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Con “Suzume”, Makoto Shinkai racconta i traumi del Giappone contemporaneo

suzume makoto shinkai

Suzume, il nuovo film di Makoto Shinkai, potrebbe essere considerato come il terzo capitolo di una trilogia dell’apocalisse, sul disastro e i suoi effetti sulle persone. In Your name., il meteorite che minacciava la distruzione di un’intera cittadina, con il cratere che affondava nel terreno dove prima pullulava vita, sembrava riferirsi alle esplosioni della bomba atomica che avevano raso al suolo Hiroshima e Nagasaki e lacerato il Giappone. In Weathering with You, la minaccia ecologica viveva invece di echi legati a Fukushima.

E sono proprio il terremoto del Tohoku e il conseguente disastro della centrale nucleare di Fukushima a essere centrali anche in Suzume, facendo assumere a Makoto Shinkai un ruolo di responsabilità che pochi altri animatori contemporanei (tra questi Mamoru Hosoda, Masaaki Yuasa, Hiromasa Yonebayashi, Naoko Yamada) hanno avuto il coraggio di affrontare: quello di confrontarsi con i traumi collettivi del Giappone.

Suzume è una giovane liceale che vive con la zia, da cui è stata adottata dopo la morte della madre. Un giorno, Suzume incontra un ragazzo di nome Sōta e scopre che il Giappone è pieno di porte magiche che si affacciano su un mondo alternativo ma collegato al loro. Se quelle porte si aprono, ne esce un verme gigante invisibile a tutti tranne che a Sōta e Suzume, causa di terribili terremoti e disastri naturali. Il ruolo di Sōta, quindi, è quello di tenere queste porte chiuse. Ma quando Suzume rimuove inconsapevolmente la chiave di volta che influenza l’equilibrio di tutte le porte, il rischio di una tragedia immane sembra diventare più concreto. Inizierà così un viaggio che la porterà fino a Tokyo per cercare di risolvere questo mistero.

Ad analizzare i tre film di questa trilogia dell’apocalisse, ci si può accorgere che Makoto Shinkai ha optato per sviluppi narrativi molto simili: i personaggi principali hanno un trauma irrisolto, spesso legato alla famiglia e all’infanzia; fuggono dal proprio contesto quotidiano per affrontarli; sulle loro fragili spalle ricade una responsabilità enorme, quella di salvare intere collettività. I mondi narrativi di Shinkai vivono inoltre di dualità, a partire dalla presenza di dimensioni alternative, parallele a quelle note.

Chi lo accusa di reiterare certe dinamiche narrative non ha tutti i torti: in Suzume, proprio come nelle opere precedenti – da 5 cm al secondo a I bambini che inseguono le stelle – Makoto Shinkai fatica spesso a staccarsi da un modo di raccontare le sue storie che vive di ripetizioni e già visti (il trauma, il viaggio, le difficoltà relazionali, un presente sociale talvolta schiacciante). Ma Suzume riesce ad astrarsi da queste ripetizioni narrative che affliggono il cinema del regista, in virtù di un ritmo narrativo equilibrato, capace di muoversi tra il dramma e le situazioni più comiche, tra la dolcezza dei rapporti umani e la forza della scoperta del crescere. 

C’è, poi, tutta la bellezza visiva che è ormai una firma di Makoto Shinkai. Tecnicamente, Suzume è di grande qualità: nell’integrazione fra animazione 3D e 2D e nel modo in cui sfrutta funzionalmente i fondali, spesso realizzati in CGI che – per l’uso della luce e della fotografia – tendono a un livello di realismo che mai cozza con il segno del character design. In questo tripudio di bellezza visiva, stupisce la scelta di rappresentare l’ultimo verme di Tokyo con una rozza tecnica 3D che ne snatura l’impatto emotivo della sequenza. Ma, al di là di qualche dettaglio come questi, il risultato generale è notevole, come ci si aspetta ormai da una produzione di Makoto Shinkai. 

A rendere Suzume tra le migliori cose di Shinkai c’è anche l’equilibrio che il regista ha saputo infondere negli omaggi che da sempre dispensa con il suo cinema ma che, talvolta, sfiorano il plagio, come in I bambini che inseguono le stelle, fin troppo debitore di Hayao Miyazaki. Ed è proprio quest’ultimo a essere rimando obbligato anche stavolta: la prefettura dove vive Suzume si chiama Miyazaki, mentre la musica che la protagonista ascolta in macchina mentre si dirige con la zia e l’amico di Sōta verso il luogo finale è quella con cui la protagonista inizia il suo viaggio di maturazione in Kiki – Consegne a domicilio

Quello di Suzume è un cinema che, a volte, si diverte a piegarsi su se stesso: Shinkai cita il proprio lavoro in una serie di (piccoli) rimandi, che rappresentano un gioco con lo spettatore. Eppure, questo elemento citazionista non eccede e non sovrasta mai il cuore pulsante dell’opera.

Il viaggio di Suzume verso la felicità è un viaggio a ritroso. È un tragitto fatto di scoperte, di dolori, di nuovi incontri ma che, alla fine, porta là dove tutto è iniziato: il luogo di origine del trauma che, non a caso, coincide con l’infanzia. E, per la prima volta, Shinkai decide di mettere in scena più o meno direttamente quel trauma, facendo sì che sia intimo e collettivo al tempo stesso. Il trauma della protagonista è rappresentato dalla perdita, dal vuoto della morte conseguente al terremoto del Tohoku. Il trauma del Giappone è rappresentato invece dal terremoto (non solo quello del Tohoku ma anche, per esempio, quello del Kanto, come si dice chiaramente nel corso del film), dal conseguente maremoto, dalla tragedia nucleare di Fukushima. 

suzume makoto shinkai

Non era mai stato così diretto, Shinkai, nel rappresentare la ferita pubblica del suo Paese. È inusuale per lui, ma in generale per tutti gli autori di animazione giapponese appartenenti alla generazione che ha volutamente smesso di mettere in scena le dinamiche politico-sociali del Giappone, se non in forme estremamente allegoriche. Il più grande solco fra la generazione di Miyazaki, Otomo, Takahata e Oshii e quella di Shinkai, Hosoda, Yuasa sta proprio nell’urgenza della prima di raccontare le lacerazioni del tessuto sociale collegate al flusso della Storia, al contrario delle nuove.

Hideaki Anno (regista e sceneggiatore, tra gli altri, di Neon Genesis Evangelion) è stato tra i pochi ad affrontare un discorso di stampo sociale, ma sempre incanalandolo in una dimensione intima e personale. È come se ora invece Shinkai avesse deciso di prendersi le proprie responsabilità e, in virtù dell’importanza che ormai – volente o nolente – il suo nome ha nel panorama degli anime contemporanei, avesse voluto fornire una chiave di interpretazione salvifica

Suzume è, da questo punto di vista, un’opera catartica, perché dal trauma, dal dolore, dalla morte, dalla perdita suggerisce che c’è sempre un modo per proiettarsi verso il futuro, non cancellando quelle ferite ma facendole proprie. Insegna, insomma, ad aprire la porta e fare un passo avanti, oltrepassare la soglia che la Storia consolida in dolore e (ri)pensarsi felici.

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