Will McPhail, dalle vignette per il New Yorker al graphic novel

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Will McPhail disegna Hobbes in omaggio a Bill Watterson al Salone del libro di Torino | Foto di Andrea Fiamma per Fumettologica

Giovane ma già popolare vignettista per il New Yorker da alcuni anni, lo scozzese Will McPhail ha debuttato in libreria nel 2021 con Entra., un graphic novel agrodolce che, attraverso le vicende quotidiane del disegnatore Nick, prova a raccontare l’incomunicabilità tra le persone e la difficoltà a entrare davvero in contatto con gli altri.

Entra. è arrivato da poche settimane in Italia grazie a Tunué, che ha portato Will McPhail in giro per l’Italia a promuovere il libro, passando anche al Salone del Libro di Torino, dove il fumettista si è fatto subito riconoscere per la sua vivacità. Durante uno degli incontri, per esempio, dopo ogni risposta aggiungeva frasi adulatorie o imbarazzanti da far dire alla propria traduttrice.

D’animo apparentemente solare (non stupitevi se leggendo questa intervista vi capiterà di leggere molto spesso “[ride]”), lo abbiamo incontrato per chiacchierare proprio durante il Salone del Libro di Torino per parlare del suo lavoro. Non prima di aver discusso della cosa più importante del mondo, ovvero…

Calvin e Hobbes, che ho letto essere tra i tuoi primi ricordi fumettistici. Sembra una barzelletta, perché ogni volta che scopro che piace a qualcuno dirotto la conversazione su quell’argomento.

Ti prego, parliamo solo di Calvin e Hobbes!

I tuoi primi fumetti letti però furono The Dandy e The Beano.

Sì, quelli furono proprio i miei primi fumetti. Mia mamma mi prendeva gli speciali di Natale ogni anno. Ma a parte quelli, ho letto solo Calvin e Hobbes da quando avevo 5 anni fino ai 15. Davvero, non leggevo nient’altro. Conosco ogni striscia, ogni vignetta, ogni battuta.

Come l’avevi scoperto?

Me lo fece conoscere mio zio, che è un artista della natura, dipinge paesaggi e animali, un vero pittore insomma. Nel Regno Unito è uscita una raccolta delle mie vignette per il New Yorker, intitolata Love & Vermin, e in apertura del libro ho inserito una citazione tratta da Calvin e Hobbes. Per farlo ho chiesto l’autorizzazione a Bill Watterson, e lui ha acconsentito. Ne vado molto fiero.

Probabilmente è la cosa più vicina a un incontro con lui.

Sì, certo. Ottenere un cenno di approvazione da Bill Watterson, che grande momento. [ride]

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La copertina di “Entra.”, il graphic novel di Will McPhail (Tunué)

Nel documentario Dear Mr. Watterson c’è un aneddoto che mi fa impazzire: Stephan Pastis racconta che Watterson, con cui stava collaborando per una manciata di strisce, non voleva che lui avesse il suo numero di telefono.

Quell’uomo è un vero enigma. Ci penso spesso. Ovviamente le sue capacità artistiche sono fuori discussione, ma mi affascina anche il suo lato umano. Il suo atteggiamento verso la commercializzazione della striscia è interessante. In linea di massima condivido la sua posizione. Ma penso, egoisticamente, che da bambino – ma perfino adesso da adulto – sarei impazzito per un peluche di Hobbes. E non penso che l’esistenza di quel giocattolo avrebbe rovinato la reputazione della striscia.

Watterson avrebbe potuto, in maniera oculata, concedersi al mercato, perché non avrebbe inficiato la qualità del suo lavoro. Non stiamo parlando di Calvin e Hobbes che si mettono a fare la pubblicità delle carte di credito. Non ci vedo nulla di male in un po’ di merchandising, se fatto con gusto.

Parlando di Calvin e Hobbes, in Entra. c’è questo salto visivo tra la normalità della vita di Nic, in bianco e nero, e i momenti in cui riesce a entrare in contatto con gli altri, a colori. Dopo aver concluso il libro, sono tornato a leggere Calvin e Hobbes e mi sono trovato davanti le strisce in cui Calvin fantastica ad occhi aperti, mentre è a scuola, immaginando di guidare un’astronave o di essere nel periodo giurassico, per poi ritrovarsi di colpo in classe. E mi sono reso conto di aver fatto la stessa cosa nel mio libro. [ride] Quindi, forse, ho inavvertitamente copiato Calvin e Hobbes, anche se io ho proiettato quell’idea sul piano emotivo.

Striscia preferita di Calvin e Hobbes?

Forse quella che ho usato come esergo in Love & Vermin [ovvero questa, Ndr]. È la classica scena in cui Calvin e Hobbes passeggiano nel bosco e discutono di un argomento estremamente profondo. In questo caso, parlano del perché l’uomo abbia sviluppato il senso dell’umorismo per l’assurdo e che tipo di beneficio evolutivo sia. E la risposta è che se non riuscissimo a ridere dell’assurdo non riusciremmo a reagire a gran parte delle cose che ci succedono nella vita.

Sei curioso di leggere il nuovo libro di Bill Watterson?

Certo, non vedo l’ora di leggerlo. Quello che spero è che apriremo il libro e dietro la copertina troveremo nuove strisce di Calvin e Hobbes. [ride] 

Se fai archeologia mentale, qual è il primo ricordo che hai dell’atto di disegnare?

Da piccolo ero molto appiccicoso, stavo sempre attaccato a qualcuno. Ho questo ricordo, che risale a quando avevo forse 5 anni, in cui vedo dei pastelli che nessuno stava usando e mi dirigo verso di loro, come attratto da una forza, sorprendendo anche i miei genitori, che erano abituati ad avermi sempre tra i piedi. Mi ricordo benissimo di essermi nascosto dietro un divano bianco e aver cominciato a disegnare, come se fosse un’enorme tela, con questi pastelli rossi e blu. Mi ricordo proprio la sensazione fisica, materica, del pastello di cera sul tessuto mentre viene deturpato dai colori.

Credo di aver passato la gran parte della mia vita adulta a rincorrere le sensazioni provate durante l’infanzia, cercando di riviverle. Quella del bambino è la versione più divertente di sé stessi. E quando disegni ti ci avvicini molto, come in una sorta di meditazione. È molto liberatorio.

Will McPhail (sinistra) dialoga con Igort (centro) durante un incontro con il pubblico al Salone del libro di Torino moderato dal giornalista di Repubblica Luca Valtorta (destra) | Foto di Andrea Fiamma per Fumettologica

Tu poi da adolescente i fumetti li hai abbandonati, ma hai continuato a disegnare. Come si è sviluppato il tuo segno?

In quegli anni disegnavo copiando Bill Watterson, in pratica. E poi credo che la scoperta del New Yorker sia stato un momento di svolta. Non era tanto il desiderio di essere sulla rivista ma di essere uno di quei vignettisti. Sai, tipo, come se fosse un titolo: “vignettista del New Yorker”.

Credo che quello abbia lentamente influenzato il mio stile. Ho smesso di disegnare gli occhi a puntini come li faceva Bill Watterson e ho iniziato a ingrandirli finché non sono andati fuori controllo. E la ragione per quella caratteristica è perché sono ossessionato dal disegnare l’emozione precisa che voglio rappresentare. Più grandi sono gli occhi più spazio ho per modulare la linea che traccia un sopracciglio o una palpebra quando si muovono. E poi ovviamente, come dicevo, sono stato influenzato dallo stile dei vignettisti del New Yorker.

Però il tuo stile mi sembra distante dallo standard del New Yorker.

Sì, è un po’ più elaborato rispetto a stili più bambineschi, nel senso positivo del termine, come quello di Liana Finck, per esempio. La verità è che mi piace tantissimo l’atto del disegnare e del dipingere e quindi mi prendo il mio tempo per godermi il momento vero e proprio dell’esecuzione. E questo porta, in maniera naturale, a immagini più curate, perché avevo voglia di realizzarle.

Nell’economia generale del mio tempo, quando lavoro per il New Yorker passo una settimana a scrivere battute e idee, come se fosse un flusso di coscienza, e poi due giorni a disegnare le vignette. Ho sempre avuto una buona coordinazione occhio-mano e so perfettamente cosa devo disegnare.

Il tuo percorso di studi non è stato artistico, dato che hai studiato zoologia, come mai?

Perché quando chiedi a un diciassettenne cosa vorrebbe fare per il resto della sua vita, prenderà sempre la decisione migliore, no? [ride] Non so, ho frequentato un istituto d’arte per due anni prima dell’università e l’ho detestato. Non mi piaceva proprio, non so se era per colpa dei professori o del metodo d’insegnamento, ma l’esperienza mi fece desistere dall’iscrivermi a delle università artistiche.

Inoltre ho sempre avuto il dente avvelenato nei confronti di questa idea che bisognasse chiedere il permesso per fare i creativi. Non ho mai pensato servisse il permesso, un attestato o una carriera accademica che certifichi le tue doti creative. Quindi pensai «non frequenterò l’accademia di belle arti, farò quello che mi piace e basta». Dato che volevo comunque andare all’università e mi piacevano gli animali scelsi la laurea in zoologia a Glasgow. Peccato che, invece di stare attento a quello che diceva il professore, passassi tutto il tempo in aula a disegnare.

E poi come sei finito a fare il fumettista?

Mentre ero all’università, per pagarmi gli studi, iniziai a vendere i miei disegni ai giornali inglesi. Ne mandai qualcuno a Private Eye, che è un giornale satirico inglese, e me li comprarono. E da lì mi feci strada fino al New Yorker. Ho mandato tonnellate di vignette di merda al New Yorker prima di riuscire a fargli pena e farmele accettare. [ride]

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Una tavola da “Entra.” di Will McPhail (Tunué)

Che esperienza è stata lavorare a Entra.? È stato come allenare muscoli diversi del corpo? 

È stato un cambio di passo complicato ma liberatorio. Non perché avessi, letteralmente, più spazio sul foglio, ma perché cercare di essere divertente in una vignetta, presentare un mondo, la premessa e la battuta, in una sola immagine può diventare sfiancante dopo un po’. Invece con un fumetto potevo prendermi il mio tempo e non essere a tutti i costi divertente ogni singolo momento.

Una pagina è un organismo molto più complesso di una vignetta. Come hai gestito tutte le scelte che richiede una tavola?

Quando hai una scadenza da rispettare prendi decisioni in preda al panico e correndo a mille all’ora. Cercare di razionalizzare quei momenti retroattivamente è difficile. [ride] La gran parte del tempo cercavo di disegnare quello che mi sembrava giusto in quel momento. Come obiettivo avevo quasi sempre quello di rallentare la lettura. Mi sono reso conto della profonda discrepanza tra il tempo che ci metto a disegnare una pagina, magari un giorno intero, e quello che ci passa sopra il lettore, due secondi. Per questo le mie scelte compositive erano tutte mirate a rallentare il ritmo e far concentrare lo sguardo su ogni vignetta.

La griglia è inoltre influenzata dai due stati del libro, quello in bianco e nero e quello delle scene a colori. Nel primo caso volevo costruire un mondo chiuso, rigido e costretto, che nelle scene a colori si apre a immagini di ampio respiro. In quelle sequenze volevo dare la sensazione di respirare per la prima volta.

Come hai sviluppato visivamente le scene a colori?

Ognuno di quei mondi è basato su luoghi che ho visitato, e ho cercato di associarli al mondo interiore dei personaggi.

Il più bizzarro è quello del nipote, in cui Nick è un idolo sacrificale di questa popolazione di mostriciattoli.

Io ho un nipote di quell’età e ogni volta che ci parlo mi sento in bilico tra l’essere adorato o sacrificato. Ero stato al Burning Man in America e mi piaceva quell’atmosfera da deserto pagano. Nel caso della madre di Nick, invece, siccome il protagonista scopre che sua mamma è una persona che non smette di esistere quando non svolge la funzione di madre, volevo un mondo che era il contrario di quello che ci aspetterebbe dalla maternità: strano, spaventoso, oscuro. Era appena uscito l’album di Phoebe Bridgers, Punisher, e ho usato i colori della copertina, rosso e blu, come ispirazione.

I bar nel tuo fumetto diventano dei personaggi, dei costrutti sociali al limite della malvagità.

Io ci vado spesso per lavorarci e uscire di casa, come fa Nick, e sono posti pretenziosi, dove tutto sembra una facciata posticcia. Nel libro sono specchi per il senso di vuoto di Nick ma, come dici tu, diventano poi personaggi a tutti gli effetti, quasi tragici nel loro tentativo di richiamare Nick tra le loro spire. Tra l’altro, Tunué è stato l’unico editore ad aver tradotto i nomi, a riprova che sono un aspetto importante della storia, a loro modo.

Molti autori quando disegnano i loro personaggi finiscono, anche involontariamente, per ritrarre loro stessi. Per te è così?

Un po’. Nick ovviamente mi assomiglia, ma credo che i personaggi mi somiglino nelle espressioni facciali. Il mio stato naturale è quello di una faccia presa dal panico, e i personaggi lo rispecchiano. Prima stavo autografando dei libri e mi sono reso conto che se disegnavo personaggi felici facevo una faccia contenta, mentre se disegnavo personaggi arrabbiati mi veniva un’espressione scontrosa in volto.

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Una tavola da “Entra.” di Will McPhail (Tunué)

Entra. è disegnato in digitale? 

Gran parte del libro è realizzato ad acquerelli su carta. Le scene a colori sono dipinte in digitale e in alcuni casi ho corretto al computer le tavole realizzate dal vivo. È stata una scelta logistica per rispettare le scadenze, era più pratico e veloce lavorare in digitale. Se avessi avuto tutto il tempo del mondo avrei disegnato tutto su carta. Anche perché così avrei più originali da vendere, che non fa male. [ride]

Per alcuni disegnatori serve anche a colmare delle lacune artistiche… anche se poi alla fine conta il risultato finale, se è valido o meno, a prescindere dai mezzi.

Penso che in alcuni casi ci sia un’enfasi eccessiva sull’aspetto pratico del disegno, che diventa una performance. Vedere qualcuno fare qualcosa. Mi importa poco dei mezzi, se il risultato è lo stesso. Il problema è che, per quanto mi riguarda, l’acquerello digitale non è ancora arrivato a un livello di simulazione che sia naturalistica abbastanza da rendere indistinguibili il digitale e la pittura dal vero. Il vero acquerello è troppo caotico per essere replicato alla perfezione da un pennello digitale. Probabilmente succederà in futuro.

L’idea della performance è centrale nel libro. Tu sei reduce da un bel tour promozionale qui in Italia, la stai vivendo anche in qualità di autore che incontra stampa e pubblico. Hai sentito la pressione di performare?

Sì, ovviamente. Se posso esser vulnerabile per un momento, la verità è che molti di questi giorni sono stati in bianco e nero, per usare la metafora di Entra.

Questo forse è stato un momento a colori.

Già. [ride] In generale, è stata come una maledizione del libro: ho trattato il tema dell’empatia e delle relazioni genuine e poi ne ho parlato in interviste condotte su Zoom, all’epoca dell’uscita in patria, o in situazioni dove è molto difficile entrare in contatto con le persone.

L’ironia è un modo che utilizzi nella tua vita per interagire con gli altri, come una coperta di Linus?

È interessante che tu me lo chieda, perché molte persone pensano che io sia Nick, visto che un po’ gli somiglio, e mi chiedono quanto ho messo di me stesso in lui, ma in realtà mi sento molto più vicino a Wren, che usa l’umorismo come modo di relazionarsi. Nick vuole disperatamente entrare in contatto con gli altri e odia chiacchierare, una cosa che invece a me piace fare.

Ogni personaggio ha un proprio modo di nascondersi e sottrarsi all’intimità. Nick è un osservatore che evita di prendere parte alle dinamiche e si limita a guardarle da fuori. Hannah, la mamma di Nick, è definita dalla sua maternità, mentre Wren usa l’umorismo come scudo, che è quello che faccio io tutte le volte.

È una cosa su cui dovrei lavorare, in effetti: smettere di trasformare tutto in una battuta. Non so se sia dovuto alla cultura o alla famiglia in cui sono cresciuto, ma è sempre stata la moneta più usata negli scambi sociali: sei spiritoso? Riesci a far ridere gli altri? Però devo dire che è anche stato utile in molte situazioni: ogni volta che sono triste, l’umorismo mi tira su di morale o mi aiuta a uscire da un momento buio. È un superpotere.

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