
Il 12 luglio del 2001, a 61 anni, dopo tre anni di lotta con il cancro, moriva Fred Marcellino. Probabilmente non ne avete mai sentito parlare, e forse non pensate che abbia niente a che fare con le vostre vite (sia che leggiate libri o no), ma in realtà è una di quelle figure che possiamo definire fondamentali per capire la storia dell’industria culturale contemporanea e uno dei suoi aspetti più importanti: le copertine dei libri.
Non sto parlando dell’immagine, della fotografia o dell’illustrazione. Mi riferisco invece al design complessivo, che oggi è diventato uno strano esercizio a metà fra il lavoro dell’art director di un giornale di provincia e un ragazzino che cerca immagini fuori copyright su Google, ma che un tempo ha avuto libertà, agenzia, campo di applicazioni. Possiamo definire addirittura il segmento delle copertine dei dischi come un sottoinsieme del design grafico delle copertine dei libri, sostanzialmente perché sono nate per imitazione di quello. E anche in quel caso Fred Marcellino è riuscito a fare molte cose interessanti e importanti.
Marcellino, pittore di formazione classica, iniziò la sua carriera nell’editoria negli anni Settanta. La sua importanza non può essere sottovalutata, perché è stato uno dei più importanti innovatori in un periodo critico del settore, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, quando l’industria editoriale si reinventò e diventò davvero moderna. I suoi progetti di copertine sfidavano le convenzioni dell’epoca, sostituendo quelle orientate al marketing con immagini eleganti e una tipografia altrettanto ispirata. Lavorò per poco più di dieci anni nel settore, ma lo cambiò per sempre.
L’effetto complessivo del suo lavoro diede ulteriore importanza al campo del design del libro, anche se oggi molti dei suoi lavori sono diventati la base di così tante interpretazioni da sembrare quasi scontati, privi di inventiva. Quasi banali. E pensare che invece erano gli originali di tutto quello che è venuto dopo.
Marcellino produsse a un ritmo di 40-50 copertine all’anno (qui le trovate tutte), lavorando sulle prime edizioni di moltissimi capolavori statunitensi del Dopoguerra o sulle edizioni americane di molte opere fondamentali europee: Tom Wolfe, Margaret Atwood, Milan Kundera, Anne Tyler, Primo Levi. Fred Marcellino cambiò il volto dell’editoria, una copertina alla volta, sino a dedicarsi ai libri per bambini che scriveva e illustrava personalmente e che diventarono il suo lavoro principale sino alla morte, nel 2001.
La sua traiettoria è stata quella di un artista tradizionale che ha trovato la sua via in un settore ortogonale rispetto a quello “normale”. Marcellino nacque a Brooklyn. All’età di tredici anni, la sua famiglia si trasferì a Bayside nel Queens, New York. Fred seguì felicemente le orme della sorella maggiore Marie, che fin da piccola aveva mostrato talento e passione per l’arte. Nel 1957 si diplomò alla Bayside High School con tutti gli onori, diventando “l’artista della classe”. In seguito si concentrò sulla pittura espressionista astratta, che gli consentì di ottenere lauree alla Cooper Union e a Yale e una borsa di studio Fulbright a Venezia.
Al suo ritorno a New York nel 1964, Marcellino si concentrò per un breve periodo sul design di mobili, prodotti e interni. Senza osservare una particolare distinzione tra arti commerciali e belle arti, all’inizio degli anni Settanta decise di intraprendere una carriera nella grafica e nell’illustrazione. I suoi primi incarichi si collocano tendenzialmente nell’ambito dell’arte editoriale, ma il suo talento fu rapidamente apprezzato dall’industria discografica. La maggior parte delle case produttrici della rivoluzione musicale rock’n’roll dell’epoca utilizzarono regolarmente le sue copertine. Dai Fleetwood Mac ad artisti blues e rock, Marcellino progettò e realizzò alcune centinaia di cover di dischi. Ma fu con i libri che soddisfò la sua vena artistica in maniera più completa.
La cosa particolare di Marcellino era il processo con il quale realizzava le copertine. Infatti, l’artista insisteva nel leggere l’intero manoscritto prima di iniziare a disegnarne la copertina. Sebbene questa procedura si rivelasse estremamente dispendiosa in termini di tempo, visto il suo carico di lavoro sempre crescente, Marcellino ripeteva di non essere in grado di continuare senza una piena comprensione dell’intento dell’autore, che cercava in ogni caso di cristallizzare in forma visiva. Grazie alla sua passione per l’aspetto della tipografia e al suo vocabolario artistico molto ampio, dal disegno astratto all’uso di silhouette e fotografie ristilizzate, era in grado di portare a ogni incarico un punto di vista nuovo. È molto difficile riuscire a ritrovare uno stile unitario nel suo lavoro, che è stato anche esercizio di mimesi rispetto al contenuto dei libri. Eppure l’idea, il gioco, l’immagine, il profilo, tutto aveva qualcosa che permetteva se non altro agli addetti ai lavori di riconoscere sempre una copertina fatta da Marcellino.
L’artista ha dichiarato più volte che non pensava mai al risultato finale durante il processo di lettura: doveva semplicemente «essere un lettore» e come tale avvicinarsi il libro. I risultati del suo approccio hanno prodotto delle soluzioni molto intriganti e perspicaci rispetto al libro, soprattutto rispetto a quelle della maggior parte degli altri illustratori o graphic designer presenti sul mercato editoriale. Oggi il suo lavoro è un monumento che si trova sulle bancarelle di libri usati e in migliaia di epigoni e imitazioni di graphic designer anche italiani che hanno fatto proprio lo stile di questo o quel suo libro. In generale, però, come dicevo, il suo lavoro è sempre stato facilmente riconoscibile da editori, autori, direttori artistici e case editrici, oltre che dal pubblico in generale.
La sua carriera non è assolutamente passata sotto silenzio. Era il graphic designer più cercato di tutta New York, dove si concentra la maggior parte dell’editoria americana. Il più prestigioso dei premi letterati americani, il National Book Awards, per quattro anni (dal 1980 al 1983) istituì un premio per la migliore copertina di libro. Tre volte su quattro fu vinta da Marcellino: con Birdy (1980) di William Wharton, African Stories (1982) di Doris Lessing e con Souls on Fire (1983) di Elie Wiesel. Un anno ricevette tre delle cinque nomination. Insomma, un gigante.
Poi, la svolta: come Bob Dylan aveva acceso la chitarra elettrica e abbandonato il folk acustico, così Marcellino si mise a illustrare libri per bambini scritti da lui stesso. La sua carriera come autore e illustratore di libri per l’infanzia passò attraverso alcune opere in cui il suo genio e il suo talento grafico raggiunsero il punto più alto, soprattutto con una sua versione del Gatto con gli stivali. Tuttavia, l’impatto complessivo del suo lavoro diventò fisiologicamente marginale rispetto a quello del “vestire” la letteratura per adulti.
Nel mondo dei comics il rapporto tra copertina e fumetto è spesso legato dal punto di vista visivo, ma non c’è una collaborazione sul progetto grafico, che invece in moltissimi casi è ingabbiato all’interno di una collana seriale (pensiamo a Disney o Bonelli) o di un progetto grafico complessivo curato da un art director e non da un editor (come accade con le collane Feltrinelli e gli altri editori tradizionali che da alcuni anni si dedicano al graphic novel).
Nei mondo dei libri in generale, invece, la cosa è ancora più complicata perché, soprattutto nel nostro Paese, la tradizione di graphic design e progetti di copertine è stata relativamente marginale. A fronte di una ampia diffusione di illustrazioni per libri appartenenti a collane e serie (dagli Oscar Mondadori alla Biblioteca Universale di Rizzoli, per citare due delle collane storiche di tascabili) fa il pari la gabbia molto stretta dal punto di vista grafico che impedisce di ampliare più di tanto la capacità espressiva dell’artista incaricato della copertina. Spesso neanche lavoro di un artista indipendente, ma una scelta di foto di stock a basso costo fatta dalla redazione, oppure una impostazione grafica non originale, basata su stilemi e tropi ormai consumati. Esempi sono i volumi di (auto)biografie con le foto del personaggio ripreso frontalmente con sfocatura già dalla linea delle basette. Tutte variazioni delle inquadrature e dello stile di Platon Antoniou, il fotografo dei potenti. Alle volte senza neanche sapere di cosa parla il libro da illustrare, se non sulla base di un brief di poche righe. Una grande tristezza.
La parte più sbilanciata, da noi almeno, è tuttavia quella del settore della varia con copertina cartonata. I grandi romanzi, che oggi stanno avendo una diffusione sempre più limitata sia per motivi di spazio che di costi, sia di produzione che per gli acquisti. Nonostante la cartotecnica permetta da anni di fare libri che sono delle sorprese sensoriali e tattiche (Dave Eggers ha appena pubblicato negli Usa un romanzo con la copertina fatta in legno intarsiato!) in Italia la situazione è piatta e banale. Sono sempre le edizioni economiche o brossurate ad avere impostazioni più avventurose, anche se iterate: basta pensare ad Adelphi, che ha fatto scuola ma sostanzialmente mantiene la stessa impostazione grafica da quarant’anni. Le cartonate invece no. Quelle sono quasi sempre tremende. Oppure copiate malamente.
Una ragione deriva anche dalla struttura del mercato librario italiano: la maggior parte di quello che viene pubblicato per la prima volta nel nostro Paese infatti è tradotta tendenzialmente dall’inglese. E quindi le case editrici non solo stanno sempre più spesso traducendo in modo “piatto” il titolo del libro originale (che non è necessariamente un male, tranne quando i titoli in inglese vengono lasciati tali e quali, in un eccesso di esterofilia e provincialismo culturale), ma cadono spesso anche nella tentazione malefica di seguire l’impostazione grafica della copertina americana. Azzerando di fatto l’originalità del lavoro fatto dai nostri artisti. Un rapido controllo su Internet permette di capire che il romanzo con quella copertina affascinante che abbiamo visto in libreria è semplicemente un clone dell’originale americano.
Si potrebbe parlare poi a lungo del ruolo della tipografia, cioè scelta dei font, dimensione e posizionamento delle scritte, per definire un progetto grafico di una copertina di un libro. Il “somatesto”, cioè l’incarnazione, il “corpo” del titolo, è un elemento fondamentale nel dare un’identità visiva alla copertina del libro. Ecco quindi che famiglie di font diventano potenziali “amici” che definiscono non solo l’identità di una collana ma anche quella di un intero genere (i font dei romanzi western o dei best-seller delle saghe familiari, per esempio).
E non fatemi neanche cominciare sulla stagione dei disegnatori, anzi dei pittori, che hanno pennellato tendenzialmente a olio o a tempera centinaia di copertine con stili che oggi consideriamo scontati e banalmente seriali, ma che in realtà a suo tempo erano delle vere opere d’arte. Fa un po’ tristezza vedere su Twitter i thread dei vari influencer che campano di immagini della cultura pop ripescare, tra un tostapane e una pubblicità delle scimmie di mare, immagini archetipe seppur con stile pittorico-evocativo, senza riuscire a valorizzarle: centinaia di quadri e dipinti che sono stati prodotti per il mondo editoriale e che oggi sono diventate curiosità di maniera.
Tutto questo, infatti, è diventato solo la pallida ombra del lavoro di alcuni tra i più importanti artisti e creatori che oggi chiamiamo “graphic designer” ma che in realtà hanno una carica autoriale enorme. Tra loro, Fred Marcellino è stato un gigante, e la sua impronta dura ancora oggi. Ecco perché la storia di quest’uomo, che quasi nessuno conosce, è in realtà cruciale per apprezzare il progresso nell’arte dell’editoria.
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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.
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