Di mondi, Lorenzo De Felici, ne ha costruiti tanti. Disegnatore e colorista, ma con una formazione anche da sceneggiatore, è stato membro del gruppo che ha provato a svecchiare il fumetto Bonelli con Orfani, ha disegnato per la Francia (Infinity 8, Drakka) e da qualche anno lavora negli Stati Uniti per la Skybound di Robert Kirkman. Con lo sceneggiatore di The Walking Dead, De Felici ha dato vita a Oblivion Song e a un nuovo progetto intitolato Void Rivals.
Nel mezzo Lorenzo De Felici ha realizzato anche Kroma, una miniserie che ha scritto, disegnato e colorato e che parte da una premessa intrigante: il colore è diventato un pericolo che rende gli esseri umani prede di pericolose creature sensibili ai colori. La società vive, ricoperta di polvere di gesso, tra le mure della Città Pallida. Arriverà Zet, un giovane orfano, a infrangere questo equilibrio precario.
Pubblicato in Italia da saldaPress, Kroma usa il colore – elemento che nei fumetti seriali è diventato negli anni uno strumento importantissimo e sofisticato – come elemento non solo decorativo ma narrativo, costruendoci attorno una storia inusuale e disegnata con gusto. In una intervista, Lorenzo De Felici ci ha raccontato il difficile percorso dietro la nascita e la realizzazione di Kroma.

Negli Stati Uniti è appena uscito l’ultimo numero di Kroma. Cosa provi ora che si è conclusa questa avventura?
Sono molto soddisfatto. Mi sono messo a cercare recensioni e opinioni dei lettori per vedere cosa ne pensa la gente. Da disegnatore mi sono abituato a non stare troppo a pensare alle reazioni del pubblico. Sul disegno, in particolare, ci sono moltissime variabili di gusto che possono inficiare il giudizio, mentre sulla storia il linguaggio è più universale. E poi era la prima volta che facevo una cosa del genere, quindi ero curioso di vedere la reazione.
Quindi, ecco, mi sto godendo le reazioni al finale, che per me è il momento più importante di questa storia. Per ora vedo molte reazioni positive, quindi mi sento affrancato. Il mio terrore era di fare il passo più lungo della gamba e di mettere male il piede in un ambiente in cui non ho mai operato professionalmente.
E per il resto come ti senti?
Considera che ho finito Kroma un mese e mezzo fa, circa. Poi sono riuscito a farmi sei giorni di vacanza e adesso sono già al lavoro su un altro fumetto, sempre insieme a Robert Kirkman. Non mi sono riuscito a prendere una pausa come volevo. Diciamo che l’ho rimandata, perché in questo nuovo progetto dovrei avere tempistiche leggermente più rilassate.
Farete come con Oblivion Song, con molti albi già pronti prima dell’uscita del primo numero?
No, perché il primo numero esce a giugno, quindi non credo che avremo tempo di accumulare materiale. Però le tempistiche sono un po’ più lasche e umane. Su Oblivion Song le mie scadenze erano dettate dalle sceneggiature di Robert, che a volte arrivavano a singhiozzo. Questa volta ho chiesto che le sceneggiature arrivino in maniera più regolare. Speriamo mantengano la parola!

Ti sei già trasferito mentalmente nel nuovo progetto o vivi ancora dentro Kroma?
Sto ancora vivendo dentro Kroma. In questo progetto c’è davvero molto di me. Non sono uno che si espone molto personalmente, se non attraverso i disegni e le storie. Sicuramente continuerò a vivere Kroma ogni volta che qualcuno mi dirà la sua opinione, come se ricominciasse una conversazione che è stata in pausa fino a quel momento. La vita di un’opera continua finché c’è qualcuno che ne fa esperienza. Adesso che ho concluso questo primo lavoro importante da sceneggiatore sento di aver scoperto una connessione ulteriore con il pubblico.
Hai già voglia di buttarti in un altro fumetto scritto da te?
Mi ritrovo spesso con la testa a stare nei mondi che creo. Anche se sto mettendo tutto il mio impegno e il mio divertimento nel progetto che sto facendo con Kirkman, Void Rivals, spesso mi ritrovo già a pensare a una o due nuove storie da proporre alla Skybound. Mi sono divertito così tanto a fare Kroma e sentivo che quello era il mio posto.
Non so se sarò mai solo un autore unico, perché è molto duro e snervante come lavoro, e poi mi piace anche collaborare con gli altri, però nello stesso tempo, da quando ho lavorato a Kroma, mi si accesa una zona nel cervello che pensa alle cose da scrivere. Se mi verrà data l’occasione, ho già un bel po’ di idee.
Sempre ambientate nel mondo di Kroma?
Per me la storia di Kroma finisce qua. Ho delle idee su come esplorare il mondo, ma vorrei che ci fosse una motivazione forte dietro, un’idea, un messaggio. Kroma è nato così, da quello che volevo lasciare alla fine della storia. Se mi viene in mente un altro tema che mi preme affrontare e che si presta al mondo di Kroma, allora perché no, ho già le ambientazioni pronte. Ma devo avere un’idea forte, altrimenti preferisco passare ad altro.
Sei uscito cambiato dall’esperienza di Oblivion Song?
Sì, sotto molti punti di vista. Robert Kirkman mi ha lasciato molti insegnamenti da narratore. Ho visto come costruisce le storie, l’architettura degli archi narrativi… ho capito che, come per tutte le cose, se c’è una cosa che non capisci basta scomporla in parti più piccole e affrontarle una alla volta. Questa è una cosa che prima di Oblivion Song non sarei stato in grado di fare. Il ritmo, cosa lasciar correre, cosa spiegare, sono tutte cose che ho imparato lavorando sulla serie.
E come disegnatore ti senti diverso?
Prima non ero così veloce. Mi sono dovuto adattare a delle tempistiche ballerine e l’unico modo per farlo è stato sbrigarsi il più possibile, lavorare con un segno economico, trovare scorciatoie. Ho imparato a correre e mi è stato utile per Kroma. Per stare al passo con una consegna, per esempio, ho colorato 20 pagine in 10 giorni, che per me è tantissimo.

Come mai su Kroma, rispetto ad altri lavori, hai voluto occuparti anche dei colori?
Ho sempre lavorato colorando le mie tavole. Per me il disegno è finito quando è colorato. Il bianco e nero è una specie di nascita prematura. Ci sono persone che sono a proprio agio perché, a differenza mia, hanno studiato molto il bianco e nero. Io ho dovuto imparare a ragionare sul bianco e nero con Oblivion Song e sono cresciuto da quel punto di vista, ma resta il fatto che con il bianco e nero se voglio suggerire un cielo in un certo modo ci passo due ore a disegnare le nuvole in un certo modo quando so che con il colore saprei tirare fuori un’idea in cinque minuti. Non volevo privarmi di questa possibilità su Kroma.
Nella postfazione al primo volume scrivi che l’idea di Kroma risale a molti anni fa e ha attraversato varie incarnazioni. Quanto era diversa rispetto alla versione pubblicata?
La premessa era identica, ma non avevo ancora capito cosa volevo farci o quale fosse il nucleo tematico. A me piacciono due tipi di storie: le storie di viaggi e le storie di vendetta. Volevo inserire questi due elementi, in particolare quello della persona che subisce un sacco di angherie e poi esplode, forse perché sono una persona che tende a tenersi tutto dentro e a non esplodere mai, quindi vedere qualcuno che esplode mi dà soddisfazione. Ma non avevo in mente il tema.
Il fulcro della storia era vago, era una storia più grottesca e meno seria. C’erano molti elementi fantastici e giocosi, mentre nella versione pubblicata l’ambientazione è una base metaforica per tutto il resto. È una storia di dinamiche umane in un mondo strano, non vado tanto nei dettagli del worldbuilding.
Nella prima versione c’era una talpa gigante che era la compagna di viaggio di Kroma, Zet quasi non c’era. La stessa Kroma era un personaggio più combattivo. Poi ho pensato che quell’atteggiamento non fosse realistico: una persona rinchiusa ed educata a un certo ruolo nemmeno si rende conto di voler fuggire. Non sente la necessità di alzare la testa. Quello che la fa evolvere come personaggio è l’incontro con una persona gentile che le fa capire come stanno le cose. Sono tutte considerazioni che ho maturato scrivendo la storia.
Lavorando come disegnatore e sceneggiatore, quale ruolo prevale nel momento in cui devi decidere come mettere su carta la storia?
È una questione interessante. Anche quando ero soltanto un disegnatore, ho sempre avuto bisogno di raccontare una piccola storia. Riguardando cose mie anche molto vecchie mi sono accorto che, disegnando qualsiasi cosa, ci aggiungevo un balloon perché ho sempre sentito la necessità di associare a ogni immagine una narrazione, di trasformarla in una piccola storia. Questo modo di fare mi è sempre rimasto dentro. Per me un’immagine singola è difficile da mandare giù, la devo sempre contestualizzare. La comunicazione è la cosa più importante per me, disegno e scrittura sono solo strumenti per comunicare.

Ti sei trovato subito a tuo agio con la scrittura vera e proprio?
Mi sono accorto che non riesco a gestire le vie di mezzo. O non uso mai dialoghi, o ne uso troppi.
E come risolvi questi sbilanciamenti?
Di solito scrivo in maniera estesa quello che voglio dire, segnandomi cosa voglio comunicare con quella scena o quella vignetta. Poi quando ci ritorno sopra aggiusto il ritmo, mi accorgo delle ripetizioni, tolgo un balloon, poi ci ritorno sopra ancora… è un cesellare costante. Finché magari mi rendo conto che è più interessante comunicare quel momento con un gesto invece che con una parola. Dipende. In alcuni momenti è necessario dare delle informazioni specifiche.
A me piace scrivere, mi piace creare immagini con la scrittura e far diventare quelle immagini mentali delle visioni. Non è una battaglia tra parole e immagini, è una danza. Mentre lavoravo a Kroma avevo nella mente tanti esempi negativi di disegnatori che hanno deciso di scrivere e…
Tipo chi?
Tipo… Non te lo dico! [ride] Non parlo di esempi negativi in assoluto, ma di cose che per il mio gusto non funzionano. Il rischio di quando un disegnatore si mette a scrivere è che traspare un’attenzione maniacale per il design dei personaggi e delle ambientazioni che appesantisce la storia. A volte si crea una confusione data dal fatto che non viene dosato bene il disegno rispetto alla scrittura, in entrambi i sensi: se è solo disegno, il fumetto lo leggi in due secondi e corri il rischio di non farti capire.
L’esempio positivo in questo senso è Step by Bloody Step [fumetto di Si Spurrier, MatiaS Bergara e Matheus Lopes tradotto in Italia da Editoriale Cosmo, Ndr], è la giusta misura di assenza di dialogo ma anche complessità della storia. Così come ci sono storie dalle trame iper arzigogolate che però diventano un polpettone. Io volevo evitare il polpettone. Volevo dire una cosa sola, semplice. Spero di esserci riuscito.
Infatti una delle cose che ho apprezzato di Kroma è che non c’è il bisogno di fare un worldbuilding mostruoso e totalizzante. Già l’idea del colore è abbastanza caratterizzante.
Non c’era bisogno di un orizzonte così vasto. Poche ambientazioni, pochi personaggi…
Uno perfino lo uccidi all’inizio.
Da quando ho visto Psycho mi hanno sempre affascinato le false partenze. Però non è fine a sé stesso. Volevo che Kroma facesse tutto da sola, ma avevo anche bisogno di qualcuno con cui Kroma potesse parlare. Di nuovo, torna tutto al desiderio di tenere la storia contenuta.

In Italia l’avevi proposto a qualche editore?
Alla Bonelli, ai tempi di Orfani. Postai un disegno in stile realistico su Facebook e Roberto Recchioni mi scrisse sorpreso «ma disegni pure?». Io già avevo pubblicato Drakka in Francia. Ma finché non ho iniziato a disegnare in stile realistico, era come se fossi invisibile agli occhi dell’industria italiana. Stavo proponendo Kroma in Francia e avevo già delle pagine di prova, così, su suggerimento di Roberto, provai anche a proporlo alla collana Le Storie di Bonelli, rimontando le pagine di prova.
Però il catalogo di quella serie era già tutto pieno e non venne accettato. Non provai nemmeno a chiedere ad altri editori italiani perché sapevo che un progetto del genere non sarebbe mai stato economicamente sostenibile, per me. In Francia poi si interessò alla pubblicazione la Casterman, ma alla fine ha trovato casa alla Skybound.
Se ripenso a Drakka il segno grottesco che utilizzavi è distantissimo da quello di Kroma.
Ho sempre cercato di essere il più elastico possibile. Ammiro gente come Corrado Mastantuono, che è in grado di fare di tutto. Però lo stile realistico è sempre il più difficile, perché non ti puoi permettere errori o licenze artistiche. Ho cominciato dal segno grottesco e umoristico e poi piano piano ho affinato la mia mano per avvicinarmi allo stile realistico.
La prima versione di Kroma era disegnata in stile grottesco, ma la storia prevedeva anche momenti seri e drammatici, e quel segno non permetteva di comunicare in maniera efficace certe emozioni. Forse quello che mi è rimasto di più dello stile di Drakka è libertà nelle scelte registiche, visto che nelle storie umoristiche cambi più spesso le inquadrature.
Il processo creativo, dalla sceneggiatura fino al colore, nel tuo caso è ingarbugliato in un’unica persona, una cosa inusuale nel fumetto seriale. Come l’hai gestito, anche a livello di tempistiche?
Ho scoperto che, dovendo disegnare e colorare un fumetto scritto da me, per assurdo, più cose faccio meno tempo ci metto, in proporzione, perché so che posso rivedere il mio lavoro a ogni passo della produzione e questo mi permette di non definire una stesura definitiva di ogni passaggio, perché so che posso tornarci sopra dopo. Per esempio quando disegno cambio delle battute, quando coloro a volte cambio il disegno. Mi sento libero di lasciare le cose più rozze perché tanto so che le aggiusterò dopo.
Questa liquidità della produzione mi aiuta a essere più naturale e a metterci meno. Ho realizzato i primi tre numeri di Kroma, che sono di 45 tavole ognuno circa, da maggio a dicembre 2022. Circa 130 tavole a colori, in circa sei mesi. Per assurdo, se dovessi soltanto disegnare lo stesso quantitativo di pagine ci metterei quasi lo stesso tempo.

Lavorare a Kroma ti ha dato una nuova consapevolezza sulla gestione del tuo tempo?
Con Kroma ho capito che il tempo è una parte integrante del processo di produzione del fumetto. Sembra una cosa scontata ma il tempo non è un ostacolo, o una cosa con cui fare i conti. È uno strumento, che devi saper sfruttare, gestire, modellare. Se hai poco tempo, quel poco tempo basta. Se hai solo una boccetta con poco inchiostro sai che non potrai fare una campitura nera ma dovrai lavorare di sottrazione, restando comunque funzionale. Una volta che accetti questo limite, fai pace con te stesso e diventa tutto più tranquillo. Non c’è più la fretta di fare, ma la coscienza che dovrai modellare il tuo lavoro in base al tempo che hai.
A scapito della qualità?
Avendo più tempo avrei disegnato in modo diverso, non meglio in senso assoluto. Sarebbe stato un fumetto diverso, figlio di quel momento. Il disegno a volte, lo dico contro i miei interessi, rischia di trasformarsi in un intralcio. Se un disegnatore si fa prendere da manie di protagonismo o dalla volontà di far vedere che è un mostro di bravura, questo non sempre va a vantaggio del fumetto.
Devi essere a servizio della storia. Realizzare un buon disegno significa controllare la lettura, far soffermare il lettore il tempo che vuoi tu su una vignetta. Conta la narrazione, non la ricchezza o la povertà del disegno. Ci sono passaggi narrativi che richiedono che tu sia sintetico e altri dettagliato.
Dovendo gestire tutta la catena produttiva, ho capito che potevo comprimere lo spazio del disegno, non rendendolo più brutto o più povero ma più funzionale. Quando sei solo il disegnatore è difficile capirlo perché sei stretto tra lo sceneggiatore, che rispetta delle scadenze sue, e il colorista. Così invece hai una visione dall’altro e ti rendi conto che esistono equilibri diversi.
Hai trovato soluzioni nuove dovendo lavorare di fretta?
Butto in caciara le cose. O, detto in maniera elegante, ho imparato a gestire meglio l’approssimazione. Una delle cose più difficili da capire è che all’inizio della carriera si cerca di definire e ripulire ogni cosa, rendere tutto preciso. O almeno a me è successo così. Ora invece lascio andare il pennello sul foglio, o meglio la penna sulla Cintiq. Essere gestuale per me paga di più che essere preciso.

In questo il digitale ti è d’aiuto?
Lavorare in digitale, visto che puoi zoomare all’infinito, è rischiosissimo in questo senso. Io lavoro sulle tavole a una dimensione che è leggermente più grande di quella definitiva. So quanti dettagli si vedranno. Perciò andare oltre quel livello di dettaglio diventa inutile: stai facendo un disservizio al lettore, appesantendo la tavola con dettagli inutili e che magari neanche si vedranno bene in fase di stampa.
Questa è una delle storture del lavorare in digitale. A che serve fare l’occhio della comparsa sullo sfondo se poi nella vignetta devo guardare due che si danno cazzotti in primo piano? È anche una questione di buon senso, secondo me. Non necessariamente è sbagliato concentrarsi solo sulle cose che il lettore deve vedere senza curarsi del contorno, però per me non ha molto senso perdere tutto quel tempo per assecondare questa pratica onanistica che porta a vantarsi di avere il file della tavola che pesa 60 giga.
A quel punto dal fumetto si sconfina nell’illustrazione, che è un territorio che segue regole diverse e non sempre è un valore aggiunto, anzi. Ovviamente questo è il mio punto di vista.
C’è un limite? Al tempo di realizzazione, dico.
Sì, quello che ci ho messo io per disegnare Kroma! [ride]
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