
Lorenzo Mò si è fatto conoscere con il graphic novel di debutto Dogmadrome, uscito nel 2019 per Eris Edizioni, uno dei fumetti italiani più apprezzati di quell’anno, definito da Marco Andreoletti «un universo dove tratti cartooneschi convivono con soluzioni più disturbanti, seguendo la scia di un gigante come Al Columbia».
Ora, sempre per Eris Edizioni, Lorenzo Mò è tornato con Omnilith, fumetto ambientato in un mondo in cui l’umanità ha sconfitto l’inquinamento e i cambiamenti climatici grazie a una misteriosa sfera, una fonte di energia pulita che si ricarica tramite i combattimenti di wrestling. Non tutto però è come sembra, come scoprirà una delle figure più amate di questo mondo, Doc Vampire, in quello che diventa un thriller pieno di mazzate e di colpi di scena.
Abbiamo incontrato Lorenzo Mò al Salone del Libro di Torino, dove era presente insieme al suo editore per presentare il libro, in un’atmosfera sempre più ben disposta verso i fumetti.
Di solito la prima idea che ti viene in mente per un fumetto è un’immagine o un concetto?
Normalmente si tratta di un’immagine. Infatti questo libro è stato più semplice da progettare perché, anche se non avevo tutta la storia in mente, avevo ben presente i personaggi. E quando tu hai i personaggi è più facile vederli muoversi in una ben determinata situazione e osservare dove vanno. Come quando da piccolo giocavi con i pupazzetti.
La premessa ambientalista di Omnilith come è nata?
Quello è stato il punto di arrivo pensando al cambiamento climatico: un argomento di attualità che mi sta molto a cuore.
La versione finale è cambiata molto rispetto a quei primi elementi?
Una volta che l’ho scritta, la storia è rimasta quella. Ho cambiato solo un po’ le origini del protagonista (che all’inizio erano davvero troppo violente), a circa un quarto della lavorazione. E una parte del finale, per allungarlo. La parte conclusiva si scriveva da sola e non potevo tagliarla. Andava avanti per i cavoli suoi.

Molti scrittori citano questo momento in cui i personaggi iniziano a scriversi da soli.
Per me è stato abbastanza così. Specialmente nella conclusione. L’ho semplicemente allungata un pochino per aumentare la suspense.
Ti era successo anche nel fumetto precedente?
Per Dogmadrome avevo tante gag che volevo utilizzare nella parte di cazzeggio iniziale, però a un certo punto la storia è andata da un’altra parte e mi sono messo a progettarla per bene.
Sei uno che pianifica metodicamente i fumetti?
A me piace improvvisare, solo che è una cosa molto pericolosa perché se ti abbandoni all’improvvisazione, in un libro, questa ti può costringere a fare cose che non volevi fare. Se invece hai una scaletta già strutturata in testa, è più facile lavorare e parlarne con gli editori. Finora non mi sono mai sentito soffocato dalla progettazione, che rimane aperta a modifiche lungo il percorso.
L’ambientazione nel mondo del wrestling deriva da una tua passione?
Avevo voglia di affrontare qualcosa di completamente diverso che non conoscevo, ma non in maniera dettagliata. Nel fumetto c’è la lotta libera che però si contamina con le arti marziali. Volevo fondere questo argomento con una roba sci-fi, anche grottesca, che non c’entrasse niente con il wrestling, e come già detto affrontare il tema del cambiamento climatico.
Per i combattimenti mi sono ispirato tanto al mondo degli anime e dei manga. Ovviamente anche il wrestling, ma senza andarmi a guardare le cose troppo nello specifico, semplicemente pescando dai ricordi che avevo delle trasmissioni di lotta che guardavo da piccolo. L’idea iniziale nasce da un rewatching de L’Uomo Tigre che avevo fatto nel 2019 e che poi in realtà non avevo neanche finito.
Come ti era venuto di riguardarlo?
Da piccolo mi piaceva tantissimo, ma non ero mai riuscito a seguirlo come si deve. Lo davano su Italia 7 Gold e non riuscivo sempre a beccare le puntate. E riguardandolo ho avuto l’idea: fondere quel mondo, pieno di ambientazioni vuote e sciatte, con qualcosa di fantascientifico.
Infatti uno dei capitoli si apre su questa veduta della città.
Mi piacciono moltissimo gli ecomostri abbandonati, squallidi e fatiscenti, e volevo che tutta la parte desolata e periferica della città potesse diventare in qualche modo un personaggio della storia.

Per te qual è la cosa più difficile da disegnare?
In questo libro, le scene di combattimento. Ma sono seconde soltanto agli ambienti urbani. Li volevo sciatti, squallidi, e nel momento in cui crei delle scenografie fantasy è più facile, perché nessuno ti verrà mai a questionare una scelta in quell’ambito. Invece se ti dedichi a un ambiente metropolitano, anche se immaginario, ci sono delle regole da rispettare. È un mondo che abbiamo tutti presente ed è più facile cadere in un errore di rappresentazione. Le strade, le macchine, i palazzi, devono essere quelli.
La storia di Omnilith è abbastanza truce, ma il design dei personaggi ricorda quello dei Looney Tunes.
Perché mi piace mischiare le cose, calare dei personaggi credibili in situazioni assurde e cercare di capire cosa potrebbe venire fuori. E allo stesso modo mi piace ragionare per contrasti, utilizzando uno stile di disegno e dei colori cartoon per rappresentare contenuti particolarmente violenti.
Una delle peculiarità del fumetto sono proprio queste maschere cartoonesche. Visivamente, a cosa puntavi?
Non volevo cadere nella lucha libre più tradizionale, anche perché è una cosa già vista. Volevo qualcosa di pop, per questo ci sono ispirazioni all’Uomo Tigre, ai supereroi – il protagonista può ricordare Morbius o il Goblin di Spider-Man – ma poi c’è anche il camp colorato e fuori dal mondo della serie tv di Batman degli anni Sessanta.
Anche il fatto che il protagonista sia pieno di sé e collezioni i cimeli della propria carriera rimanda al tono surreale del Batman di Adam West. Volevo far ruotare la vicenda attorno a un personaggio che non fosse positivo, cercando di capire quanto un lettore potesse reggere un soggetto del genere. Mi ha aiutato il fatto che la vicenda fosse talmente assurda da non richiedere empatia: segui soltanto il flusso della storia.
Dogmadrome era molto più giocoso come libro. I protagonisti erano intrappolati in questo gioco che diventava reale. Omnilith è un intrigo hitchcockiano con questo protagonista che rimane coinvolto, suo malgrado, in una situazione dove il caos prorompe in tutta la sua violenza. Inoltre i personaggi sono mossi da buone intenzioni ma poi finiscono per appagare i propri istinti o le proprie semplici esigenze personali ed egoistiche.

Hai citato Hitchcock. Quello del cinema è un immaginario che ti ispira?
Non sono un esperto, ma sono appassionato di cinema, quindi i riferimenti a quel mondo ci sono sempre, in particolare in questo libro. E poi fumetto e cinema sono linguaggi che condividono molte regole. Entrambi partono da uno storyboard, ed entrambi sono racconti per immagini, anche se poi prendono strade differenti.
In questa storia c’è tanto de I guerrieri della notte, specie per gli ambienti notturni e sporchi, ci sono riferimenti a Sam Peckinpah, e direi anche a Sergio Leone. I rimandi sono meno fumettistici rispetto al passato. Ti direi anche Tarantino, che è uno dei miei registi preferiti, quindi, anche se non è voluto, probabilmente ci ho messo dentro tante cose che lo richiamano.
E come ho detto prima, in Omnilith, oltre al cinema, ci sono anche dei riferimenti agli anime e alle serie tv. Ma ci sono talmente dentro che magari mi rendo conto solo dopo aver disegnato una scena di aver pescato da quei mondi. Quentin Tarantino insegna: mescolare i riferimenti porta sempre a qualcosa di nuovo. Io parto dal presupposto che è già stato fatto tutto, l’importante è shakerare e scrivere con uno sguardo nuovo e personale.
Infatti è appena uscito un altro fumetto sul wrestling e la lotta libera, Do a Powerbomb! di Daniel Warren Johnson.
Quando l’ho visto mi ha colpito la coincidenza di queste due uscite abbastanza vicine nel tempo, con tematiche simili, anche se Do a Powerbomb! va a parare da tutt’altra parte.
Do a Powerbomb! è un fumetto che gira dalle parti degli shonen, più interessato ai combattimenti e al wrestling vero e proprio.
Una delle cose che interessava a me era quella di non far vedere quasi mai gli incontri sul ring. Forse anche qua c’è molto di Tarantino. Le iene si apre con una scena attorno al tavolo in cui i gangster parlano di Like a Virgin e di mance, poi ci sono i titoli di testa, stacco, e vediamo Mr. White e Mr. Orange in macchina dopo la rapina. Ma non vediamo mai il colpo. Te la devi immaginare attraverso quello che raccontano i personaggi, senza nemmeno avere la certezza che quello che stanno dicendo corrisponda a verità.
Stessa cosa in Breakfast Club di John Hughes, dove ognuno dei protagonisti è un narratore, forse inaffidabile o forse no, della propria vicenda. Mi piaceva l’idea che il lettore si costruisse un’idea della carriera di Doc Vampire solo di rimando, senza mai vederla nei fatti.
Qual è il tuo primo ricordo dell’atto del disegnare?
Quando è nato mio fratello. Quell’anno non ero andato all’asilo e stavo a casa a disegnare. Mia mamma mi aveva comprato matite e fogli e passavo il tempo così. Avevo un bellissimo libro di Tony Wolf con dei grandi pannelli a forma di lettere in cui erano raccontate delle favole, dove le parole chiave, invece di essere scritte, erano disegnate. Il primo approccio al disegno però, l’ho avuto guardando i cartoni animati Disney, come penso sia successo a molte persone. E poi ho continuato a disegnare tantissimo immaginando storie, creando personaggi e strane situazioni.

Da adolescente avevi mai preso in considerazione altre carriere?
Io ho sempre voluto disegnare nella vita e, siccome mi ha sempre affascinato il racconto per immagini, ho sempre gravitato attorno al mondo del fumetto. Ho frequentato il Liceo Artistico e poi l’Accademia di Belle Arti. Pur desiderando sempre di lavorare con le immagini, all’inizio dell’Accademia mi sono allontanato dal fumetto in favore della pittura in generale.
Ci sono state delle opere che ti hanno segnato in questo senso?
Dopo l’animazione Disney, passai alla controparte Warner Bros., che era più violenta, dissacrante e demenziale. Penso a tutti quegli animatori incredibili i cui nomi avrei conosciuto una volta diventato grande, come Tex Avery, Bob Clampett, Robert McKimson, Milt Kahl, Ward Kimball o alle formidabili espressioni dei personaggi di Chuck Jones e ai suoi tempi comici, che sono pazzeschi. C’è stato anche un lungo periodo di passione per Cocco Bill di Jacovitti.
Quello come l’hai scoperto?
Da piccolo, avrò avuto dieci anni, avevo visto in edicola un fumetto che Jacovitti aveva realizzato per la Bonelli, una delle ultime storie probabilmente. Ero rimasto folgorato dalla copertina, con Cocco Bill su uno sfondo blu. Normalmente i miei genitori non mi negavano mai libri o fumetti, ma quella volta non me lo comprarono, e la settimana dopo non c’era più. Fu terribile, anche se poi le storie migliori di Jac le ho recuperate da grande.
Comunque, ecco, Jacovitti mi ha formato moltissimo, insieme a Silver o Leo Ortolani, che arrivò nella mia vita nel periodo in cui, intorno ai dodici anni, mi stavo staccando dall’animazione e mi stavo appassionando ai supereroi. E Rat-Man univa questi due mondi, mettendoci dentro anche i film. E quindi mi fece scoppiare la testa.
Parlando di Rat-Man mi viene in mente uno dei ricordi della scuola media più belli che ho e cioè quando, nelle ore buche in classe, inventavo personaggi insieme ai miei compagni di banco un po’ ispirati a quel mondo. Ognuno aveva la sua storia, come in un universo condiviso, e ogni settimana portavamo avanti le nostre serie.
Devo dire che da quando ho cominciato a fare fumetti lunghi sono tornato a guardare con maggior interesse alle cose che mi piacevano da ragazzino, l’animazione, i fumetti comici.

E ci hai scoperto cose nuove?
I nomi degli autori. [ride] Cominci a dare delle facce a certi stili. E li guardi con occhi più professionali, guardando un certo disegno riesci a capire come rendere di più un’espressione o come risolvere una certa scena.
Forse è un po’ presto per dirlo, ma senti di aver trovato una tua quadra, stilistica e poetica, come autore?
Ovviamente non mi ritengo arrivato e mi piace continuare a sperimentare. Omnilith è graficamente un pelo diverso da Dogmadrome, i personaggi questa volta hanno ombre più nette e secondo me staccano di più rispetto agli sfondi, mentre Dogmadrome era un pelo più “matitoso” e sporco. Però la mia cifra resta quella del cartooning e del colore estremo. Tutto questo mi permette più espressività e un’esplorazione più profonda in universi che non sono il nostro.
In Omnilith ho affrontato le figure umane perché non volevo essere categorizzato come “quello che disegna solo pupazzetti”, anche se poi l’immaginario è quello, perché anche le mie figure umane non sono mai realistiche nel senso stretto del termine. Tanto nel disegno quanto nella storia, il realismo estremo è un elemento che tende ad annoiarmi. Voglio che i miei fumetti vadano da un’altra parte, in mondi che non potrebbero esistere.
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