“Barbie” è un blockbuster sovversivo e postmoderno

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Se c’è un momento che abbraccia tutto il film Barbie, diventato nei suoi primi tre giorni in sala un clamoroso successo di botteghino, è a metà film (no spoiler sostanziali). In una scena, un voice-over, fatto in lingua originale dalla dame Helen Mirren, avverte: «Nota per i produttori del film: se volete dare a Barbie un’espressione imbruttita e depressa, non prendete Margot Robbie».

Barbie non è il film di Greta Gerwig e Noah Baumbach, non è il film di Mattel, non è il film della bambola-icona dalle due vite (prima strumento di sessismo e poi l’opposto, strumento di emancipazione femminile), non è il film del color rosa shocking o quello della migliore interpretazione resa finora da Ryan Gosling, attore che ha dichiarato di «essere nato per la parte di Ken». No, Barbie è un clamoroso film camp, un blockbuster sovversivo e postmoderno, citazionista e talmente intriso di materia “capitalistica” e “di genere”, da essere post tutto. Tutto tranne che la sua interprete e regina: Margot Robbie. Barbie è il film di Margot Robbie e Margot Robbie è Barbie.

Decostruiamo un attimo il film. Realizzato con i soldi della Mattel, mette alla berlina in maniera eccellente l’azienda, rendendola una coprotagonista “simpatica” del film (merito del talento lunare di Will Ferrell, anche se a tratti troppo lento). Scritto da Greta Gerwig e Noah Baumbach, il film è diretto dalla prima, che è una regista di film indipendenti bella arrabbiata e tosta, capace di dare spazio a figure di donne non convenzionali e totalmente non mainstream.

In Barbie Gerwig gioca con il femminismo, il patriarcato e gli ovvi limiti che un’ottica del disincanto fluido oltre che post-moderno introducono oggi in qualsiasi narrazione. L’autoironia è talmente forte da essere stata scambiata da alcuni critici per pacchiana o inesistente. Come se Gerwig si facesse prendere dal bisogno di fare tirate da femminista della seconda ondata in maniera totalmente priva di ironia. Chissà in che mondo brutto vivono questi recensori, appassionati scrutatori di dita puntate verso gli astri.

Gerwig imbastisce una storia dai toni paradossali, che serve a sottolineare una cosa: i ruoli di genere sono limitati, non assolvono più un significato univoco a livello individuale e sociale. Lo fa per accumulazione, non per sottrazione, perché tutto si può fare con Barbie tranne che un film minimalista di silenzi espliciti, di poca presenza e grande conseguenza. Invece no, tutto è messo fuori, spiattellato, esagerato: è nell’eccesso del grande parlare e mostrare che viene fuori il senso vero. Come con Arlecchino, che si confessò burlando. Un Arlecchino che è andato a scuola di sceneggiatura da Woody Allen.

Il film, lo sappiamo, alla fine è centrato su un giocattolo, sulla sua straordinaria parabola e trasformazione (oggi solo i “vecchi” sono rimasti alla Barbie intesa come uno strumento di sessismo anziché di emancipazione femminile) e sul suo essere prodotto dei prodotti, marchio dei marchi, arma di costruzione di tutti i possibili immaginari femminili commerciali e non. Barbie, si dice, non è per le cattive ragazze, o per le vere ragazze, o per le ragazzə.

Invece, Barbie è in realtà anche per loro: è la parte più difficile da accettare e integrare in una coscienza di genere che oggi viene profondamente rimessa in discussione dalle più giovani che rifiutano sistematicamente l’idea stessa di appartenenza necessaria a un genere. Ma Barbie (il film), con i suoi eccessi rosa shocking e le borse griffate sul serio e spiattellate in prima fila, con il suo essere mercato e commercio perché prodotto straordinariamente “eccessivo” e pulp è soprattutto una cosa. È “camp”, come la intendeva Susan Sontag nel suo saggio del 1964 Notes on Camp, quando spiegava che si tratta di un’estetica e uno stile artistico caratterizzato da un’eccessiva teatralità, esagerazione, ironia e spesso un’apparente mancanza di buon gusto.

Continuiamo a decostruire: Barbie è un film su un giocattolo e sui meccanismi del consumo. È un gigantesco product placement, perché l’unico modo per raccontare una storia che avesse senso in questo universo chiamato Barbieland era quella di testimoniare in maniera simbolica e sopra le righe tutto l’universo di stereotipi, inclusi i marchi, che popolano le nostre vite. I loghi delle femmine e i loghi dei maschi. Le borse griffate e i suv (messi al pari dei cavalli, se è per questo). Barbie è un film sul coraggio di scoprire chi siamo e accettarci come siamo, salvo poi cambiare il nostro mondo. Anche quando è tutto rosa.

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Per questo secondo me Barbie sta piacendo tanto al pubblico: piace alle ragazze, lascia perplessi alcuni ragazzi ma li fa anche piangere, e la scoperta del pianto fa parte del percorso di Barbie (intesa come personaggio). Ma soprattutto Barbie (intesa come film) è il capolavoro di Margot Robbie. Questo l’ho già detto ma va ripetuto perché, uscendo dal cinema nella calura screziata da chicchi di grandine grossi come palle da tennis, negli occhi uno non ha solo il rosa shocking o le favolose case di Barbieland o la carnalità di Venice a Los Angeles. No, uno negli occhi ha solo lei: Margot Robbie.

Nonostante ci sia chi veda il vero talento nella capacità di Gosling di definire pettorali e addominali come neanche Brad Pitt ai tempi d’oro, il quarantaduenne attore canadese a un certo punto si ferma. Forse anche per sottolineare i limiti del suo personaggio e il bisogno che ha di trovare una sua strada autonoma, ulteriore rispetto a Barbie. Invece, è la trentatreenne attrice australiana a dimostrare che questo è il suo progetto, il suo personaggio, la sua prova d’attrice. Lo fa tirando fuori una cosa che agli attori difficilmente si riconosce fino in fondo quando non è codificata in maniera canonica: la banda passante.

Di Clint Eastwood si diceva che avesse due espressioni, con o senza il cappello. Ma anche di Marlon Brando o di Robert De Niro si può dire che di personaggi dentro ne hanno due: intensi come il fuoco che ti ustionano o freddi come il ghiaccio ma che ti ustionano lo stesso. Trovare il lavoro pazzesco che viene fatto per costruire scene che poi vedono “scomparire” l’attore o l’attrice è difficilissimo. Perché quanto più il lavoro è ben fatto, quanto più diventa naturale e quindi invisibile per definizione lo sforzo e la bravura della recitazione. Margot Robbie è bionda, pelle incredibile, occhi fantastici e un fisico statuario: pensare che ci sia anche un lavoro di attrice dietro a Barbie vuol dire smettere di guardarla come un oggetto (che è quello che lei vuole per tre quarti del film) e appassionarsi alla sua prova d’attrice. E che prova d’attrice favolosa che sa dare.

La banda infinita di interpretazioni che Robbie riesce a veicolare, sempre controllata e sempre attenta a offrire la scena agli attori con cui la condivide, se è quello che cerca il suo personaggio, è enorme. Si va dalla plasticità inossidabile e perfetta di Barbie che si sveglia alla crescente fragilità, alla fisicità e materialità di una bambola che diventa donna, a un fisico tosto da ragazza capace di performare fisicamente meglio della maggior parte degli attori maschi (e mille volte meglio di Gosling, per essere sinceri), al modo convincente con cui guarda, reagisce e interagisce, piange, ride, si deprime. Barbie è la storia di una bambola che ha rappresentato con mille sfumature diverse il corpo di una donna, e Margot Robbie sa trasformare il suo corpo in Barbie Stereotipa.

Il film ‌Barbie mi è piaciuto davvero molto, se non si è capito. È facile fraintenderlo, nel senso di sottovalutarlo. Perché la sua estetica camp, le miriadi di citazioni (le prime e più riconoscibili: 2001: Odissea nello spazio, The Truman Show, Forrest Gump, Grease, ma anche Salvate il soldato Ryan e mille combattimenti corali dai film degli Avengers), la sua recitazione forzata, i dialoghi sopra le righe, l’umorismo disincantato e i momenti di commedia slapstick tolgono apparentemente valore a un lavoro potente, a una prova quasi teatrale nella sua bruciante intensità. Ma a fuorviarci è soprattutto la nostra mente. Quel lato del nostro cervello, sia per gli spettatori maschi che femmine, che partecipa agli stereotipi di genere. Perché Barbie può essere frainteso e criticato solo guardandolo come a un prodotto, come a un film su un oggetto di consumo, come diminuzione di una condizione esistenziale prima ancora che sociale e biologica. Confondendo il simbolo con la bambola, insomma.

In realtà Barbie è, nel bene e nel male, in maniera apertamente contraddittoria, un monumento e una tappa fondamentale della nostra società. È un simbolo che racchiude tanti simboli la maggior parte dei quali luridamente commerciali, molti dei quali straordinariamente importanti e ricchi di significati per milioni di bambine e milioni di donne (ma anche per milioni di bambini e un po’ meno uomini). È un prodotto commerciale? Certo. Mattel è una multinazionale che cerca di aumentare il profitto a costo di massaggiare e rimodulare la società contemporanea? Certo. Tuttavia Barbie è enorme, rappresenta i sentimenti e le emozioni di una intera società. E Margot Robbie è l’unica attrice capace di interpretarla, sia per la perfezione estetica che mette in capo che per la recitazione quasi ultraterrena e la potenza fisica straordinaria.

Non fraintendetemi, ma l’attrice australiana ha un’estensione che va dalla Jennifer Lawrence di Hunger Games e ‌Il lato positivo – Silver Linings Playbook alla Marilyn Monroe di Gli uomini preferiscono le bionde, con molte altre cose nel mezzo. È straordinaria e restituisce senza paura un personaggio iconico, cioè Barbie, che per qualunque altra attrice sarebbe stato semplicemente impossibile da interpretare. Lo fa con coraggio e determinazione, da prima della classe, commuovendo e provocando. Suscitando divertimento, affetto, ironia, antipatia. Lo fa lasciando alla fine la sensazione che esista una donna, come Barbie, che è bella, alta e sorridente in maniera quasi insopportabile. Ma non per questo non è una donna, non per questo non è una persona. Il film di Barbie a mio avviso è tutto dentro Margot Robbie e la sua straordinaria Barbie che da bambola diventa simbolo che diventa una donna, cioè una persona. Scusate se è poco.

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