RubricheShock in My TownNon si esce vivi dal Cyberpunk

Non si esce vivi dal Cyberpunk

Un viaggio nelle storie di ieri e di oggi per provare a immaginare il nostro futuro. "Shock in My Town", una rubrica di Fumettologica a cura di Davide Scagni. Il martedì, ogni 15 giorni.

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cyberpunk
Particolare dalla copertina di “Cyberpunk. Antologia assoluta” (Mondadori)

Il cyberpunk è come gli anni Ottanta: non se ne esce vivi. Come cantavano nel finire dello scorso secolo gli Afterhours di Manuel Agnelli: «Se la mia pelle è nel 2000 la tua è ancora anni Ottanta», e il cyberpunk a dire il vero è stato entrambe le cose, un movimento letterario nato nel cuore degli anni Ottanta con la pelle dentro il 2000 e oltre. Uno specchio attraverso cui vedevamo il nostro futuro, l’immagine futura di noi stessi.

Ancora oggi, più di vent’anni dopo il 2000, non abbiamo smesso di specchiarci in quella superficie. William Gibson, Bruce Sterling, Neal Stephenson e i loro epigoni piu o meno talentuosi continuano a foraggiare il nostro immaginario di libri, fumetti, videogiochi e serie tv. Il cyberpunk ha disegnato il futuro in modo così denso e preciso da illuderci che ancora possa dare risposte sul nostro presente. Un mondo di città soffocanti e stanze chiuse, di superfici e occhiali riflettenti (Mirrorshades fu il nome della prima antologia dedicata al movimento nonché il nome originario del movimento stesso), di reti neurali e spazi virtuali che componevano realtà immaginifiche nelle quali l’uomo (o meglio il suo corpo) si fa fantasma, ghost in the shell, codice linguistico.

Con in testa la lezione di Dick e di Ballard (ma anche di Burroughs e, prima ancora, dei Romantici come William Blake), questi scrittori, intellettuali, narratori nerd partivano dalla fantascienza per immaginare un futuro che riscriveva l’inconscio, lo spazio interiore, la psichedelia, in un nuovo linguaggio di dati e di codici binari. «C’è un altro mondo, ma è in questo»: il poeta surrealista Paul Éluard aveva colto questa distonia del reale un secolo prima della pillola rossa e blu di Matrix, ma ora questa percezione diventava popolare, si faceva concreta. 

La fantascienza delle astronavi, delle macchine del tempo, dei computer ribelli e degli alieni invasori, si tramutava in un mondo di comunicazione diffusa, di ostili megalopoli dominate da multinazionali, dove anche la meccanica non è più elemento alieno, strumento di conquista e di violenza sullo spazio, ma estensione del sé e mezzo di interazione e di comunicazione con l’altro: l’hardware lascia il posto al software. Il corpo si fa anima, o perlomeno pelle. «Lunga vita alla nuova carne» diceva Cronenberg in Videodrome (1983), e quella carne fatta di terminali e monitor, nei quali rifletterci e estendere allo stesso tempo la nostra percezione, è ancora viva e vegeta, è uscita dallo schermo televisivo per diventare i nostri occhi e le nostre orecchie. 

cyberpunk mirrorshades

Se c’è una cosa che a partire dagli anni Ottanta l’umanità ha capito molto bene, segnando uno stacco con le dinamiche politiche e sociali del Novecento, è che i media non sono più qualcosa di passivo, oggetti da accogliere e contestare in mano a élite invisibili: la comunicazione, e la violenza che ne deriva, è diventata parte di noi. Uno strumento della nostra identità, una estensione della nostra esistenza, una nuova carne appunto. O una nuova pelle. 

È, da sempre, il ruolo delle avanguardie: aprire un varco sul futuro che ci aspetta. Prima ancora che la tecnologia lo consentisse, il cyberpunk colse questa frattura, sancì la fine del Novecento e la nascita dell’era della comunicazione diffusa nella quale siamo tuttora invischiati. Un secolo prima, un’altra avanguardia individuò uno stacco altrettanto netto con la cultura ottocentesca; “il manifesto del Futurismo” di Filippo Tommaso Marinetti pubblicato il 20 febbraio 1909 su Le Figaro dichiarò con vigore la fine del Secolo degli Imperi e delle Masse e l’affermarsi dell’era della Tecnica, lo sviluppo tecnologico che imponeva una nuova Velocità negli spostamenti e definiva una nuova concezione di se stessi nello spazio, la Guerra come “sola igiene del mondo” (espressione tanto aberrante quanto perfettamente coerente con la storia del Novecento).

«Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno»: il secolo a venire era già tutto scritto lì, in quelle poche righe marinettiane. C’erano la  guerra e l’atomica, c’erano il treno e l’aereo, c’erano la radio e la televisione, c’era la catena di montaggio, c’era l’industria culturale, c’era il turismo di massa, c’erano il jazz e il rock’n’roll, c’era il fumetto. All’epoca la portata dirompente di quelle parole fu colta ovviamente solo in parte. È tipico delle avanguardie essere comprese solo viste dal futuro, quando le cose sono fatte. Così accade oggi col cyberpunk: la sua forza visionaria forse non è ancora del tutto espressa, per questo ci piace restare con lo sguardo indietro, a rievocare quel periodo e provare a comprenderlo.

L’uscita di un librone come Cyberpunk. Antologia assoluta per Mondadori (che contiene Neuromante di William Gibson, Snow Crash di Neal Stephenson, La matrice spezzata di Bruce Sterling, oltre alla raccolta di racconti dell’antologia Mirrorshades), il successo del videogioco Cyberpunk 2077 dai creatori di The Witcher e il nuovo capitolo della saga cinematografica di Matrix da parte delle ora sorelle Wachowski sono solo alcuni indizi che il discorso è lungi dal concludersi. Incapaci di identificare con chiarezza ciò che verrà, ci affidiamo a un’immagine familiare del nostro futuro che ci chiarisca dove stiamo andando. 

cyberpunk cybernauta catacchio
“Cybernauta” di Onofrio Catacchio

«Lo shock del futuro» recitava il claim di Cyborg, una notevole rivista a fumetti uscita nella sua prima incarnazione nel 1991 per Star Comics. Fondata da Daniele Brolli, quella esperienza di breve durata fu forse l’ultimo tentativo di fare avanguardia attraverso il fumetto popolare; di partecipare con qualcosa di forte, non derivativo, al dibattito allora in corso sul mutamento del mondo. Un fumetto come Cybernauta di Onofrio Catacchio è un piccolo gioiello cyberpunk ancora attuale, suo malgrado. Ambientata in una futuribile città italiana estesa quanto una nazione, Cybernauta prende il nome dal massiccio protagonista, una specie di supereroe dell’info-spazio, un antivirus della rete progettato dalle corporazioni “buone” per difendere il mondo dai virus delle macchine. 

Una sorta di ultimo baluardo (reazionario) dell’umanità contro la rivoluzione culturale del software, rappresentata dal villain Mao-chip, personificazione futuristica di Mao Tse-Tung. Ma se per Mao «La rivoluzione non è un pranzo di gala», ricordiamoci che siamo in Italia, un paese dove non è possibile alcuna rivoluzione, perché «ci conosciamo tutti» come diceva Longanesi (o forse si riferiva alla critica a fumetti?). Il Cybernauta – antesignano del più rassicurante Nathan Never di casa Bonelli (1991) – rappresenta dunque il primo tentativo di affrontare e sconfiggere quello “shock del futuro” che stava travolgendo le nostre esistenze e segnando il nostro immaginario. 

Da questo punto di partenza inizieremo a indagare le varie forme di uno shock che non ha ancora smesso di turbarci. Ci guarderemo allo specchio, provando a riconoscere l’immagine del nostro futuro. Cercheremo nelle orme che abbiamo calpestato i segni della strada verso cui stiamo andando. Sarà un viaggio turbolento, sregolato e arbitrario, ma anche – speriamo – divertente. E chi sa che, prima o poi, non ci porti da qualche parte.

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