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RayBot, la prima AI sviluppata da un fumettista

Tendenze e direzioni della pop culture viste da chi non riesce a farne a meno, anche se vorrebbe. "Sofisticazioni popolari": una rubrica di Fumettologica a cura di Marco Andreoletti. Il giovedì, ogni 15 giorni.

Screenshot della home page di RayBot

Qualche tempo fa parlavamo della intelligenza artificiale come del Bimby della creatività. Non si trattava di una provocazione fine a sé stessa, quanto di un tentativo di spiegare come l’arrivo dei vari ChatGPT o Midjourney all’interno del processo produttivo e/o creativo potesse avere diversi livelli di integrazione. Mi spiego meglio, partendo proprio dalla nostra metafora gastronomica. 

Ho un fratello che per diverso tempo ha lavorato come cuoco in ristoranti stellati. Una delle costanti in questi ambienti era la presenza del suddetto robot da cucina. Superficialmente la cosa mi aveva stupito, considerandolo un modo rapido e poco dispendioso per cucinare piatti completi inserito in un contesto che racconta esattamente il contrario. In realtà la spiegazione era, tanto per cambiare, più complessa. Il vero utilizzo del miracoloso utensile era quello di ottenere in maniera quasi automatica semilavorati che sarebbero poi stati inseriti in lavorazioni estremamente tecniche e delicate. I cuochi affidavano alla macchina il lavoro da manovali per concentrarsi unicamente sulle parti in cui la loro presenza era davvero indispensabile. 

Messo in questo modo, l’utilizzo del Bimby passa da essere una furbata a discapito dell’utente a un elemento indispensabile per ottimizzare i flussi di lavoro. Esisterà sempre chi lo userà per cucinare interi pasti – per mancanza di tempo, voglia o passione – ma i risultati saranno ben diversi rispetto a quelli di chi lo usa in un insieme di processi ben più strutturato. Magari limitandone l’utilizzo alle parti in cui la sua presenza è meno indispensabile e liberando importanti riserve di tempo per gli aspetti che richiedono per forza di cose la presenza di un umano dotato di intuito affinato in anni di pratica e competenze slegate dal mero calcolo procedurale. 

Si tratta di un concetto complesso, che Antonio Dini spiegava in questo articolo della sua rubrica And So What?. Da qualche tempo a questa parte infatti, dopo la sbornia iniziale, finalmente le cose cominciano a ingranare, e le differenze tra chi è in grado di capire come sfruttare le AI per rafforzare la propria creatività e chi invece vuole semplicemente fare il furbo stanno emergendo in maniera definitiva.

Chris Onstad è l’autore del webcomic di culto Achewood. Dopo aver attraversato una decade di intensa popolarità all’inizio del millennio, la striscia ha cominciato a perdere lettori, complice anche la stanchezza dell’autore e l’incapacità di rispettare la pubblicazione quotidiana. L’estrema attenzione al linguaggio da parte del fumettista gli richiedeva, a detta sua, qualcosa come 8-16 ore di lavoro per una singola pagina. Nonostante il tratto crudo e volutamente svogliato dei disegni si trattava di un ritmo alla lunga difficilmente sostenibile. 

Aggiungiamo a questa parabola la cancellazione – in seguito ai rincari post-Covid – dell’edizione cartacea definitiva della striscia e una demo della serie animata realizzata in collaborazione con Pendleton Ward (quello di Adventure Time e The Midnight Gospel) presentata a Netflix nella settimana in cui la piattaforma ha subito il peggior calo di utenti di sempre. Non proprio il terreno più fertile per sperare che i propri sforzi dessero i frutti sperati. Soprattutto se si parla di una serie animata il cui protagonista è un gatto in perizoma ludopatico e logorroico, la cui pensata migliore è aver venduto l’anima al diavolo per avere successo nel mondo della musica pop.

L’autore non si è perso comunque d’animo. Ha da poco aperto il proprio Patreon e, soprattutto, in collaborazione con un team di ingegneri, si è sviluppato la propria intelligenza artificiale: RayBot. Un Large Language Models addestrato con più di vent’anni della produzione di Onstad, dalla striscia passando per il blog, i vari post e tutti i lavori rimasti nel cassetto. Grazie a questa pensata ora abbiamo l’occasione per avere dritte e consigli direttamente da Ray Smuckles, il gatto di cui parlavamo prima, nonché uno dei protagonisti del fumetto, con una voce incredibilmente simile a quella utilizzata da questo in due decadi di strisce. 

Al di là di questo buffo esperimento iniziale, l’idea a lungo termine dell’autore è quella di avere un aiuto in caso di sindrome da pagina bianca. Che non significa delegare del tutto il proprio lavoro di scrittura all’intelligenza artificiale ma, proprio come in una cucina stellata, di avere dei semilavorati su cui fare in seguito il lavoro di fino. Magari stravolgendoli completamente. In altre parole l’AI per ora gli fornisce un simpatico spin-off interattivo, più avanti idee e spunti per nuove strisce. Su cui, per sua stessa ammissione, l’autore non rinuncerebbe mai a rimetterci mano per arrivare esattamente dove vuole lui.

L’aspetto davvero interessante della faccenda è l’avere scelto con estrema precisione con cosa nutrire il nuovo assistente, garantendo una totale attinenza al desiderato e al contempo limitando il problema del diritto d’autore. Secondo Chris Onstad, quanto restituito dalla macchina è così simile a quanto avrebbe scritto lui da utilizzare l’aggettivo “eerie” per definire la sensazione provata durante le prime letture. 

Termine portato alla ribalta dal visionario Mark Fisher nel saggio The Weird and the Eerie e mai popolare come in questo momento, potrebbe essere tradotto come “inquietante” e si riferisce all’assenza di qualche elemento in un contesto in cui lo daremo per scontato. In questo caso parliamo dell’autore fisico in un contesto di creatività difficilmente riconducibile a un algoritmo. La precisione della macchina si farà sempre più affidabile, ma per adesso la presenza di qualche umano che la indirizzi e ne scopra nuovi utilizzi è indispensabile. Anche in forma di documentazione pregressa.

Qualche mese fa ha suscitato molto interesse il video Harry Potter by Balenciaga, in cui l’intelligenza artificiale univa in un maniera buffa e al contempo inquietante il Wizarding World della Rowling e il severo e austero immaginario di Demna Gvasalia, direttore creativo di Balenciaga. Si tratta, senza mezzi termini, di un piccolo capolavoro di acume e contemporaneità, tecnicamente perfetto e dalla forza iconica indiscutibile. Infatti, senza nessuna sorpresa, è diventato immediatamente virale, causando la consueta esondazione di cloni a cui Internet ci ha abituato nel caso una singola idea di successo. 

E, con ancora meno sorpresa, la totalità di questi epigoni sono terrificanti. Non c’è la classe della scelta dei punti di partenza, la lucidità nel mischiare universi estetici lontanissimo, il sottile umorismo né tantomeno la competenza tecnica. Nel giro di qualche giorno si è arrivati al salto dello squalo, nonché a una delle regole auree del web: quando qualcosa viene rifatto come se l’autore fosse Wes Anderson, allora il filone si è esaurito. Definitivamente.

Indagando sul processo creativo che ha portato al prototipo di questa serie, viene a galla che, dopo avere avuto un’idea creativa indiscutibilmente efficace, l’autore ha dovuto integrare quattro diverse AI lavorando in maniera non certo scontata e non proprio accessibile a tutti. A questo punto quanto possiamo lamentarci che abbia utilizzato un’intelligenza artificiale? Rimane scottante – e parecchio – il problema della proprietà intellettuale, ma sul valore creativo di quanto prodotto c’è ben poco da discutere. Siamo già molto lontano dalle prime gallerie di Midjourney, sbandierate da aspiranti artisti dopo aver buttato giù prompt approssimativi e accontentandosi dell’ennesima immagine sognante e/o apocalittica. 

Adesso siamo metaforicamente arrivati nella fase del boom della colorazione digitale dei fumetti negli anni Novanta, funesto periodo in cui tutti i comic pubblicati esibivano le stesse tinte sintetiche ed esagerate. Per la maggior parte dei coloristi era lo strumento a comandare – i più anziani di voi ricorderanno bene questa coppia di sciamannati e la loro influenza su tutte le uscite di Image Comics – ma chi aveva imparato a gestirlo stava già passando al livello successivo. I risultati li vediamo oggi, dove il carattere esplicitamente digitale dello strumento non è più preponderante e i vari disegnatori hanno imparato a piegarlo alla propria visione. 

Oggi forse possiamo riconoscere il software utilizzato per un render 3D – Octane piuttosto che V-Ray o Unreal Engine – ma se rimaniamo in ambito 2D e limitiamo l’uso di pennelli specifici è davvero difficile distinguere un software dall’altro. Il processo produttivo è maturo e piegato alla visione dell’artista. Non so se funzionerà così anche con le AI, ma la speranza è quella. 

Prendiamo il finto disco degli Oasis – targato Aisis – pubblicato ad aprile. Si tratta di un album suonato e registrato da un’autentica band, una di quelle con le persone vere, le cui tracce vocali sono state generate da una AI in modo da riprendere le tipiche sonorità del gruppo di Manchester. Parliamo quindi di un progetto che ha richiesto una discreta quantità di tempo e fatica, eppure alla fine rimane poco più di un demo di una cover band, impossibile da scambiare per un lavoro autentico. Intelligenza artificiale o no. I protagonisti di questa impresa probabilmente si sono divertiti parecchio nel confezionare il disco, ma dubito che nei loro piani ci fosse l’intenzione di mettere in scacco l’industria musicale. 

Sono ancora in pochi gli artisti con la maturità del fumettista Chris Onstad, desiderosi di studiare le possibilità di questa tecnologia per portare avanti un discorso personale di cui vogliono affidare a risorse esterne solo gli aspetti più meccanici. Il suo percorso non è certo alla portata di tutti – anche solo per l’immane quantità di materiale d’archivio su cui ha potuto lavorare -, ma si tratta di certo di un primo passo in una direzione alternativa rispetto all’accettazione acritica e il rifiuto aprioristico. Vedremo dove ci porterà.

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