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FocusIntervisteSimone Di Meo, da Topolino a Batman

Simone Di Meo, da Topolino a Batman

simone di meo intervista batman and robin
Batman e Robin visti da Simeone Di Meo

Simone Di Meo lo sa. Sa che ha sempre voluto fare il disegnatore di fumetti per gli Stati Uniti. Sa che quello è mercato con regole implacabili che non fanno prigionieri. Sa che per ogni grammo di arte che metterà nelle sue pagine, l’industria ne metterà uno di commercio. Simone di Meo sa tutto questo e proprio perché lo sa affronta con incredibile lucidità il suo mestiere.

Il disegnatore torinese – dopo anni di gavetta e aver mosso i primi passi come inchiostratore per Topolino e aver disegnato Orfani: Sam – è sbarcato in America lavorando per Boom! Studios (Mighty Morphin Power Rangers) e Marvel Comics (Immortal Hulk, Venom, Old Man Logan). Nel 2020, con lo sceneggiatore Al Ewing, ha co-creato la fortunata serie Li troviamo solo quando sono morti, conclusa nel 2022, per poi passare in esclusiva alla DC Comics, per la quale sta disegnando la testata di prossima uscita Batman and Robin, su testi di Joshua Williamson.

Di Meo, con il suo aspetto da giovane ma la mentalità navigatissima, era ospite a Napoli Comicon per promuovere il volume conclusivo di Li troviamo solo quando sono morti, edito in Italia da Edizioni BD. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare come si diventa autori internazionali (spoiler: è tosta).

Alle superiori hai studiato da chimico industriale, il salto al fumetto come è avvenuto?

A caso. Ero in pullman un giorno, stavo tornando a casa, e ho visto il cartellone pubblicitario della Scuola Internazionale di Comics. Vedendo quel cartellone mi tornò in mente che da piccolo sapevo disegnare. Mi sono detto «proviamo». Ho sempre letto fumetti, ma come spesso succede arriva un momento da adolescenti in cui si abbandonano le letture, ci si appassiona ad altro. Io ho fatto molto skate, per dire. Poi però mi sono riavvicinato a quel mondo, quando ho iniziato la scuola, a 19 anni. È stata una passione che mi è tornata molto velocemente.

Ti eri iscritto con l’idea di lavorare con il disegno in qualsiasi forma o volevi proprio fare i fumetti?

Appena ho iniziato mi sono reso conto che mi interessava il fumetto sopra ogni cosa.

Hai esordito come inchiostratore per la Disney quando ancora frequentavi la scuola.

Ero rimasto affascinato dall’editoria francese umoristica. Pensavo potesse essere una buona strada professionale. Mi era già chiaro che dovessi cercare un lavoro il prima possibile e volevo restare nell’ambito del fumetto, avevo paura che un impiego fuori dal fumetto mi avrebbe distratto.

Siccome la cosa che mi riusciva meglio era inchiostrare, ho cercato tutti gli incarichi da inchiostratore, un po’ perché sarebbe stato un modo di entrare nell’industria, un po’ perché quel ruolo non richiedeva un particolare talento nel disegno, e io all’epoca non brillavo come disegnatore.

Inchiostravi autori molto diversi dallo stile che hai ora. Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?

Ho cercato di rubare tutto quello che potevo da autori come Donald Soffritti o Corrado Mastantuono, uno dei tanti fuoriclasse che ho inchiostrato. La regia, le forme. E quando analizzi così da vicino maestri del genere, qualcosa ti rimane sempre addosso. La pulizia del segno, la deformazione, la caricatura. Mi è rimasto moltissimo, anche se qualcosa negli anni si è persa.

Quelle tavole mi hanno sempre affascinato moltissimo. Il dietro le quinte, vedere gli stadi del processo creativo, l’industria del fumetto in generale, è una delle mie più grandi passione, alla pari del disegno. Mi piace conoscere tutto del fumetto. Comunque, pensavo che sarebbe potuta diventare quella la mia strada. Ho anche iniziato a disegnare delle prove per il settimanale, però poi mi sono reso conto che non era davvero quello il mio ambito. 

E hai iniziato a proporti al mercato americano, andando al Comicon di New York varie volte perché, come hai raccontato tu, la prima non eri stato preso…

Neanche la seconda, neanche la terza… [ride]

Ecco, proprio in quei momenti, quando ti vedevi rifiutato una seconda o terza volta e dovevi fare i conti con una realtà che spingeva contro le tue ambizioni, cosa ti spronava a insistere?

In parte è stata la frustrazione di essere un inchiostratore. L’inchiostratore ha un ruolo frustrante, soprattutto quando sei anche un disegnatore. Il tuo lavoro è far risaltare il matitista senza metterci del tuo. E questa dinamica aveva iniziato a crearmi qualche malumore. Anche perché è un lavoro pagato molto poco, forse è il ruolo fumettistico pagato peggio, insieme al letterista.

Io di notte disegnavo per prepararmi il portfolio e quando di giorno tornavo al mio lavoro, mi saliva la frustrazione di non poter vedere la tavola con quel qualcosa in più di mio. E poi sono uno che non molla facilmente. Se ho un obiettivo, lavoro duro per arrivarci. E io ci ho lavorato tanto. Anche troppo.

Credi saresti arrivato ai tuoi obiettivi anche con meno fatica?

Magari sì. Magari ci avrei messo più tempo. Visto da qui, forse avrei dovuto lavorare meno. Mi sono rovinato la schiena, lo stomaco. Però sono contento di aver fatto quei sacrifici.

simone di meo intervista
Una tavola da “Li troviamo solo quando sono morti”, nell’edizione italiana di Edizioni BD

Se ripensi alle tavole di Australia, uno dei tuoi primissimi lavori da disegnatore, qual è la sensazione che ti torna in mente?

Era tutto difficile. Ero abituato a vedere le matite degli altri e adesso dovevo costruire tutto io. Quando fai l’inchiostratore e ti abitui a vedere delle belle tavole, il tuo subconscio pensa di saperle fare, quelle tavole, ma non è vero. Poi ti metti sul tavolo da disegno ed è frustrante, perché le tue cose non sono così belle.

In più, se parti da disegnatore, senza aver lavorato in altri ambiti, fai fatica a capire la qualità oggettiva del tuo lavoro. Se invece sei un inchiostratore che inizia a disegnare, e vedi il tuo lavoro, è subito una merda. Subito. Quindi la sensazione era di frustrazione. Ma è una sensazione che provo anche adesso. È solo cambiata la casa editrice che mi fa sentire frustrato. [ride]

Tu ti senti cambiato come persona?

Molto diverso. Ho meno fuoco. Quando ho cominciato avevo voglia di raggiungere gli obiettivi, di riscattarmi. Adesso mi è un po’ scesa. Sono contento del mio lavoro ma riesco a ritagliarmi anche dello spazio per fare altro, stare con mia moglie, vivere la mia vita. La sensazione è mutata. Ho sempre degli obiettivi da raggiungere in testa, ma avendo più consapevolezza affronto le sfide in maniera diversa.

Riesci a vivertela più tranquillamente. 

Non sempre. Dipende da come mi sveglio. Certi giorni sono orgoglioso di quello che ho raggiunto, altri mi basta aprire Instagram, vedere gli altri disegnatori, e pensare di non valere niente. E quel giorno lì spingi il doppio. È una montagna russa, a livello emotivo. Ma va bene così. Una delle cose di cui ho più paura è riposarmi sugli allori. Ogni volta che inizio a sentirmi comodo su un progetto devo cercare qualcosa di diverso per continuare a stimolarmi.

Come bilanci la necessità di avere il polso della situazione visiva (e in generale del fumetto) con lo scavo interiore che si fa per cercare una propria cifra stilistica?

Io guardo altri autori e lo faccio perché ho paura di sentirmi fuori dal mondo (anche, banalmente, per sentirmi parte di un’industria, dato che quello del disegnatore è un lavoro solitario). Ho paura di seguire solo il mio flusso mentale. È importante esprimersi e raccontarsi ma bisogna anche sapere dove farlo. E se tu non conosci l’industria e non conosci la direzione in cui sta andando, è difficile raggiungere il pubblico.

Non c’è il rischio di omologarsi?

Vero, il rischio c’è. C’è stato il periodo in cui andava lo stile di Stuart Immonen o di Olivier Coipel, e quindi tutti li copiavano. Devi essere abbastanza intelligente da capire che è sbagliato fare quella cosa, ma se va Coipel c’è un motivo. E c’è un motivo per cui ora va di moda Dan Mora. E il motivo è che magari oggi il tratto fusion che ha Mora, tra America e Giappone, è apprezzato. Quindi la mia influenza giapponese oggi costituisce un vantaggio, perché posso assecondare quella richiesta. Invece che lavorare su una griglia americana classica forse oggi conviene portare qualcosa di diverso. Ma queste cose le so perché tengo d’occhio l’industria. 

Mi piace dare una visione del mio lavoro, ma devo fare i conti con la realtà del mercato. Lavoro per un’industria. Posso essere un creativo ma gioco in un mondo che ha delle regole. Io faccio fumetti per arrivare alle persone, a quante più possibili, e devo capire come ci stanno riuscendo gli altri. Non posso pensare che solo perché sono un buon disegnatore, o ho un buon seguito, posso arrivare alla gente senza conoscere il mestiere che faccio. È un’unione dei due elementi: conosci l’industria, la studi, la analizzi e cerchi di essere personale.

Come accennavi tu, io lo stile di Immonen e del suo colorista, Marte Gracia, l’ho visto replicato su moltissime testate Marvel. In un panorama del genere, come può nascere un nuovo Bill Sienkiewicz, per dire un nome che ai suoi tempi fu di rottura?

Io mi informo sulle mode, le studio, ma nella maggior parte dei casi non le seguo. Nel senso, è importante capire dove va l’industria ma… io ho sempre paura che la visione delle mie cose non sia nel posto giusto. Ci sono tanti autori che lavorano in America perché magari avevano il sogno americano in testa ma che se lavorassero in Francia sarebbero molto, molto più apprezzati. E non lo fanno perché magari non conoscono l’editoria francese, la sottovalutano o per altri motivi.

Lo sbaglio più grande che un autore può commettere è non sapere dove collocarsi. È per questo che studio e cerco di capire. Poi, a me piacciono il fumetto americano e quello giapponese. Fondere questi due mondi nel mio stile è stato anche naturale. La mia creatività non è scelta a tavolino. Ho scelto a tavolino dove mettere quella creatività: la casa editrice giusta in un dato momento, che mi possa valorizzare, il filone che va, la direzione in cui sta andando il mercato.

Non è un forzatura che fai su te stesso.

Mai. Quello che vedi sulle mie tavole è sempre quello che voglio fare. A volte troppo, per gli standard americani.

In effetti le tue tavole in bianco e nero sono già molto lavorate. Con i grigi suggerisci i volumi e i toni.

Perché mi piace fare quella cosa là. Ma spesso è di troppo, in un’industria veloce non è consigliato. Però io lo faccio lo stesso. È la mia visione e se penso che il pubblico possa capire quello che sto facendo, allora lo faccio.

simone di meo intervista
Una tavola da “Li troviamo solo quando sono morti”, nell’edizione italiana di Edizioni BD

Hai sempre avuto questa mentalità analitica?

Sì, perché ero il più scarso della mia classe. [ride] Quando mi sono reso conto che ero il meno bravo del gruppo ho capito che sarei dovuto diventare il più furbo o non sarei riuscito a lavorare in questo settore. Ho cercato di giocarmi bene le carte e per giocarti bene le carte devi metterti sui giusti binari, conoscendo la destinazione.

Mentre parlavi mi è venuto in mente J. Scott Campbell, che è una macchina da guerra del marketing implacabile, però non tutti hanno quell’impostazione mentale. 

Le personalità come Campbell sono anche un prodotto collaterale dell’industria americana. Quando vai alle fiere negli Stati Uniti ci sono autori con stand enormi e ti domandi il perché. Poi capisci che si sono costruiti un’impresa basata su loro stessi perché il lavoro da solo non dà nessuna certezza futura.

Non puoi fare il disegnatore per tutta la vita, con i ritmi del mercato americano. È un mestiere che ti distrugge, fisicamente, e che non perdona l’obsolescenza. Quando lavori 17-18 ore al giorno, arrivi a 40 anni e inizi a essere stanco. Devi capire già da prima come poter allungare la tua vita lavorativa per farla durare il più possibile e sperare di ritardare il momento in cui passerai di moda e verrai sostituito dalla nuova generazione.

È come essere uno sportivo.

Esattamente, tu hai il tuo picco e devi sfruttare al massimo quel momento. Non ti puoi accontentare del fatto che stai disegnando Batman. Devi comprendere che Batman ti dà la possibilità di costruirti un futuro ma devi capire in che direzione andrà quel futuro. Io l’ho imparato guardando gli altri disegnatori.

Ci sono stati dei grandi maestri e poi ci sono stati autori come Todd McFarlane. Lui non è mai stato un maestro. È stato bravissimo a prendere il momento più alto della sua carriera, sfruttarlo e investirlo per costruirsi un futuro. Mi affascinano tantissimo le storie come la sua.

E tu stai già pensando a come allungare la carriera?

Sono diventato socio della Scuola Internazionale di Comics. Ho acquistato delle quote. Appena sono arrivati i diritti d’autore di Li troviamo solo quando sono morti li ho investiti nella scuola che mi ha formato. Questo per me è già il primo passo che mi tiene al sicuro da un eventuale abbandono del mondo dei fumetti. La scuola mi ha cambiato la vita e ho pensato fosse un buon modo per continuare a stare tra i fumetti, se un giorno dovessi smettere di disegnare – mi piace anche la prospettiva di stare con i ragazzi e aiutarli nella loro formazione.

Sai, è un po’ di anni che ci penso e mettere solo i soldi da parte per la pensione non mi è sembrata una risposta soddisfacente. A volte banalmente penso «e se mi rompessi la mano?». Io ci sto super attento, ma me la faccio sotto al pensiero di farmi male. Siamo liberi professionisti, non abbiamo ferie, pensione, niente di niente… se mi spacco la mano non ho idea di come guadagnare soldi il prossimo mese.

Per la Francia e gli Stati Uniti lavorano tanti italiani, molto più che in passato, e molto più di altre nazionalità. È una questione di gusto, bravura, disponibilità della forza lavoro?

Domanda molto complicata. Ci sono tanti fattori. Il primo: la globalizzazione. Non c’è più un limite fisico alle comunicazioni. Ti basta conoscere la lingua, e neanche tanto bene – io non la conoscevo granché. Poi, molti di noi sono cresciuti leggendo manga e fumetti americani, o comunque letture italiane che guardavano ad altri mondi rispetto a quello seriale, quadrato, dell’industria italiana. Io non riuscirei mai a fare Dampyr, perché non lo leggo, non l’ho mai letto. Quindi si è più propensi a cercare realtà che accolgano la tua proposta, il tuo stile, e in questo senso Francia e Stati Uniti sono molto più aperti.

Il secondo motivo è di tipo economico. In America mi pagano tre o quattro volte quello che mi pagano in Italia. Soprattutto, loro pagano tanto perché la vita costa tanto, ma se tu vivi in Europa sembrano di più. È quello che ci dicono sempre i nostri editor: non trasferitevi mai in America!

Per lavorare in Marvel si può fare un portfolio review, come hai fatto tu, mentre in DC Comics vogliono essere loro a contattarti. Come ti hanno approcciato?

Mi hanno scritto su Twitter. Per questo consiglio sempre di usare i social.

Ah, nemmeno su Instagram?

Attraverso Twitter mi hanno chiamato Mark Millar, Rick Remender, la DC… gli americani e gli inglesi usano molto Twitter, soprattutto gli scrittori. Hanno iniziato a utilizzarlo perché possono usarlo in silenzio, senza per forza avere un rapporto con te, finché non gli interessi. E Instagram, con quella gabbia quadrata obbligatoria, spesso non è il miglior social dove postare i propri lavori.

Travis Charest racconta che, lavorando molto con le commission e le copertine, non ha il suo Watchmen, un’opera continuamente stampata che gli faccia guadagnare qualcosa ogni anno.

Lo cerchiamo tutti, un Watchmen, ma non lo puoi cercare. Dopo aver fatto Li troviamo solo quando sono morti, che è andato bene e sono molto contento, mi sono reso conto che… è a caso. Inizi il progetto con molto anticipo e quando uscirà non puoi sapere quale sarà il trend. Non puoi sapere se andrà di moda l’horror, la fantascienza o altro. Sì, certo, puoi avere un’idea generale e crearti delle condizioni favorevoli, il giusto scrittore, la giusta casa editrice, ma non puoi sapere se sarà un successo, è impossibile. E quindi ci provi, sperando.

simone di meo intervista batman and robin
Una tavola in anteprima dal primo numero di “Batman and Robin”, che sarà pubblicato negli Stati Uniti da DC Comics a settembre

Quando è finito Li troviamo solo quando sono morti hai pensato «ecco che se ne va la mia pepita d’oro»?

Io non credo che Li troviamo solo quando sono morti sia il progetto della mia vita. Ma solo perché penso sempre che sarà il prossimo. Deve essere così. Sono molto fiero della serie perché è stata una vetrina importantissima. Lo vedo come un traguardo e un punto di partenza allo stesso tempo. È stato importante ma sono sicuro ci sarà qualcosa di ancora più importante ad attendermi.

Qual è stata l’immagine da cui è scaturito tutto l’impianto visivo di Li troviamo solo quando sono morti ?

Avevo sottovalutato il compito di disegnare un mondo nuovo. Lavorando su fumetti seriali mi ero convinto che creare tutto da zero fosse più facile di adattarsi a un mondo esistente. E invece, ti giuro, il foglio è rimasto bianco per una settimana. Non sapevo da dove iniziare.

E alla fine da dove sei partito?

Sono partito dalle reference, dai riferimenti visivi, che è una cosa che non si fa nel fumetto. Mia moglie è una grafica e mi ha spiegato come si trovano le reference per i suoi progetti. Ho cercato le atmosfere, la fantascienza che mi piace e chiedermi perché mi piacessero certe immagini di fantascienza. Ho dovuto smontare le mie passioni e capire perché mi piacessero Star Trek o la regia di J.J. Abrams.

Sono molto affezionato al cinema come riferimento visivo. Quindi mi sono messo lì e ho impostato un mood cercando le palette cromatiche che funzionano nella fantascienza ed estrapolando la mia versione della fantascienza. Prima di iniziare le tavole avevo decine di file con riferimenti visivi. Avevo paura di essere anonimo, di non essere in grado di prendere la storia e darle la giusta visione. Ho dovuto fare un lungo lavoro di pre-produzione su me stesso.

Però alla fine quel metodo me lo sono tenuto, anche per Batman and Robin, che è un mondo già esistente e pieno di riferimenti visivi passati e presenti. Volevo mettere su carta il mio punto di vista dei personaggi e così ho letto fumetti che non conoscevo, guardato un sacco di serie tv, cercando la mia rappresentazione di Batman e Robin.

Che immagini ti hanno ispirato?

Non ho un riferimento visivo fumettistico. Ma non l’avevo neanche per Li troviamo solo quando sono morti. Infatti quando la gente ha iniziato a dirmi che le divinità di Li troviamo solo quando sono morti assomigliano a quelle di Jack Kirby io sono rimasto sorpreso. Conoscevo ovviamente Kirby ma non l’avevo mai letto bene prima che me lo facessero notare. E poi mi sono accorto che i riferimenti visivi che mi avevano ispirato derivavano a loro volta da Kirby. Ho fatto Kirby senza sapere di aver fatto Kirby.

Per quanto riguarda Batman and Robin, il mio fumetto preferito di Batman è Anno uno, però ho voluto guardare altro rispetto ai fumetti. Mi piace il Batman della serie tv animata degli anni Novanta, per esempio, però non ho un riferimento visivo univoco.

Ti vedi a disegnare supereroi per molto tempo?

Batman è sempre stato il mio supereroe preferito, quindi sono molto contento di lavorarci. La DC mi ha chiamato per farmi fare la stessa cosa di Li troviamo solo quando sono morti, cioè disegnare e colorare. Però c’è una pressione importante su questi incarichi. I fumetti di Batman li leggono un sacco di persone e mentre lo disegni questo pensiero può mettere ansia – che se riesci a incanalarla positivamente è utile perché ti sprona.

Poi ci sono dei limiti. Per farti un esempio, nel momento storico in cui ci troviamo, Batman non abita a Villa Wayne, quindi io non disegnerò Villa Wayne. Per la mia idea di Batman, è un limite. Joshua sta scrivendo una storia fichissima e mi sto divertendo tantissimo a disegnarla. Ma ho sempre pensato che il giusto bilanciamento sia fare un po’ di entrambi i lavori, creator-owned e per le major. Per divertirmi e rimanere attivo nell’industria.

Sono anche due muscoli diversi da allenare. La libertà di una tua creazione si accompagna all’assenza di una rete di sicurezza.

Esattamente. Infatti mentre lavoravo a Li troviamo solo quando sono morti ho cercato di disegnare quante più copertine possibili, in modo tale da farmi conoscere dal pubblico. In America il mercato è ancora dominato dai supereroi, quindi riuscire a intercettare una fetta di quel pubblico, che poi magari inizia a leggere i tuoi fumetti, è importante. Devi essere presente nell’industria. Di contro, Batman è un personaggio che ha 80 anni, interpretare un personaggio con così tanta storia è difficile perché hai già visto di tutto. Però è una bella sfida.

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