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Hai rubato anche tu questo disegno?

Tendenze e direzioni della pop culture viste da chi non riesce a farne a meno, anche se vorrebbe. "Sofisticazioni popolari": una rubrica di Fumettologica a cura di Marco Andreoletti. Il giovedì, ogni 15 giorni.

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ha rubato anche tu questo disegno alessandro ripane
La copertina di “Hai rubato anche tu questo disegno?” di Alessandro Ripane (Edizioni BD), che riproduce il disegno dell’autore di cui si discute nell’articolo

Nel 2013 il giovane Alessandro Ripane realizza un’illustrazione per la rivista Lök Zine. Vediamo due bambini agghindati con vestiti desueti, una specie di macabra divisa di qualche collegio, travolti dalla potenza di un vecchio grammofono. I malcapitati finiscono per rimetterci, letteralmente, la faccia. Al posto del volto abbiamo infatti due orridi teschi e lembi di pelle lacerata. Si tratta di un’illustrazione molto potente, che si presta a essere utilizzata in un numero infinito di situazioni. Caricata sui social network, inizialmente si limita a raccogliere un consenso adeguato alla giovane età del suo autore, ancora ai suoi esordi. 

Passano poi un paio di anni e succede qualcosa di inaspettato: l’immagine viene condivisa dalla band dei Prodigy – proprio quelli di The Fat of the Land – che nel post si chiedono chi sia l’autore. A quel punto l’illustrazione comincia ad avere una vita propria. Esposta a una platea così ampia aumenta la sua presenza sul web in maniera esponenziale. Viene utilizzata come copertina di dischi, per poster, t-shirt serigrafate e tatuaggi. A un certo punto finisce anche nel radar del chitarrista Tom Morello, che la rilancia a sua volta (specificando però almeno l’autore). 

Nonostante per chiunque ne venga a contatto sia possibile risalire a chi l’ha realizzata, ormai è di dominio pubblico. Alessandro Ripane la vede utilizzata in molte occasioni, nei contesti più disparati. Da questa vicenda reale parte il nuovo libro dell’autore, intitolato Hai rubato anche tu questo disegno?, che indaga proprio su questo evento così improbabile. Un fumetto con cui Ripane si conferma un narratore ricco di inventiva, capace di piegare le regole del fumetto a favore della propria poetica, dopo l’esordio surrealista e rocambolesco Ramon hai sgarrato del 2021.

Le qualità di Ripane si prestano alla perfezione per scrivere la cronaca di una storia che rimbalza tra invenzione e realismo, raccontando il rapporto tormentato di un giovane autore con il suo lavoro più celebre. Un prodotto del suo ingegno che praticamente non gli appartiene più, ma che ha fatto il giro del mondo, colpendo persone lontanissime tra loro in modo così efficace da spingerle a farlo proprio. Come ci si deve porre in una simile situazione? Farsi il sangue amaro per il furto o gongolare per la potenza di una propria idea?

Oltretutto c’è anche un altro aspetto da prendere in considerazione: la storia dell’arte è costellata di episodi simili, dove l’appropriazione del lavoro di un altro artista è parte integrante del processo. A fare spesso la differenza sono il motivo per cui lo si fa e la chiave di lettura che si vuole restituire all’utente finale. Per chiarire meglio questo punto basti pensare alla facilità con cui la pop art integrava nella sua poetica intere porzioni di linguaggio estetico legato alla produzione industriale. Abbiano il detersivo Brillo o la zuppa Campbell, riproposti tali e quali da Andy Warhol ma caricati di un significato enorme. 

Lo scozzese Eduardo Paolozzi fu il primo artista a incorporare immagini prese da magazine e pubblicità nelle proprie opere, elevando al quadrato quanto fatto in precedenza da Picasso o Braque. John Baldessari e Robert Heinecken sono altri due esempi di appropriazione di immagini all’interno del proprio percorso artistico. Il primo usava fotogrammi da film di Hollywood, il secondo ritagli pornografici e pagine di magazine. Martha Rosler componeva i suoi collage sovrapponendo fotografie già esistenti, anche di fonti autorevoli come Life Magazine. Spostandosi in ambiti meno pop il minimo è citare Sherrie Levine, che riproduceva opere altrui senza la minima modifica, solo firmandole. Se c’è un artista che però ha elevato queste meccaniche a un altro livello, quello è Richard Prince.

Richard Prince fotografava fotografie pubblicitarie, tipicamente gli ampi orizzonti utilizzati dalla Marlboro per la sua narrazione fatta di cowboy e frontiera, rimuoveva il logo e li vendeva come istantanee di paesaggi americani più veri del vero. Perché per lui erano più autentici quei finti scorci di un’epoca romanzata che le effettive vedute che si potevano catturare durante un viaggio in macchina lungo qualche autostrada sperduta. Prendeva copertine di romanzi pulp da 45 centesimi, le ristampava ingrandite su tela e a quel punto ci aggiungeva elementi dipinti che giocavano con gli stereotipi già presenti nella versione originale dell’illustrazione. In nessun caso ha mai riconosciuto l’autore delle sue fonti. 

Nel 2016 ha ulteriormente alzato l’asticella vendendo riproduzioni di fotografie prese da Instagram, mantenendo perfino la cornice della UI del social network. Nonostante le lamentele dei fotografi che si sono sentiti derubati del loro lavoro, Prince si è sempre mosso in un terreno legale – il cosiddetto retrophotographing permette di appropriarsi di un’immagine cambiandola di pochissimo – ed è riuscito a vendere i pezzi a decine di migliaia di dollari l’uno.

Non sempre va così bene. Nel 2006 Jeff Koons fu denunciato dal fotografo Andrea Blanch per avere utilizzato una sua foto – originariamente indirizzata a una campagna pubblicitaria di Gucci – all’interno del collage Niagara. L’artista vinse la causa perché nel contesto della sua opera la fotografia cambiava di significato, diventando qualcosa di altro rispetto al lavoro per cui era stata scattata. Quando invece, qualche anno prima, Koons riprodusse in forma di scultura lo scatto Puppies di Art Rogers, la legge non fu così benevola. Nonostante si trattasse di due linguaggi diversi, in quel caso la differenza concettuale non fu accolta, così l’artista dovette restituire gran parte dei soldi guadagnati dalla vendita dell’opera.

Lo street artist Shepard Fairey realizzò il celebre poster di Obama – quello con la scritta “Hope” – copiando una fotografia di Mannie Garcia. In tribunale provò a dimostrare il contrario ma perse le causa, guadagnandosi 300 ore di lavori socialmente utili e una multa da 25.000 dollari. Probabilmente il fatto lo prese di sorpresa, visto che ancora oggi il logo della sua compagnia è basato su una fotografia del wrestler André the Giant rubata a chissà quale autore anonimo. Dopotutto quello dell’appropriazione è un meccanismo da sempre presente nella street art. Pensiamo al primo Kaws, oggi lanciatissimo nelle gallerie di arte contemporanea di tutto il mondo anche grazie alle frequenti collaborazioni con il mondo dello streetwear, quando rendeva proprie le affissioni pubblicitarie già esistenti aggiungendoci i suoi personaggi con i tipici occhi a X.

Probabilmente l’ambito in cui l’atto di rubare un’opera di qualcun altro è più diffuso rimane quello della sticker art. Il ramo più virale e urticante di tutte le discipline artistiche legate alla strada, dove la provenienza pirata delle immagini sabotate e moltiplicate all’infinito era esplicita e parte integrante di un linguaggio che voleva sfidare il sistema. Per rendersene conto basta sfogliare le migliaia di esempi contenuti nei due tomi di DB Burkeman editi da Rizzoli Usa, dedicati proprio all’uso dell’adesivo come veicolo di arte e significato. 

Se in moltissimi casi si tratta di lavori originali – confezionati ad hoc da illustratori o graphic designer – in altrettanti si tratta di riproduzioni di qualcosa di già esistente. Solo reso più ruvido dalla privazione del contesto per cui era nato. Trasformati in piccoli pezzi di vinile, spediti ai quattro angoli del globo, appiccicati negli anfratti più improbabili da un esercito silenzioso di appassionati. Si tratta di una forma d’arte ormai fuori tempo massimo, ma che per decadi ha garantito un continuo bombardamento di immagini senza nessuna preoccupazione per copyright e diritti d’autore. Che si trattasse di qualche pornodiva anni Settanta o di icone popolari alla Mario Brega, poco importava.

Nulla di strano, se si pensa che alla base della musica hip hop ci sia il rendere proprie piccole porzioni del lavoro altrui. Fin dall’inizio del Novecento i musicisti jazz inserivano segmenti di altre composizioni nelle loro canzoni, come una sorta di inside joke. Poi, prima con la Musique Concrète e la sua manipolazione di nastri e registrazioni, poi con la rivoluzione portata dai loop del Mellotron, la pratica del sampling si spinse sempre più in là. Il campionamento di pezzi già esistenti – fatto rigorosamente con due giradischi contemporaneamente – era il cuore di una nuova musica che infiammava le strade di New York, e il gioco dei primi, pionieristici produttori divenne presto quello di cercare i pezzi meno noti possibile. 

Tutto nacque nei tardi anni Settanta, quando i DJ del Bronx animavano le feste suonando a ripetizione solo le parti delle canzoni a cui il pubblico rispondeva meglio. Loop incessanti di percussioni funky e martellanti giri di basso, a cui ben presto si sovrapposero le routine dei master of ceremony. Leggenda vuole che Afrika Bambaataa cercasse i vinili più assurdi e li mettesse a bagno in modo che le etichette venissero rimosse e le sue fonti rimanessero oscure. Pensate come doveva suonare per un ragazzino del Bronx nel 1982 un sample dei Kraftwerk, campionato nella sua Planet Rock. Probabilmente era davvero un suono di un’altra galassia. Per questo e altri episodi il consiglio è sempre quello di leggervi l’incredibile Hip Hop Family Tree di Ed Piskor, enciclopedia a fumetti di una rivoluzione culturale.

Al di là degli inizi totalmente carbonari, la questione legale attorno al sampling è sempre stata complessa. Se un sample è irriconoscibile, la fonte troppo oscura o il proprietario dei diritti è andato perduto, come ci si deve muovere? E se invece qualcuno si accorge che una propria composizione è finita nella canzone di qualcun altro? Esistono casi dove le cose non sono finite benissimo. 

I Verve persero il controllo della loro canzone Bittersweet Symphony perché il sample dei Rolling Stones su cui si basava fu riconosciuto dai diretti interessati: eppure si trattava di una versione strumentale della canzone The Last Time riarrangiata per orchestra da Andrew Oldham, pubblicata solo su un raro vinile, sconosciuta ai più e comunque rielaborata in studio. Eppure la band inglese dovette rinunciare a ogni forma di introito frutto della loro canzone più famosa. All’estremo opposto abbiamo il debutto di DJ Shadow, che con il capolavoro Endtroducing… realizzò il primo album della storia composto solo da sample. Senza pagare un dollaro di diritti.

Come abbiamo visto il furto di opere d’ingegno è sempre esistito. Spesso si è trattato di semplice disonestà intellettuale, altre volte ha portato a frutti insperati di cui stiamo godendo ancora oggi. Con l’arrivo di Internet il gioco si è riprodotto all’infinito, soprattutto dal momento in cui la pirateria ha permesso a stuoli di aspiranti designer di accedere a strumenti una volta riservati solo ai professionisti. 

Con l’arrivo sui terminali casalinghi della suite Adobe – e, per i più anziani, Corel – tutti si sono scoperti progettisti grafici, anche se spesso si trattava di scaricare una bella immagine dal web e di sovrapporci una scritta in qualche font preinstallato. La stessa cosa è successa qualche anno dopo, con le testate online che creavano gallerie acchiappaclick mettendo insieme immagini emozionali senza nessuna richiesta di consenso. Oggi il problema si è spostato sulle AI e sulla loro capacità di campionare spunti da un bacino enorme e di renderli un pastone indefinito dove ogni fonte è irriconoscibile.

Rispetto a questi casi la storia raccontata da Alessandro Ripane è diversa. Anche se in pochi gli hanno riconosciuto la paternità di un’illustrazione ormai iconica, il suo lavoro ha comunque detto molto a persone lontane tra loro. C’è chi ha scelto di associarlo alla propria musica e chi se l’è tatuato sul corpo. Rispetto agli esempi riportati sopra il senso della sua opera non è stato stravolto per diventare parte organica della poetica di un altro artista, ma ha dato forma a un qualcosa che molti non riuscivano a mettere per immagini. 

Questo non lo ripaga del danno economico, né gli restituisce quanto perso in visibilità se tutti lo avessero riconosciuto come l’autore univoco. Eppure spesso l’arte e la cultura vivono di vita propria. Una volta conclusa e data al pubblico, un’opera taglia per sempre il cordone ombelicale con il suo genitore e viene data al mondo. A volte le cose vanno bene e si guadagna uno spazio nell’immaginario collettivo, molto spesso cade nell’oblio o finisce per essere stravolta e irrisa. Altre volte si ritrova nel mezzo di sanguinose dispute legali che finiscono quasi puntualmente per lasciare qualche cadavere a terra. A conti fatti, ai bambini di Alessandro Ripane così male non è andata.

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