
Riavvolgiamo un attimo il nastro. Ce n’è bisogno, datemi retta. Spider-Man: Un nuovo universo è il film d’animazione del 2018 di Sony che racconta le avventure del personaggio in versione Miles Morales, creato da Brian Michael Bendis (testi) e dall’italiana Sara Pichelli (disegni), sotto la supervisione di Axel Alonso. Trasposto in film animato in computer grafica, il loro Spider-Man si ritrova a dover salvare il multiverso (chiamato Spider-Verse) e al tempo stesso risolvere i conflitti personali (in particolare l’affetto per lo zio graffitaro Aaron Davis, alias il criminale Prowler), prima di tornare in un infelice isolamento, tagliato fuori soprattutto da Gwen Stacy (alias Spider-Gwen), tornata nella sua dimensione alternativa.
Il film diretto da Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman è andato alla grande e ha dimostrato le potenzialità non solo di narrazioni di ulteriori Spider-Man diversi da Peter Parker, ma anche quelle di portare un tipo di animazione molto complessa, ricca di suggestioni visive, sul grande schermo. Dentro lo Spider-Verse non solo Miles Morales trova mondi paralleli tutti abitati da altri uomini ragno (che non sono necessariamente uomini), ma trova anche il modo di stupire e divertire gli spettatori con un montaggio incalzante, disegni sempre più esplosivi e camei e citazioni come se non ci fosse un domani, alternando commedia fisica acrobatica a scambi intensi e pieni di dubbi e insicurezze, come si conviene a un giovane adolescente.
C’è poi la parentesi della pandemia (quella vera, nel nostro mondo) che rallenta un po’ tutti, e il sequel arriva solo adesso. Anzi, la prima metà del sequel, perché chi vorrà andare al cinema a vedere Spider-Man: Across the Spider-Verse, scritto da Phil Lord, Christopher Miller e David Callaham e diretto da Joaquim Dos Santos, Kemp Powers, Justin K. Thompson, andrà a vedere solo la prima metà di una storia che si concluderà a marzo 2024 con una seconda parte intitolata Spider-Man: Beyond the Spider-Verse.
E adesso la recensione vera e propria. Senza spoiler, come tradizione di queste prime prese di contatto con i filmoni Marvel (anche se in questo caso è un filmone Sony). Ebbene, com’è Spider-Man: Across the Spider-Verse? Mi sono fatto un’idea del suo significato e ve la spiego alla fine, ma vi dico una parola sola: “adolescenza“.
Iniziamo dicendo senza problemi che questo è un gran film, non c’è che dire, e sicuramente ha una identità molto definita, sia dal punto di vista narrativo che visivo e tecnico. Però non è scevro da problemi. È uno di quei casi in cui è stato fatto tutto bene, ma il problema è la somma delle parti. Cioè il risultato non torna, anche se le premesse ci sono tutte. Mancano gli errori ma viene mancato anche il centro del bersaglio.
Partiamo dalla produzione: Spider-Man: Across the Spider-Verse ha un cast da paura. Nonostante la visione per la stampa fosse purtroppo con una versione doppiata in italiano (e doppiata male, aggiungiamo), passa la molteplicità di attori e identità che vengono rappresentate. È un film di “minoranze”, di marginalità, di Brookyln, di Porto Rico e di neri d’America. Ma è anche un film di cultura metropolitana ispanica e di teenager, di fluidità di genere, di posizioni non binarie, di varietà delle identità che, grazie allo Spider-Verse (il modo con cui gli uomini ragno definiscono il loro multiverso personale), sono ancora più possibili.
Tutto questo viene schiacciato da un doppiaggio banalmente interpretato e senza alcuna scelta autoriale. Si sente solo uno scialbo accento genericamente romano come unico colore delle voci dei nostri doppiatori, che faticano a portare avanti le battute in spanglish e che comunque ripuliscono toni e accenti rendendo bianco e nero quello che era un arcobaleno di accenti da ghetto, connotati non solo etnicamente e spazialmente, ma anche per generazioni diverse. Se c’è un modo per perdere il 25% del gusto di guardare un film è un doppiaggio-anestetico-killer come questo: appiattirebbe anche l’Amleto e porterebbe al suicidio Spike Lee. Si poteva fare diversamente? Non lo so. Ma so che fatto così mi ha ammazzato un quarto della gioia.
Passiamo alla parte grafica: spettacolare, da urlo, tanta roba. C’è molta più ambizione, coraggio, desiderio di stupire, ricerca di carichi visivi che devono infilzare con un unico colpo tre tordi: quello delle ambientazioni “pazze” (ogni multiverso è decisamente un po’ diverso dagli altri, oppure molto); quello delle emozioni sulla scena (soprattutto nel mondo di Miles Morales le colorazioni esplodono o implodono a seconda del mood); e quello delle citazioni (una tonnellata e mezzo anche qui, con una tecnica mista che richiama le ambientazioni originali dei singoli personaggi).
Spider-Man: Across the Spider-Verse ha talmente tanti effetti, tagli di inquadratura, di montaggio, di regia, che alla fine diventa quasi impossibile orientarsi. È un film da seguire al rallentatore per giocare al citazionismo oppure da lasciar andare anche a 2x e goderselo come un unico viaggio lisergico. È computer grafica che imita tutti gli stili di disegno possibile, includendo a mo’ di trompe-l’œil anche immagini di ripresa veristica (con gli esseri umani “veri”). E lo fa con talmente tanto dettaglio, svasatura, travasi di colori, effetti grandi e piccoli, sottolineature, mix di citazioni di stili visivi, che spesso sembra di guardare un film in 3D senza gli occhialini. Straniante.

Veniamo alla trama: è una storia “teen” di ricerca dell’identità, di giovani che vogliono essere guardati dai loro genitori e di genitori che vogliono imparare a esserlo (genitori) e a lasciar andare i propri figli. È una storia complessa, in cui in realtà c’è un solo elemento originale e significativo da notare: il tessuto stesso dello Spider-Verse è talmente complesso e confuso che le famiglie e le coppie sono tutte straordinariamente tradizionali, atomiche, vecchio stile conformista e parecchio binario. Tradizionalista, dunque? No, per niente. È la somma degli Spider-Versi a rimettere in sincrono il mondo digitale con la realtà fluida dei tempi moderni.
Questo è un modo strategico e straordinariamente accattivante di acchiappare le audience sia più “edgy”, cioè più ingaggiate nelle sottoculture contemporanee da GenZ che stanno rimettendo in discussione i generi oltre che i ruoli delle persone, che quelle meno “edgy” e più tradizionali, magari perché appartengono a gruppi sociali, demografici, cluster di età o paesi in cui «non siamo avanti come nella periferia urbana degli USA».
La storia, però, è di una noia e di una insistenza strazianti, che fanno gridare anche i gatti in amore sui tetti in una notte senza Luna. Il dramma “teen” all’ennesima potenza, tutto fatto di prese di posizione, atteggiamenti, smorfie, controsmorfie, chiusure, non comprensioni, bei discorsi, rabbie adolescenziali. Questo tornerà utile da tenere a mente tra un attimo.
Prima tiriamo la somma. Anzi, la somma delle parti: che è inferiore ai singoli pezzi. Cioè, qui il film ha tutti gli elementi per essere un gran filmone di genere, un’avventura del buon vecchio Arrampicamuri, l’amichevole Spider-Man di quartiere, con tutti gli effetti speciali del caso e un cast all’altezza e una regia da paura e una tonnellata di battute sarcastiche e sprezzanti e pure quel milione di citazioni che ti viene il dubbio non ci sia più una comparsa ma siano tutti tutti tutti ma proprio tutti delle persone-citazione di qualcos’altro. Ma il totale non torna.
Sapete cosa? Ora ve lo dico. È che Spider-Man: Across the Spider-Verse è un film fatto di ormoni dell’adolescenza. “Fatto” nel senso di “stra-fatto”. A prescindere dalla generazione, a prescindere da etnia e cultura, il tono psichedelico-totale del film, dal montaggio accelerato agli improvvisi e intollerabili tempi morti che farebbero morire di noia un branco di lumache rinchiuse in una gerla di vimini, è tutto una clamorosa ode allo sbilanciamento ormonale dell’adolescenza. È un gonzo-movie, un lunghissimo camera car, un Paura e delirio a Las Vegas lasciato in mano a un’intelligenza artificiale fatta di brutto. È psichedelico, sì, ma di una psichedelia non artificiale.
Alla fine, è questa la spiegazione più razionale: per farci stare dentro tutto e tutti, per tenere Gwen come protagonista finta-non-binaria-ma-in-realtà-molto-binaria, per mettere lo Spider-Man di mezza età che fa il papà e l’altro Spider-Man ispanico adulto e cazzuto e disperato e in realtà molto cattivo (ma forse no), per tenere assieme tutto uno mondo di personaggi palesemente distorti sia nelle inquadrature che nelle scelte cromatiche che nei tempi di comportamento che nelle fattezze fisiche, è evidente che dietro ci deve essere un sottotesto. Una ragione, un motivo. E la spiegazione più razionale è che è tutto un grandissimo Ulisse di James Joyce, uno Straniero in terra straniera in soggettiva che racconta cosa provocano al cervello di un adolescente l’esplosione dello sviluppo corticale che gli ormoni e le altre cose che succedono durante l’adolescenza, più una probabile allergia alle graminacee.
Spider-Man: Across the Spider-Verse è un viaggio lisergico e simbolico, una cosa tipo Il piccolo grande uomo quando va nella tenda dei capi e si sballa di brutto, solo che qui avviene grazie agli sbilanciamenti delle sostanze prodotte dal corpo che vanno in circolo e mandano tutto in tilt. Tra l’altro, non c’entra ma è evidente che nessuna intelligenza artificiale sarà mai veramente intelligente fino a che non passerà per questa fase dello sviluppo: il dramma dell’adocelscenza.
Quando sono uscito, con un gran mal di testa che le due ore e dieci del film non possono non provocare, pur nella certezza di aver provato in prima persona l’adolescenza di un’altra persona (e alquanto diversa dalla mia, se non altro perché da me non c’erano l’uomo dei buchi o lo Spider-Verse), affiora in modo spontaneo un pensiero: dev’essere così che si sentivano le biglie d’acciaio dei flipper di una volta.
Già. Le biglie d’acciaio dei flipper. Sbattute di qua e di là come se non ci fosse un domani. A chiedersi perché in Spider-Man: Across the Spider-Verse tutta questa gente sia sempre così agitata o preoccupata o arrabbiata o esasperata o disperata. E nessuno si metta mai seduto a leggersi magari un libro o magari anche un fumetto, perché no. Leggere rilassa la tempesta inferiore, lo sturm und drang che a 15 anni ti mangia l’anima e ti fa sentire tutto e il contrario di tutto con una forza incontrollabile, come se cadessi tra Spider-Versi che stanno esplodendo in slow-motion, preda di trasformazioni continue, vittima di rabbie incontenibili e paranoidi. Date retta a uno che ci è già passato e ci ha provato con un moderato successo: leggetevi un fumetto. Aiuta molto. Il film? Bah, mica tanto.
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