«Fare un fumetto è mettere il cuore sulla pagina»: intervista a Daniel Warren Johnson

Daniel Warren Johnson è uno sceneggiatore e disegnatore statunitense che negli ultimi anni ha realizzato fumetti come Space Mullet, Murder Falcon, The Ghost Fleet. Il convoglio fantasma ed Extremity. Oltre alle opere personali, Daniel Warren Johnson si è distinto per lavori per Marvel e DC Comics come Wonder Woman: Terra morta, Beta Ray Bill: Stella d’argento e Jurassic League: Giustizia preistorica.

Come ha scritto Andrea Antonazzo, i suoi lavori sono animati da uno «stile sempre esagerato nel rappresentare le scene d’azione, ma allo stesso tempo dotato di un equilibrio formale e una leggibilità invidiabili da quasi chiunque altro». Il fumettista è stato presente a Comicon Napoli 2023 grazie al suo editore italiano, saldaPress, per presentare la sua ultima fatica, Do a Powerbomb!, il racconto di una giovane wrestler impegnata in un torneo intergalattico.

Una passione, quella per il wrestling, che l’autore ha maturato guardando gli incontri trasmessi in televisione a notte fonda, mentre accudiva la sua primogenita neonata. Non a caso, in Do a Powerbomb!, il rapporto tra figli e genitori è il motore della storia, mischiato a sequenze degne di uno shonen. Come tutte le altre sue opere, Do a Powerbomb! trasuda un entusiasmo incontenibile e una sfacciata allegria, le stesse che sembra possedere Daniel Warren Johnson dal vivo.

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La copertina dell’edizione italiana di “Do a Powerbomb!” edita da saldaPress

Su Internet non ho trovato la tua data di nascita.

Sono nato nel marzo del 1987… ho 36 anni.

Questo tornerà utile a Wikipedia. Ti senti l’età che hai?

Ho due figli, quindi mi sento vecchio. Magari quando cresceranno mi sentirò più giovane. [ride]

Se fai archeologia mentale della tua infanzia, qual è il primo ricordo relativo all’atto del disegnare?

Credo che risalga alla prima elementare. All’epoca guardavo i Power Rangers in tv e ricordo che disegnavo tantissimo il Power Ranger rosso. 

Però a un certo punto hai smesso con i fumetti.

Sì, al liceo. Leggevo molti fumetti di supereroi e mi avevano stancato. Poi all’università un mio amico mi fece conoscere una serie di titoli, come i fumetti di Mike Mignola, All Star Superman di Grant Morrison e Frank Quitely, che all’epoca era appena uscito, The Walking Dead, Invincible… Tutte opere che proponevano nuovi sguardi su idee già esistenti e che mi fecero tornare ad amare i fumetti.

Ho letto che la scintilla che ha acceso la passione è stata Calvin e Hobbes, di cui però, quando eri lettore, non hai mai disegnato una tua versione perché ti sembrava troppo difficile. Quando sei diventato un fumettista ci hai più provato?

Sì, ho fatto dei disegni su commissione, ed è stato bello farli, ma… c’è solo un modo per disegnare Calvin e Hobbes ed è il modo di Watterson. Se sbagli anche solo un dettaglio viene un macello. Prendi per esempio il modo in cui disegna la bocca di Calvin: non è una linea continua, sono tratti sconnessi. Ecco, se tu provi a disegnarla con un unico tratto, diventa uno scherzo della natura.

Quando faccio le commission mi piace dare la mia interpretazione a qualsiasi soggetto mi venga richiesto. Con Calvin e Hobbes è impossibile. Deve essere esattamente quello. È divertente, perché lavorandoci ho cercato di capire perché il modo di disegnare che aveva Watterson funzionava così bene. E nel mentre, la mia ammirazione per la striscia non ha fatto che aumentare.

E che risposta ti sei dato?

Penso sia la sua abilità di distorcere e plasmare le figure e rappresentare il movimento attraverso l’inchiostrazione. Molte delle cose che leggevo erano statiche e ferme, e invece Watterson era in perenne movimento.

Nei suoi originali si vede che cerca di creare figure con perimetri aperti, cancellando l’inchiostro. Tu ripensi la tavola dopo l’inchiostrazione o sei uno da “buona la prima”?

Io uso un sacco di cancellina. [ride] Quando inchiostro, e non mi piace come sta venendo, prima di cancellare la matita, correggo subito l’errore con la cancellina. Ho l’abitudine di lasciarmi scoraggiare in fretta e abbandonare la tavola se vedo che non sta prendendo forma come voglio io, quindi cerco di rimediare il prima possibile. Uso davvero tanta cancellina.

Non ti piace il digitale?

Sto cercando di incorporare il digitale nel mio processo produttivo. Per esempio, i thumbnail o i layout di un numero o di una pagina li faccio sull’iPad, e spesso quando disegno le copertine faccio le matite in digitale e magari prendo i thumbnail e li ingrandisco, disegnandoci sopra. Quando pianifico le tavole di un albo, per capire la struttura delle pagine, le inquadrature e tutto il resto, voglio abbozzarlo in tre o quattro giorni, quindi lavoro molto velocemente. Disegnando sull’iPad – io uso Procreate – questa gestualità molto rapida fa accadere delle magie. Ma mi piace ancora usare le matite e gli inchiostri fisici.

L’unica cosa è che io quando disegno a matita premo il lapis come un dannato. Non so perché, ma lo faccio, e so che non va bene, dovrei smetterla… comunque, poi quando inchiostro queste matite nerissime mi piace il risultato finale, solo che poi cancello la matita e mi accorgo che non ho inchiostrato abbastanza, perché la pagina è rimasta vuota. Stampando la matita digitale riesco a vedere molto meglio le zone che devo inchiostrare, e questo rende più veloce il mio lavoro. Però, sai, a volte… ora sto parlando a caso… mi piace che in ogni pagina ci sia una vignetta che farà restare di stucco il lettore…

Jim Lee le chiamava “vignette àncora”. Raccontava che quando disegnò X-Men 1 ogni pagina era pensata per avere una vignetta sbalorditiva.

Esattamente, sono àncore. Quindi a volte disegno la vignetta àncora in digitale e poi la stampo, disegnandoci attorno le vignette narrative, che raccontano la storia.

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Una tavola di “Do a Powerbomb!”

Hai sempre lavorato così?

Una volta usavo Photoshop, ma non mi piace. Procreate, invece, lo posso portare ovunque. Lavoro nello studio di casa mia e a volte vado in luoghi pubblici per lavorare con l’iPad. Mi sembra di essere parte del mondo e di avere un’esistenza normale. [ride] Io poi sono molto espansivo, parlare con la gente mi ricarica le batterie. È difficile essere un animale sociale e avere un lavoro solitario.

Il tuo primo lavoro è stato quello di insegnante. Come mai non hai cercato di fare da subito il fumettista?

L’estate del mio secondo anno di università mia mamma mi regalò il libro con i disegni concettuali dei film de Il Signore degli Anelli. C’erano le illustrazioni di Alan Lee e John Howe, che avevano lavorato ai film per 4-5 anni. Erano immagini bellissime. Pensai che avrei potuto fare quello, mi concentrai su quel tipo di illustrazioni, in digitale, ma non fui in grado di trasformarla in una carriera.

Ho sempre pensato che disegnare fumetti fosse un sogno impossibile. Non sapevo come realizzare quel sogno. All’università studiai arte e i miei genitori, temendo che non sarei stato in grado di mantenermi, mi consigliarono un lavoro “normale” che avesse in qualche modo a che fare con la mia passione, perciò finii a fare l’insegnante di educazione artistica. Però non mi piaceva. Non era proprio una cosa per me.

Visto quanto sei estroverso, sembra invece un lavoro in cui avresti potuto trovarti bene. 

Avevo una classe di 35 bambini. Era più gestione della folla che insegnamento. Non c’erano risorse, e io non ero in grado di trasmettere la mia passione per il disegno. Non si trattava di insegnare ma di fare stare calmi dei bambini. E in più non riuscivo nemmeno a lavorare ai miei progetti. 

E allora hai fatto il salto?

Dopo aver insegnato per qualche anno, mia moglie mi disse che avrei dovuto licenziarmi e tentare la carriera di fumettista. «Sei infelice e depresso», mi disse, «e renderai infelice e depressa anche me». Nell’estate del 2012, il giorno dopo la fine dell’anno scolastico, preparai un portfolio e iniziai a cercare qualsiasi lavoro che avesse a che fare con il disegno. E poi iniziai a lavorare al mio fumetto online, Space Mullet, che all’epoca non mi portava alcuna entrata. Scrivevo e disegnavo due pagine a settimana. Fu la mia palestra fumettistica, perché fino ad allora non avevo seguito corsi specifici sul fumetto.

In quel periodo ci furono momenti bassi che ti fecero pensare di mollare?

Dopo essermi licenziato come insegnante, avevo così paura di non riuscire a mantenermi che avrei accettato qualsiasi lavoro, anche il barista. I miei amici, che erano freelance nel mondo della fotografia e del design, mi dissero che se davvero credevo nel mio sogno, avrei dovuto concedergli un anno di tempo, in cui non fare altro che quello. Sono grato di aver seguito il loro consiglio. Otto ore al giorno, cinque giorni alla settimana, facevo fumetti. E poi odiavo così tanto il mio lavoro da insegnante che qualsiasi altra cosa mi sarebbe andata bene.

Io e mia moglie avevamo un accordo: se fossi riuscito a guadagnare 900 dollari al mese – che era il costo del nostro affitto – con i miei lavori da disegnatore, avrei potuto continuare a farlo. E c’erano mesi in cui arrivavo a poco più di quella cifra, ma mi dicevo «evviva, l’ho sfangata per un altro mese». È stato un percorso con momenti difficili, ma l’ho vissuto più come un’esplorazione per imparare a capire che disegnatore e fumettista fossi. A essere sincero, se i lavori di grafica avessero pagato bene e ce ne fossero stati tanti, probabilmente mi sarei specializzato in quello. Perché ho davvero fatto qualsiasi tipo di lavoro attinente al disegno.

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Una tavola di “Space Mullet”

Qual è stato il più strano?

Hai presente le pubblicità delle auto usate nei quotidiani americani? C’è tutto un mercato in America di auto usate, perché ne abbiamo un sacco, e certi venditori commerciano solo auto di seconda mano. Siccome sono auto usate, nelle inserzioni pubblicitarie c’è sempre un avviso che specifica che le auto mostrate, anche se sembrano nuove, non lo sono. E questo avviso era segnalato da un asterisco presente accanto a ogni auto. Immagina una doppia paginata di un quotidiano piena di macchine e accanto a ognuna un asterisco. Io ero il tizio che disegnava gli asterischi.

Dovevano essere tutti allineati, tutti uguali. Era talmente noioso che mi faceva ridere. Lavoravo per un’agenzia pubblicitaria che mi faceva fare anche i banner pubblicitari per la vendita di pneumatici. Un giorno l’art director dell’agenzia mi disse che il banner e le gomme che avevo disegnato erano troppo belli: «Deve sembrare una merda». I venditori vogliono che sembrino brutti, perché hanno una loro idea di qualità.

Do a Powerbomb! è uscito dieci anni dopo Space Mullet, che aveva un disegno pulito, molto diverso da quello che è diventato il tuo stile. Quanto ancora c’è in te del disegnatore di Space Mullet?

Vedo delle tracce di dove stavo andando. Piccole cose che ancora faccio. Però, sì, sono come il giorno e la notte. Una cosa che mi è rimasta è che mi concentro sulla scena, gli sfondi, l’ambientazione. Su Space Mullet mi sforzavo molto di caratterizzare gli ambienti, fallendo quasi sempre. Quella è ancora una parte della mia identità di disegnatore. Per il resto, se riguardo Space Mullet vedo solo cose tremende.

Ricordo una commission che avevi fatto di Spider-Man che era una veduta cittadina e in un angolo c’era l’eroe, piccolissimo. Una bella immagine d’atmosfera dove contava più lo sfondo, strana per un disegno su commissione. Non ricordo se piovesse nella scena…

Sì, pioveva. E sai perché? Perché non volevo disegnare le facce delle persone e ci ho messo un po’ di ombrelli. [ride] In quel caso, arrivavo da un periodo in cui mi ero stancato di disegnare Spider-Man per le commission e cercavo un modo di disegnarlo senza disegnarlo, in pratica. Mi fa piacere che la citi perché è una delle commission che preferisco in assoluto.

Anche la copertina di Do a Powerbomb! è un’immagine d’ambiente, dove il personaggio principale è la folla, la scena, più che il protagonista. 

A volte incanalo le mie ansie relative a un progetto sul disegno, perché quello lo posso controllare. Forse non è molto salutare. Stavo lavorando per preparare il fumetto all’uscita e dovevo disegnare la copertina per i cataloghi delle anteprime. Era l’immagine che avrebbe convinto le fumetterie a ordinare il fumetto. E il mio guadagno dipendeva dalle vendite del fumetto. Doveva essere un’immagine incredibile.

Ho messo tutto me stesso in quella copertina. Ho lavorato a quella copertina nel marzo 2020, all’inizio della pandemia. Stavo disegnando alcune commission e sono usciti alcuni dei miei migliori disegni. Ho pensato «non posso controllare la realtà, ma almeno posso lavorare», quindi ho indirizzato tutte le mie energie nel disegno.

Nella folla ci sono molti volti noti (Batman, Murder Falcon, ma anche tuoi famigliari e colleghi, come Donny Cates).

Quello è stato anche un modo per non disegnare i personaggi tutti uguali. Volevo essere molto specifico, almeno nella parte bassa dell’immagine. Se ci sono troppi dettagli non si capisce più nulla. Infatti, se noti, più ci si allontana dal primo piano più la folla si semplifica. Per far funzionare un’immagine del genere bisogna progettarla con attenzione. Il tocco finale lo ha dato il mio colorista, Mike Spencer.

Sei sempre soddisfatto quando vedi le tue pagine a colori?

Quando le colora Mike, sì. Di tutti i fumetti che abbiamo realizzato insieme, ci sono state forse quattro o cinque volte in cui non mi è piaciuto il risultato finale e ho chiesto di correggere. Sono cinque pagine su un totale di quattrocento, circa. E ogni volta sono sempre spettacolari.

Quando disegni pensi in bianco e nero o a colori?

In bianco e nero, senza dubbio. Quella di Mike è un’aggiunta, organica e stupenda. Ma voglio che i miei fumetti siano in grado di esistere anche in bianco e nero. È importante per me che tutto si capisca già guardando la tavola inchiostrata. Il colore non deve essere un elemento necessario alla sopravvivenza dell’immagine.

Prima dicevi che Do a Powerbomb!, in quanto progetto indipendente, è stato fonte di ansia. Quando invece lavori per Marvel o DC Comics lo fai con più tranquillità?

È mooolto più facile lavorare per un grande editore. La posta in gioco non è così alta, i personaggi non sono miei. Tutto è più facile. Quando lavoro a qualcosa come Do a Powerbomb!, mi invento io la storia, i personaggi, il loro aspetto e il loro carattere. Quando invece lavoro a, non lo so, Wonder Woman, c’è già moltissimo materiale da cui trarre ispirazione, sottotesti con cui giocare o sovvertire.

Inoltre, non devo preoccuparmi di quanto vende. Mi pagano per realizzare il fumetto e basta, mentre su Do a Powerbomb! ho passato molto tempo nel cercare di disegnarlo al meglio possibile, perché inconsciamente credo che meglio è disegnato e più venderà. Ovviamente non è così che funziona, ma, insomma, in un progetto come Do a Powerbomb! ti strappi il cuore e lo metti sulla pagina. Mentre quando lavoro su un fumetto di Wonder Woman o Beta Ray Bill si tratta più di un lavoro nel senso stretto della parola. Un bel lavoro, sia chiaro. Stacco alle cinque, faccio una passeggiata, mi godo il resto della serata.

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La copertina del volume “Beta Ray Bill: Stella d’argento” edito da Panini Comics

Immagino ci siano pro e contro di entrambi i progetti, con un fumetto su commissione non hai ansie da prestazione, ma con un progetto personale sei più appagato a livello creativo.

Hai centrato il punto. Sono entrambe esperienze incredibili. Quando lavoro con una major mi sento come se fossi in vacanza, ma la sensazione di creare qualcosa dal nulla, scommettendo su me stesso, sperando che esca bene e che piaccia ai lettori, è inebriante. Per arrivare a quel punto, però, devo avere una storia e dei personaggi in cui credo. E se lavoro per una major troppo a lungo inizio a sentirmi inappagato e annoiato.

D’altro canto, se realizzassi solo fumetti indipendenti mi verrebbe un esaurimento nervoso, perché sono progetti che consumano tutte le tue energie. Quando finisco un lavoro su commissione penso sempre «basta, non lo voglio più fare, odio questa roba», ma quando finisco un mio fumetto penso la stessa cosa, «odio questa roba, voglio un lavoro d’ufficio in cui dicono cosa fare». Sono entrambe esperienze che voglio continuare a fare, alternandole.

Dopo aver finito Murder Falcon avrei voluto scrivere e disegnare un altro progetto personale, ma la verità è che non avevo idee ed ero molto stanco. Così ho accettato di fare la miniserie Wonder Woman: Terra morta. Finita quella, avevo già iniziato a lavorare a Do a Powerbomb!, ma non ero ancora pronto, e così sono passato a fare Beta Ray Bill: Stella d’argento per la Marvel, e nel frattempo ho scritto due o tre numeri di Do a Powerbomb!.

Quando leggi commenti sui tuoi fumetti, presti più attenzione a quelli che parlano dei tuoi lavori personali? 

La differenza è che le recensioni o i commenti a un fumetto indipendente sono molto ragionati, e se non piace di solito non ne scrivono. Invece stai sicuro che se a qualche lettore non piace quello che fai su Wonder Woman verranno a dirtelo! [ride] Spesso i lettori di fumetti di supereroi leggono la serie per il personaggio, non per chi lo scrive o disegna. Molti non sapevano neanche chi fossi. E si lamentavano che la mia Wonder Woman sembrasse sul punto di sciogliersi o cose del genere. Ma va bene, è ovvio che non ero stato chiamato per assecondare quella fetta di pubblico.

E invece con gli editor delle major come va?

Mi sono trovato bene sia con Marvel che con DC. Ogni tanto mi dicono che non posso fare qualcosa, ma niente di importante. Anzi, mi stupisco che mi abbiano lasciato disegnare certe scene. Per esempio, in Wonder Woman: Terra morta ce n’è una in cui Wonder Woman dà un pugno a Superman in pieno petto e gli sfonda il torace. Sapevano che sarebbe successo perché avevano letto la sceneggiatura, ma quando l’hanno visto disegnato mi hanno detto che non potevo mostrarlo.

L’ho disegnato altre tre o quattro volte, usando le silhouette o da angolazioni diverse, ma non andava mai bene. Sono arrivato a un punto in cui non avevo più voglia di ridisegnarlo e ho detto agli editor che mi avrebbero dovuto pagare per una pagina in più. [ride] Alla fine, pensa che scemata, hanno acconsentito purché Mike Spencer colorasse la scena di verde. E quattro pagine dopo Wonder Woman strappa la spina dorsale di Superman!

La scena da “Wonder Woman: Terra morta” in cui Wonder Woman strappa la spina dorsale a Superman dopo averlo ucciso

Ti domandi mai il perché di queste contraddizioni riguardo a quello che può o non può essere pubblicato?

Hanno delle regole strane, tipo: Batman non può bere alcol. Ovvio che Bruce Wayne beve alcol, se gli va. In Terra Morta si versa un goccio di whiskey prima di morire. E il whiskey era color marrone. Non andava bene. Ho chiesto se potevo cambiare il colore in bianco, trasparente. Hanno approvato la modifica. E quindi ora beve vodka! [ride] Scemate del genere. A volte questi grandi colossi sono così preoccupati dal difendere il marchio che non capiscono cosa è meglio per la storia. Il mio lavoro da creativo è ignorare quelle preoccupazioni. 

Il tuo stile è un ibrido tra Paul Pope e Geof Darrow. Sono nomi a cui guardavi quando cercavi il tuo segno o ti è uscito spontaneo?

Mi sono sicuramente ispirato a Pope e Darrow, ma gli autori che ammiro sono tanti: Bill Watterson, Katsuhiro Otomo, James Harren, Ryan Ottley… quando disegnavo Space Mullet cercavo di incanalare tutto ciò che mi piaceva di quegli autori. Non credo ci sia stato un momento determinante in cui ho trovato la mia cifra, è successo con il passare del tempo. Come affumicare un pezzo di carne. Sicuramente all’inizio copiavo quegli autori, ora cerco di disegnare come me stesso, anche se non so cosa significhi “me stesso”.

Ti stai ancora cercando come autore?

A volte passo dei periodi, di un anno magari, in cui penso di aver trovato una quadra, poi mi sento strano e inizio a cambiare materiali o strumenti con cui disegno. Credo sia importante cambiare per restare fresco e continuare a crescere, cercando nuovi modi per migliorare, raccontare storie migliori, disegnare meglio. Sono ancora pessimo a disegnare i muscoli delle gambe.

Come mai?

Non mi sono mai messo a studiarli per bene. All’epoca di Space Mullet ero una frana a disegnare le braccia, in particolare i tricipiti. E se un personaggio indossava una maglietta coglievo l’occasione per disegnargli dei tricipiti ultradefiniti, come allenamento. E ora li so disegnare benissimo. Devo iniziare a farlo con le gambe. [ride]

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