntate precedenti, perché non si riesce a vedere tutto. Semplicemente, ci sono troppe cose da leggere e vedere, non si riesce a stargli dietro neanche se lo si fa per lavoro. E poi bisognerebbe ripescare decenni di serie con decine di stagioni, centinaia di episodi, per orientarsi. Una follia.

In questo modo i personaggi, che vengono costantemente rilanciati in età diverse della vita (vedi Spock, che a questo punto ha avuto quattro incarnazioni diverse, neanche fosse il Doctor Who), diventano soggetti confusi e privi di un arco narrativo vero e proprio. Parlando proprio di Spock, se riguardate la serie originale, lo sviluppo del personaggio portato avanti da Leonard Nimoy è straordinario (e gli è valso quattro candidature agli Emmy). Di tutto questo non c’è più traccia nelle versioni più giovani di Spock, che forse non hanno visto la serie originale o forse non hanno ritenuto importante lavorare per inserire i progressi fatti da Nimoy nella costruzione del suo personaggio. Ed è un peccato, perché Spock è stato un personaggio enorme che ha influenzato davvero il costume americano, ma non solo.

La mente logica dell’alieno e il conflitto con le emozioni che derivano dall’avere una madre terrestre, sono stati qualcosa di unico che è cresciuto ancora di più quando poi tutto questo è stato trasformato ulteriormente grazie al tema della rivalità che diventa amicizia profonda e disinteressata per il protagonista della serie, il capitano James T. Kirk (ricambiato in una delle bromance più belle mai ideate per una serie tv popolare). Quel momento di chimica tra i due attori e i loro personaggi è stato qualcosa di unico, una drammatizzazione e “tridimensionalizzazione” del personaggio di Spock (ammesso che questa parola esista) che ha pochi esempi paragonabili.

C’è ancora qualcosa da aggiungere per capire la spiazzante confusione di questo momento nelle narrazioni del mondo creato da Gene Roddenberry. È il Vecchio Bardo. C’è infatti chi dice che Star Trek, nelle intenzioni ma anche nel ruolo che gioca per la cultura popolare americana, faccia sponda con William Shakespear per un motivo utilitaristico: la continua presenza del grande poeta inglese nelle storie di Star Trek riflette il desiderio della produzione di esplorare temi universali come la moralità, il potere e la natura umana attraverso l’uso di metafore e di simboli riconosciuti dalla cultura popolare e sostanzialmente elevarsi come un prodotto “intelligente” e “midcult”.

Le storie di Star Trek e l’opera di Shakespeare hanno di sicuro un legame interessante e duraturo, ma che fa parte del motivo per cui le serie non hanno una direzione precisa e invece invece geneticamente frammentate e narrativamente eterogenee. Il motivo, a mio avviso, è che molte delle trame delle serie televisive e dei film di Star Trek si ispirano alle opere di Shakespeare: trame di episodi (soprattutto nella serie classica e in Next Generation, ma anche nei film) e alcuni personaggi fanno riferimento al grande autore inglese, padre assieme a Dante Alighieri del canone occidentale, ma con uno spettro di temi e di personaggi troppo ampio per dare coerenza a un solo franchise.

Shakespeare è presente a molti livelli. C’è infatti un coinvolgimento particolare per Sir Patrick Stewart, che ha vissuto la prima parte della sua carriera come apprezzato (e pomposo) attore shakesperiano, una razza a se stante che se la tira non poco nei festival britannici (e canadesi) dedicati. Questo è alla base anche di un fantastico contrasto fra le ambizioni “serie” di Stewart e il suo personaggio di successo, il Capitano Picard: l’uomo ha dovuto far pace con il suo destino e accettare sospirando la tonnellata di denaro e fama che il ruolo gli ha portato. Più o meno come accadde mezzo secolo prima a William Shatner/James Kirk, che si trovò a girare una serie che pensava destinata a durare molto poco e che fu invece travolto da un successo che ha gestito poi come meglio ha potuto.

Tornando a Shakespeare, il finale di Picard (la serie) ammicca a questa ossessione per il poeta inglese e si consente un breve passaggio in cui Stewart/Picard può accommiatarsi dai suoi commilitoni, cioè dall’equipaggio di vecchietti di Next Generation, con un brindisi in cui recita proprio Shakespeare, per far vedere che anche all’attore gli è rimasta un po’ di benzina del teatro dentro. Chissà.

Il sipario di Picard cala su un mondo complesso e confuso. Star Trek non ha più una direzione se non riscrivere le sue stesse storie con occhi più moderni e inclusivi. Il capitano Christopher Pike che cucina sempre per tutti e poi fa i mestieri nel suo alloggio di 200 mq a bordo dell’astronave è sempre una gioia del politicamente corretto in salsa GenZ. Il sapore che il capitano Kirk-Shatner, l’ufficiale medico Leonard “Bones” McCoy (DeForest Kelley) e l’ufficiale di macchina Montgomery “Scotty” Scott (James Doohan) avevano dato originariamente al franchise è scomparso. I tre avevano una gravitas che derivava dalle storie personali e dalla loro appartenenza: Doohan (classe 1920, come Kelley) era un reduce della Seconda guerra mondiale pluridecorato e ferito durante lo sbarco in Normandia; Kelley, che era stato riformato, ha però interpretato parti da cowboy “tossico” e aveva un suo modo molto vecchia scuola di muoversi sulla scena.

Shatner infine anche a 91 anni è un animale di scena molto più complesso, una prima donna che non aveva l’età per fare la guerra (è nato nel 1931) ma era l’attore “vero” del terzetto, con esperienze di teatro, di cinema e di televisione. Sulla scena è pieno di energia e ha una fisicità che è leggendaria. Anche se non sembra, perché a quell’epoca il fisico si coltivava – ma non nella maniera dopata e appariscente di oggi – Shatner è stato sempre un salutista, ha praticato decine di sport e ha mantenuto una forma fisica più che invidiabile. Non è poi così scontato immaginare che una persona con più di 85 anni possa farsi sparare in orbita su un razzo di Jeff Bezos (ma lui l’ha fatto!) e tornare a raccontarlo con l’agilità mentale di un ragazzino.

Attori di quell’epoca avevano la capacità di portare in scena l’intensità bruciante della loro generazione, cioè di chi prende con spirito leggero decisioni definitive e spesso drammatiche basate su parole oggi arcaiche come “onore” e “dovere”. Erano attori cresciuti all’ombra di colossi come Humphrey Bogart (1899), e James Stewart (1908), per dire. E si vedeva. Le generazioni successive si sono perse in ruoli sempre più complessi, cervellotici e combattuti ma decisamente meno intensi. Il Capitano Picard di Sir Patrick Stewart (che è nato nel 1940) è stato a mio avviso il vero punto di passaggio. Tutti gli interpreti di Star Trek più giovani di lui sono attori “ggiovani”, post-moderni, combattuti certamente (senza conflitto non c’è storia) ma incapaci di risolvere i loro problemi con lo spirito del cowboy.

Il finale di serie di Picard, che oscilla tra toni adulti e quelli più adatti a un pubblico adolescenziale, è questo: l’ennesimo tentativo di tenere assieme una baracca nata come una storia di marineria, di capitani avventurosi e coraggiosi, un po’ sbruffoni e un po’ rubacuori ma sempre bravi ragazzi (come l’immagine dell’esercito americano durante la Seconda guerra mondiale). E la sensibilità post-moderna, molto diversa, satura di segnali e di contraddizioni, che spesso non sappiamo neanche più che cosa abbia veramente da dire, tra un effetto speciale e l’altro. Di Shakespeare, in tutto questo, ci sono rimaste due cose: un improbabile catalogo di personaggi da usare a vanvera e la grande antipatia snob che Sir Patrick Stewart è capace di evocare con una semplice citazione.

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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.

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