Come Slam Dunk nessuno mai

«In Slam Dunk ho disegnato il basket, con in mezzo un po’ di vita.» Takehiko Inoue ha riassunto con questa considerazione distratta il manga da lui scritto e disegnato negli anni Novanta. Sono parole tratte da un’intervista del 2010 che continuava così: «Ora, il risultato forse è qualcosa che sembra una storia discreta, ma non stavo pensando a una storia, pensavo soltanto a disegnare una bella partita di basket. Penso di aver continuato a disegnare delle cose e poi queste cose si sono trasformate in una storia».

Deflette la complessità, Takehiko Inoue. Smarca ogni tentativo di elaborazione sulla propria opera, minimizza, dice che, sì, dai, in fin dei conti, Slam Dunk è solo una storia di partite vinte e perse, e che non ci sono retropensieri, se non quello che, se il manga ha avuto così tanta fortuna, è perché quel po’ di vita Inoue è riuscito a metterlo dentro le partite, non solo in mezzo.

Attorno a quel nucleo cristallino individuato da Inoue si sono affastellati strati di discorsi che hanno reso il manga – il racconto di formazione di Hanamichi Sakuragi, teppista e imbranato che diventa promessa del basket, e l’epopea dello Shohoku, squadra liceale di provincia che lo recluta e che anche grazie a lui arriva a farsi onore ai campionati nazionali – un capolavoro del genere sportivo.

Pubblicato tra il 1990 e il 1996, gigantesco successo di pubblico e critica, Slam Dunk arrivò all’improvviso. La carriera stessa di Inoue, in effetti, ha avuto tutta la rapidità e la baldanza di un alley-oop, e bisogna stare attenti a non andare troppo veloci quando si scorre la sua vita, per non perderne i passaggi chiave.

Nato nel 1967 a Okuchi, città giapponese della prefettura di Kagoshima, l’autore si appassionò ai manga fin da piccolo e, finite le scuole, si iscrisse all’università per studiare letteratura, coltivando il sogno di fare il fumettista. Nel 1988 pubblicò Kaede Purple, che gli valse il premio Osamu Tezuka come miglior esordiente. Per 11 mesi fece da assistente a Tsukasa Hojo, autore di Occhi di Gatto e City Hunter, con cui lavorò proprio su quest’ultimo. Due anni dopo era già nella Storia del fumetto.

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Era stato il nonno materno a fargli scoprire le letture che sarebbero diventate tasselli importanti nella costruzione di Slam Dunk: Dokaben di Shinji Mizushima, uno spokon ambientato nel mondo del baseball liceale, e Otokogumi di Tetsu Kariya e Ryoichi Ikegami, altro manga degli anni Settanta che mischiava sport (le arti marziali cinesi in questo caso) e l’ambiente scolastico. «Alle superiori non avevo alcuna ambizione a diventare un fumettista» disse nel 2006. «Andavo a scuola e giocavo a basket. Ero nella squadra scolastica di pallacanestro. Mi piaceva, la fatica non mi è mai pesata. Non eravamo granché come squadra, ma ci piaceva vedere i nostri miglioramenti. Un po’ perdevamo, un po’ vincevamo, facevamo progressi. Imparai moltissimi in quei tre anni.»

Pur continuando a disegnare nel tempo libero, da ragazzo Inoue riteneva di non avere l’abilità di un artista museale, «quindi per me fu naturale e realistico pensare di disegnare manga – che mi piacevano», ha detto in un’intervista contenuta in Manga: Masters of the Art. Sarebbe voluto andare all’accademia di belle arti e, con l’obiettivo di disegnare per mestiere, frequentò un corso estivo. Quel mese e mezzo, insieme alla lettura dei manuali di Osamu Tezuka e qualche rivista, rappresentò il suo unico addestramento formale. All’università, decise infatti di virare il suo percorso andando a studiare letteratura.

Mentre era ancora studente, sottopose i propri fumetti a Weekly Shonen Jump, la storica rivista di shonen (i manga pensati per gli adolescenti maschi) che bandiva spesso concorsi per aspiranti autori. Avrebbe voluto proporsi anche a Big Comic Spirits, ma quella era una rivista di seinen (i manga per lettori maturi) e temeva che non sarebbe stato più in grado di disegnare shonen se si fosse concentrato su quelli. All’epoca, Inoue viveva in un appartamento senza telefono, e tutto ciò che potevano fare gli editor di Shonen Jump era inviargli telegrammi. Un giorno Inoue ne trovò un pacchetto intero infilato nella cassetta della posta. Dicevano tutti la stessa cosa: di mettersi in contatto con la rivista.

Nel 1988, Shonen Jump gli pubblicò Kaede Purple, una storia breve dalla premessa quasi identica a quella di Slam Dunk, tanto da poter esser considerata una sua protoversione. Kaede Purple vinse il premio Osamu Tezuka come miglior esordiente, e Inoue, appena ventunenne, propose altre idee all’editor Taizo Nakamura. Dopo alcuni tentativi infruttuosi, il mangaka riuscì a farsi approvare la sua prima serie, Chameleon Jail, con protagonista un “risk hunter” che cambia forma e aiuta chi è stato lasciato indietro dalla polizia – uno spunto che risentiva dell’influenza di Tsukasa Hojo.

Pubblicato tra il 1988 e il 1989, Chameleon Jail ebbe vita breve e chiuse dopo 12 settimane, ma fu comunque un’esperienza importante. «All’inizio di Chameleon Jail ero un totale inesperto» confessò Inoue nel 2022. «I questionari che arrivavano dai lettori mi aiutarono molto, e non credo sarei riuscito a realizzare Slam Dunk senza prima passare da Chameleon Jail

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Fan del basket fin da giovane, Inoue lo aveva praticato a scuola e seguiva i Los Angeles Lakers prima ancora che la televisione giapponese li trasmettesse. Gli venne naturale proporre l’idea di Slam Dunk agli editor di Shonen Jump, pur sapendo che l’argomento era uno dei meno spendibili presso il pubblico. La tradizione dei manga sportivi, detti “spokon”, era piena di esempi, soprattutto di baseball, sport molto amato in Giappone che ha fornito lo spunto per opere come Tommy la stella dei Giants e Touch, ma nessuno ci aveva provato con la pallacanestro – d’accordo, negli anni Ottanta c’era stato Gigi la trottola, ma era un manga comico che parlava dello sport tanto quanto le storie di Spider-Man sono trattati di zoologia.

Non c’era da stupirsi comunque, visto che il basket non aveva mai scaldato il cuore dei giapponesi. Oggi, in tutto il Giappone si trovano molti pochi campetti da basket (persino a Tokyo si contano sulle dita di una mano). E parliamo di una nazione che, proprio grazie a Slam Dunk, ha imparato ad apprezzare il gioco, diventato uno più praticati nei club scolastici, figurarsi come deve essere stata la situazione all’epoca. Si racconta che il giornalista per il Giappone inviato alle Olimpiadi del 1992 chiese in conferenza stampa come mai il tabellone qualche volta segnava due punti e qualche volta tre.

Per questo, Inoue riuscì a farsi approvare la pubblicazione giocando d’astuzia. Per i primi due anni, Slam Dunk fu un manga che non aveva nulla di connotato. Il grosso delle pagine erano gag e battibecchi adolescenziali, zuffe e affari di cuori, l’andamento era comico e il basket era un MacGuffin che rimaneva sullo sfondo, un gusto che speziava la vicenda senza caratterizzarla troppo. Con il proseguire della storia, Inoue iniziò a spostare il baricentro narrativo sulle partite. Mise in scena, per esempio, un allenamento tra i personaggi che aveva lo scopo di spiegare i fondamentali del gioco ai lettori, in previsione di ciò che sarebbe venuto dopo: un torneo scolastico.

Il punto di svolta fu nel 1992, in corrispondenza con il decimo volume. In quell’anno, la pallacanestro uscì dai discorsi degli appassionati e divenne oggetto di pubblico dominio grazie alle Olimpiadi di Barcellona, edizione in cui per la prima volta la nazionale americana di basket era composta da atleti dell’NBA. Prima di allora, nelle squadre olimpiche giocavano soprattutto cestisti provenienti dai college. Ma dopo la sonora sconfitta della nazionale americana ai Giochi di Seul del 1988, la Federazione Internazionale Pallacanestro aveva cambiato il regolamento e ora sul parquet olimpico sgommava un Dream Team composto, tra gli altri, da Magic Johnson, Larry Bird, Scottie Pippen e Micheal Jordan.

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Proprio Jordan, tra le prestazioni maiuscole e la sua figura pubblica, era al centro di una rivoluzione nell’immaginario popolare per quanto riguardava il basket. Inoue intercettò lo zeitgeist e virò la serie sugli scontri sportivi, gli allenamenti, le tattiche, la fatica e le ambizioni dei personaggi, ognuno ormai caratterizzato e ben differenziato nella mente dei lettori.

Di Slam Dunk stupisce la profondità. Inoue si concentrò su una sola stagione sportiva, nell’arco di quattro mesi, sviscerando con intensità ogni momento e concentrandosi su quella vicenda e sui suoi protagonisti. Ogni personaggio trova nel gioco e nella squadra spunti e occasioni per migliorare il proprio carattere: l’imbranato diventa campione, il genio elitario impara l’altruismo, l’ossessionato dalla sport impara a guardarsi attorno e a contestualizzare le proprie ambizioni.

I ragazzi protagonisti devono vedersela in un mondo dove gli adulti sono assenti, invisibili, mai nominati, con l’eccezione dell’allenatore Mitsuyoshi Anzai, figura bonaria dal design buffo (ma con un passato tragico) che funge al tempo stesso da modello di riferimento e personaggio comico. C’è anche il riscatto di classe: lo Shohoku, scuola popolare dove sono ammessi capelli colorati, tagli stravaganti e orecchini, dovrà vedersela con un avversario temibile, un collegio privato fatto di camicie bianche e rasature al millimetro.

Sakuragi è, a suo modo, un personaggio innovativo. Invece di essere un eroe, narratologicamente parlando, senza ulteriori sfumature se non quelle tradizionali associate ai protagonisti (incerti, fragili, introspettivi, ma poi capace di risolvere le situazioni trovando dentro di sé la forza per superare gli ostacoli), Sakuragi riesce a essere altro. Come il Goku di Dragon Ball, e come saranno poco dopo Naruto e Monkey D. Rufy, è il timone emotivo della narrazione, ma incarna anche le qualità della spalla comica, in una sorta di iper personaggio capace di abitare le scene con ruoli diversi.

Inoue è un narratore sincero e con il cuore in mano. Riesce a far appassionare il lettore raccontando uno sport che ha vissuto in prima persona, smarcandosi da certi modi di fare degli spokon che portavano il racconto più dalle parti di una fantasia iperrealista. Lo si capisce da scelte narrative che sembrano secondarie ma hanno un peso specifico determinante. Slam Dunk è raccontato dal punto di vista dei giocatori, non c’è mai – come accadeva da convenzione negli spokon – un annunciatore che narra le azioni o un giornalista a bordo campo che commenta i momenti salienti.

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Gli incisi tecnici sono sostituiti da un coro composto dalle panchine, dello Shohoku o avversarie, e degli spettatori (amici, tifosi), che vivono le gare in maniera emotiva e coinvolta. È tutto più immediato, viscerale e vissuto in prima persona. Inoue evita le iperboliche e irrealistiche giocate che avevano fatto la fortuna di – e al tempo stesso reso uno zimbello del pubblico – opere come Capitan Tsubasa e Attacker You! (rispettivamente i manga da cui furono tratte le serie Holly & Benji e Mila & Shiro), e mostra invece l’allenamento quotidiano e la fatica senza patine di eccezionalità.

Questa immedesimazione è resa anche nel disegno. Per tratteggiare i suoi protagonisti, il mangaka si appoggia alla mitologia a stelle e strisce: i personaggi ricalcano la psicologia e lo stile di giocatori come Dennis Rodman, Patrick Ewing, Muggsy Bogues, Jeff Hornacek, mentre alcuni episodi sul campo sono prelievi di situazioni realmente accadute. Ma Takehiko Inoue disegna anche basandosi sulla propria memoria muscolare di giocatore, per quanto dilettante. Come ha spiegato lo stesso mangaka al Los Angeles Times, «cerco di enfatizzare le piccole cose che solo una persona che ha giocato saprebbe: qual è la sensazione di destreggiarsi con la palla o come lanciarla». È grazie a questa esperienza che il mantra “la mano destra è di supporto per quella sinistra” diventa un tema portante e non soltanto una regoletta sterile che i personaggi si ripetono a vicenda.

La matita di Inoue è al tempo stesso realistica e deformante (altro tratto ereditato dal suo tutore Hojo) e impattante come lo schiaffo dato con una palla da canestro. I giocatori, specie nelle ultime annate del manga, sono corpi plastici cesellati da gocce di sudore, sono figure che incarnano lo sforzo fisico, e chi legge capisce che l’intensità della partita sta strizzando i giocatori facendo uscire dal corpo ogni singola particella d’acqua.

Anche se l’esito di uno spokon, in un senso o nell’altro, è prevedibile, ancora una volta Slam Dunk disattende le aspettative e termina nel modo meno scontato possibile. Dopo aver zoommato sui protagonisti e averci fatto sentire tutto il loro dolore, la fatica e l’entusiasmo in questa cavalcata epica, il finale, come una secchiata d’acqua in faccia, ci risveglia e relativizza tutto. Quello a cui abbiamo assistito, che a noi è sembrata la scalata sportiva più importante del mondo, era solo un torneo scolastico dall’eco impercettibile al di fuori degli interessati.

Slam Dunk fu protagonista indiscusso degli anni Novanta. Nel gennaio 1995, la rivista Shonen Jump pubblicò quello che sarebbe passato alla storia come il proprio numero più stampato di sempre, il 1334, con oltre 6 milioni e mezzo di copie in circolazione: conteneva un doppio poster di Toriyama, il 500esimo capitolo di Dragon Ball e uno, a colori, di Slam Dunk. Dragon Ball e Slam Dunk, insieme a Yu degli spettri, furono i tre pilastri su cui si fondava il successo della rivista, e gli editor di Jump individuarono il declino delle vendite proprio nella chiusura a catena di questi tre manga, che si conclusero uno a un anno di distanza dall’altro (Yu degli spettri nel 1994, Dragon Ball nel 1995 e Slam Dunk nel 1996). Nel 1997 le copie stampate di Shonen Jump erano scese a 2 milioni e mezzo.

La fine dei tre manga forse non è stata la causa principale, d’altronde in Italia stava succedendo la stessa cosa con Topolino, che, raggiunti i fasti del milione di copie nel 1993, vide sgretolarsi a poco a poco il suo successo. È certo però che Slam Dunk fu un manga pervasivo, che spostò le cose, per davvero, rendendo popolare uno sport in una nazione che non lo aveva mai avuto in grazia. Al manga è oggi dedicata perfino una borsa di studi istituita da Inoue – un modo, ha detto il mangaka, «per ridare indietro a uno sport che mi ha dato tanto».

Dopo Slam Dunk, Inoue non è comunque riuscito ad abbandonare quelle ambientazioni. Un po’ perché ci è tornato varie volte negli anni (disegnò un epilogo nel 2004, di recente ha diretto un adattamento cinematografico) e un po’ perché nel 1999 iniziò a lavorare sul manga Real, che racconta il mondo della pallacanestro in carrozzina.

Real è un oggetto fumettistico ancora più affascinante, perché innervato da un punto di vista complesso: in Slam Dunk i personaggi sono attaccabrighe e teppisti, ma fondamentalmente buoni e rappresentano valori positivi, oltre a essere macchine fisiche perfette. Ma Slam Dunk era un manga scritto da un ventenne che aveva «una prospettiva più semplice sulla vita. All’epoca, tutti i miei obiettivi ruotavano attorno all’idea di vittoria e successo».

Real mette in scena le fatiche, gli ostacoli e il lato oscuro di chi, queste abilità illimitate, non le ha. Ma forse sta proprio in questo il fascino di Slam Dunk: l’eruzione gioiosa di un autore che non aveva bisogno di gestire il compromesso, a cui nulla sembrava impossibile e tutto pareva raggiungibile attraverso una linea retta. «Non ero un grande giocatore di basket» ha ammesso una volta Inoue. «E non ero nemmeno un grande disegnatore di manga, all’inizio, ma unendo manga e basket… è difficile da spiegare, ma sono stato il migliore a utilizzarli assieme».

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