“La principessa Zaffiro” e le tante anime dello shojo

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La copertina del primo volume de “La principessa Zaffiro” edito da J-Pop

La bella fanciulla che veste abiti maschili e mostra grande abilità nel combattimento è un tema antico e comune a varie tradizioni culturali, ed è più che mai popolare nei prodotti di intrattenimento mainstream di oggi, dove i personaggi femminili volitivi sono più numerosi rispetto al passato.

Anche il “dio dei manga” Osamu Tezuka creò un’eroina di questo tipo quando, nel 1953, un editor del magazine Shojo Club gli chiese di disegnare il suo primo manga per ragazze. La serie prese il titolo di Ribon no kishi, traducibile con “Il cavaliere col fiocco” ma da noi sarebbe diventata nota con il nome della protagonista, La principessa Zaffiro.

La serie rappresentò una tappa importante nella storia del manga e dell’animazione giapponese: fu il primo story manga per ragazze, ossia il primo shojo dalla trama complessa composto di episodi concatenati e non autoconclusivi, e fu anche il primo titolo per lettrici da cui venne tratta una serie anime. In pratica, La principessa Zaffiro mostrò ai grandi editori di manga che un certo tipo di storie avevano successo anche presso il pubblico femminile, e che questo rappresentava un target economicamente rilevante tanto quanto quello maschile. Ma se questo shojo è oggi considerato un classico è grazie alla sua eroina, che dopo aver affascinato lettrici (e lettori) di diverse generazioni e influenzato numerose autrici, a 70 anni suonati, sembra avere ancora qualcosa da dirci.

La principessa Zaffiro, in breve

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Sulla Terra nasce una bambina con due cuori, uno da maschio e uno da femmina, per colpa del vivace angelo Tink, che è inviato tra i mortali per sistemare il pasticcio. Il caso vuole però che la neonata in questione sia la figlia del re di Silverland, che per legge può essere governato solo da un erede maschio. Per colpa di un dottore pasticcione dalla parlata confusa, il popolo fraintende l’annuncio ufficiale e acclama festoso la nascita di un principino, così il re e la regina decidono di avallare l’equivoco e impedire al perfido duca Duralumin di usurpare il trono a nome del suo vacuo figlio Plastic.

L’erede prende il nome di Zaffiro e riceve una doppia educazione, sia da principessa che da principe. Ama indossare abiti pomposi e intrecciare ghirlande di fiori, ma può farlo solo per poche ore al giorno nei luoghi più discreti del castello, per poi tornare a fingersi ragazzo quando deve mostrarsi in pubblico. E con gran successo, vista la sua bellezza androgina e la sua abilità nel cavalcare e nel tirar di spada. Nonostante si innamori di Franz Charming, il principe di Goldland, la principessa mantiene il suo segreto finché, durante l’incoronazione, non viene crudelmente smascherata. 

Sarà quindi costretta a fuggire, subire angherie di ogni sorta e confrontarsi con vari personaggi che per motivi diversi vogliono strapparle uno dei due cuori, privandola di volta in volta della sua parte più dolce o più combattiva. Per fortuna incontrerà anche amici e amiche dal cuore nobile che si affezioneranno a lei e sceglieranno di aiutarla e di sacrificarsi pur di restituirle quello che le appartiene e riunirla all’amato principe. Se questa sinossi suona generica non è solo per evitare spoiler, ma perché della storia di Zaffiro non esiste una versione unica.

Quante Zaffiro ci sono?

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Nonostante macinasse lavoro a ritmi incredibili, Tezuka aveva l’abitudine di ritornare sui suoi manga quando sentiva di poter fare di meglio o di esplorare ancora i personaggi già raccontati. La serie della principessa Zaffiro non fa eccezione, e ha avuto nel tempo ben tre riscritture che presentano differenze abbastanza sensibili l’una dall’altra

La prima versione è quella pubblicata su Shojo Club dal 1953 al 1956, cui si è aggiunto nel 1958-9 il seguito I cavalieri gemelli incentrato sui figli della protagonista. In questa storia il principale antagonista di Zaffiro è il diavolo Mefistofele, che vuole rubare alla principessa il suo cuore di donna per rendere più femminile sua figlia Hecate, una ragazzina con vistose orecchie in stile Topolino. 

La seconda versione è del 1963, anno in cui la serie fu completamente ridisegnata per la rivista Nayakoshi: qui al posto di Mefistofele c’è un’antagonista femminile, Madame Hell, una sorta di fata diabolica, e la sua ribelle figlia Hecate non ha più le orecchie tonde ma è una ragazza dal look moderno e sbarazzino. La terza versione è stata infine realizzata nel 1967 per il magazine Shojo Friend e si caratterizza per un’ambientazione non più fiabesca ma fantascientifica.

Tezuka mostrò di preferire alle altre la seconda riscrittura, quella del 1963, che poi è quella tradotta anche all’estero – e attualmente disponibile in italiano nella più recente edizione di J-Pop (la trovate qui). Questa versione si caratterizza per tavole molto curate e ricche di dettagli, nelle quali l’alternanza a scacchiera di bianchi e neri è smorzata dai mezzi toni resi non con i retini ma attraverso pattern di tratteggi sempre diversi. 

Le inquadrature hanno un taglio cinematografico capace di portare chi legge dentro l’azione, come era abitudine di Tezuka. Compaiono spesso vignette che occupano gran parte della pagina e ritraggono la protagonista (e i suoi outfit) a figura intera e circondata di elementi floreali, elemento distintivo del manga shojo. Dietro l’eroina dagli occhioni grandi e luccicanti, che con la sua grazia attira attorno a sé amabili animaletti, ci sono chiaramente varie suggestioni provenienti dai film d’animazione Disney, in particolare Biancaneve e Bambi, mentre l’ambientazione da fiaba europea richiama I racconti di Hoffman, il film del 1951 di Michael Powell e Emeric Pressburger (dove per inciso c’è un personaggio maschile interpretato da un’attrice).

A queste tre varianti manga si aggiunge la serie anime realizzata nel 1967 sempre da Tezuka con la sua Mushi Production, e attraverso la quale la principessa Zaffiro arrivò in Italia nel 1980. L’anime è a colori e ricalca in modo ancora più evidente certi stilemi delle animazioni Disney. La storia si arricchisce di molti personaggi che non compaiono nel manga e che sono ripresi dalle fiabe – dal lupo cattivo al genio della lampada, fino alla regina delle nevi – e il tema del regno di Silverland minacciato da crudeli usurpatori è molto più centrale. 

Ma la differenza più evidente riguarda la protagonista: Zaffiro è un vero maschiaccio, è ribelle, dispettosa e decisamente allergica alle buone maniere. In pratica, si avvicina a un modello di eroina già visto e più riconoscibile e perde molte delle sue sfumature.

Un’eroina più complessa di quanto sembri

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La Zaffiro dell’anime, agile, pratica e insofferente a fiocchi e convenevoli, ricorda molto le protagoniste di due shojo precedenti: la principessa giapponese di Animitsu Hime (creata nel 1949 da Shosuke Kurakane), che appena può scappa dal castello per vedere con i suoi occhi come funziona il mondo; la pastorella di Nazo no Clover (Il Trifoglio Misterioso, manga one-shot del 1934 di Katsuji Matsumoto), che per difendere il villaggio da perfidi briganti veste i panni di un eroe mascherato e – come sottolinea Ryan Holmberg su The Comic Journal – sfoggia i capelli corti delle moga, le flapper girls giapponesi, e il piglio gioviale e sbruffone degli eroi impersonati al cinema da Douglas Fairbanks.

La Zaffiro del manga, invece, è un personaggio decisamente più complesso. Con i suoi due cuori, unisce in sé tutte le caratteristiche che da stereotipo sono associate separatamente ai maschi e alle femmine: è forte, coraggiosa e piena di iniziativa, ma è anche dolce, sensibile e amorevole. Affascina le donne che la credono un principe e gli uomini che la riconoscono come una principessa. In pratica è perfetta sia come maschio che come femmina, ma questo suo corrispondere a due modelli discordanti è più una condanna che una benedizione, dal momento che vive in un mondo che non tollera ambiguità tra l’essere maschio o femmina. 

A ricordarle, anche inconsapevolmente, che deve fare una scelta contribuiscono persino coloro che teoricamente avrebbero più a cuore le sue sorti: i suoi genitori, l’angelo Tink e il principe Franz. Tutto e tutti inducono Zaffiro a pensare di essere una deviazione rispetto a una norma inattaccabile, norma che in teoria la sua stessa esistenza mette in crisi. Le uniche che sembrano relazionarsi con lei con più naturalezza, rispettandola per quella che è, sono non a caso le altre due eroine più distanti dagli stereotipi: la streghetta Hecate, che rigetta la femminilità beneducata perché la vede come un freno alla libertà di fare le cose a modo suo, e la spadaccina Friebe, che rivendica orgogliosa tanto le sue abilità di cavaliere quanto la sua volontà di prendere marito.

Le dinamiche narrative della serie sono quelle di una fiaba avventurosa, eppure è autentica la sofferenza con cui Zaffiro reprime di volta in volta una delle sue due nature solo perché ha di fronte qualcuno che non riesce a vederla nella sua interezza e che percepisce il suo cuore di troppo come una soluzione ai propri problemi o come uno sbaglio da emendare.

Nel finale l’errore viene corretto, l’ordine ristabilito e ogni stereotipo riconfermato: nel petto della principessa resta un cuore solo, quello giusto, e Zaffiro depone la spada per diventare moglie, madre e regina di un regno che, di nuovo, soltanto il suo figlio maschio potrà ereditare. Eppure per ben tre volumi è proprio l’anomalia a reggere le fila del racconto e a fornire il pretesto per smentire apertamente un bel po’ di pregiudizi sulle donne, primo tra tutti l’idea che siano buone solo a due o tre cose e inadatte a tutto il resto. 

Sono molti personaggi minori a dare voce a queste riflessioni, spesso attraverso scenette divertenti, come per esempio quella in cui le dame del castello si preoccupano di difendere la principessa in pericolo, sottoponendo i soldati – nonché mariti – a un attacco senza quartiere con una complessa strategia militare che trova gli avversari completamente impreparati, oltre che oberati dalle faccende domestiche e dalla cura della prole.

Tradire eppure ribadire lo stato delle cose senza prendere posizione è il gioco che ogni buon prodotto mainstream tende a fare, e Tezuka sapeva giocarlo molto bene. L’happy ending romantico e “retrogrado” de La principessa Zaffiro ripristina lo status quo rispetto alle libertà che l’eroina e le lettrici si sono prese nelle pagine precedenti. Ma quell’esperienza di emancipazione, per quanto legata a una finzione, lascia comunque un segno. Come era successo anche nella Takarazuka Revue, quella forma teatrale cui Tezuka si era ispirato per creare il personaggio di Zaffiro.

L’eredità di Zaffiro

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La Takarazuka Revue era nata nel 1913 per opera di Ichizo Kobayashi, un magnate delle ferrovie che voleva creare un giro d’affari intorno alla piccola cittadina in cui faceva capolinea la sua linea di treni. L’idea era di lanciare una forma di spettacolo vicina al modello occidentale dei café chantant parigini o dei musical di Broadway, e per distinguerla dal teatro kabuki tradizionale, che ammette in scena solo attori maschi, decise di mettere in piedi una compagnia tutta al femminile

Kobayashi non aveva intenti maliziosi, perché voleva proporre un intrattenimento per famiglie che desse una prospettiva d’evasione ma di fatto ribadisse i valori della tradizione. Non puntava nemmeno all’emancipazione delle attrici, dal momento che aderiva all’ideale per cui il destino di ogni donna fosse quello di diventare “buona moglie, saggia madre”: le attrici della Takarazuka Revue erano giovanissime e, una volta raggiunta l’età da marito, erano invitate a lasciare la compagnia per prendere il posto che spettava loro nella società. Addirittura, la scuola di canto e recitazione legata al teatro fu inizialmente soprannominata “scuola delle future spose”.

In quegli spettacoli presto guadagnarono il centro dell’attenzione le otokoyaku, ossia le attrici specializzate in ruoli maschili, che di fatto impersonavano eroi volitivi e in scena prendevano in mano il loro destino e quello del mondo patinato nel quale cantavano e recitavano. Oltre a esercitare un particolare fascino sulle spettatrici per via della loro bellezza androgina, le otokoyaku offrivano loro l’occasione per immaginarsi non solo belle e innamorate ma anche forti e determinate, non più in balia della volontà altrui ma capaci di decidere per sé stesse.

Tezuka, che era cresciuto nella città di Takarazuka, aveva grande familiarità con la compagnia e i suoi spettacoli, dal momento che da ragazzino accompagnava spesso la madre a teatro e, dopo la guerra, era ammesso dietro le quinte e nei camerini per realizzare illustrazioni e reportage per conto di varie riviste teatrali. L’autore conosceva quindi molto bene anche i sentimenti di ammirazione e ispirazione che le otokoyaku suscitavano nel pubblico femminile, tanto da ritenere (come scrisse in una postfazione dell’edizione in volume de La principessa Zaffiro) che travestirsi da ragazzi «riflettesse il sogno e la posizione delle ragazze giapponesi di allora».

Un’eroina femmina che si traveste da uomo sembrò quindi a Tezuka la chiave giusta per riproporre in uno shojo quanto aveva fatto negli shonen precedenti, Astro Boy e Kimba – ll leone bianco: una grande avventura nella quale, attraverso varie vicissitudini e antagonisti odiosi, il giovane pubblico potesse fronteggiare, seppure in chiave metaforica, i problemi che avrebbe presto incontrato nel mondo reale.

La principessa Zaffiro insegnò alle lettrici che vivere in una società maschilista e oppressiva le avrebbe messe sempre di fronte alla scelta di sacrificare una parte importante di sé e che di questo sacrificio ne avrebbero beneficiato soprattutto gli altri. Ma insegnò loro anche che solo una ragazza che non corrisponde ai modelli preconfezionati ha una storia degna di essere vissuta e raccontata. Questo messaggio si sedimentò nell’immaginario dell’epoca e lasciò traccia nello shojo che sarebbe venuto in seguito.

Le tante anime dello shojo

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Zaffiro si abbandona alle proprie emozioni quando si veste da donna, mentre quando indossa abiti maschili è pronta ad agire e può fare cose che alle donne non sono consentite. In questo senso, La principessa Zaffiro riflette la doppia anima dello shojo, tradizionalmente segnato da storie dove abbondano lacrime, sentimenti e finali consolatori, dall’altra proteso verso l’avventura e l’azione e aperto a quelle tematiche complesse considerate inadatte al delicato pubblico delle ragazze. 

Se la serie di Tezuka è considerata cruciale per lo sviluppo del manga shojo è proprio perché contiene in nuce vari elementi che porteranno allo sviluppo di importanti e floridi filoni del manga shojo, alimentati soprattutto dal lavoro delle autrici che a partire dagli anni Settanta avrebbero sottratto il manga per ragazze al monopolio creativo dei colleghi.

Zaffiro è un’eroina bella e buona, è oggetto di angherie e persecuzioni, attira odio ma anche amicizia sincera, riesce a coronare il suo sogno d’amore solo dopo varie peripezie, sopravvivendo a molti dei suoi cari: ci sono tutti gli ingredienti tipici dello shojo imperniato sul dramma sociale-familiare-sentimentale che andava per la maggiore negli anni Cinquanta e che avrebbe portato a opere come Candy Candy di Kyoko Mizuki e Yumiko Igarashi e Georgie sempre di Yumiko Igarashi e Mann Izawa.

Zaffiro è la guerriera che combatte in prima persona le proprie battaglie e si pone a difesa dei più deboli, mostrando una tempra e una purezza di spirito pari se non superiore ai più nobili eroi maschi: in questo senso ispirò il personaggio di Lady Oscar di Riyoko Ikeda e di rimando è stata l’antesignana di Utena la fillette révolutionnaire dei Be-Papas, ma anche delle combattenti dello shojo majokko come le guerriere Sailor di Naoko Takeuchi e le eroine di Magic Knight Rayearth delle CLAMP.

Zaffiro ha una bellezza androgina che attira l’attenzione di tutti e tutte, e le sue caratteristiche sia maschili che femminili la espongono ai pregiudizi e a un destino difficile: anche in questo senso ha ispirato Lady Oscar e i personaggi androgini e tragici di Moto Hagio, Keiko Takemiya e delle altre autrici del Gruppo dell’Anno 24, che hanno introdotto la tragedia e i grandi conflitti nello shojo e di fatto fondato il manga boy’s love.

Infine, con i suoi due cuori, Zaffiro può incarnare un’identità capace di travalicare le tradizionali distinzioni di genere e non definibile con pronome maschile o femminile. In questa chiave, decisamente più moderna e percepita come affine alla sensibilità LGBTQ+, la serie di Tezuka ci fa intravedere un futuro, speriamo non troppo lontano, in cui il vero lieto fine sarà la libertà di vivere e amare senza dover rinunciare a nessuna parte di sé.

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