
Nel giugno del 1993, sulla rivista Afternoon di Kodansha, debuttò un manga in cui un guerriero che non può morire sceglieva di proteggere una fanciulla in cerca di vendetta, nella cornice sanguinosa del Giappone dei samurai. Il manga si intitolava L’Immortale, era firmato da uno studente universitario, Hiroaki Samura, ed ebbe un riscontro così positivo da proseguire per quasi vent’anni.
Oggi che sono trascorsi tre decenni da quell’esordio, Hiroaki Samura è celebrato per il suo segno elegante e realistico e L’Immortale è riconosciuto come uno dei più significativi seinen di ambientazione storica. Anche se, a ben vedere, la particolarità di questa storia va ben oltre la rievocazione di un passato fatto di kimono e katana.
L’Immortale, in breve

Manji è un ronin, un samurai senza padrone che ha trucidato ben cento uomini e ha portato alla follia l’amata sorella. Indossa un kimono decorato con una svastica, simbolo religioso che allude all’eternità, e non a caso: in cambio della promessa di espiare le sue colpe uccidendo mille uomini malvagi, ha ricevuto in dono da un’anziana e misteriosa monaca dei vermi miracolosi, detti kessenchu, che, entrati in simbiosi con il suo corpo, gli consentono di guarire ogni ferita e di non invecchiare.
L’immortalità così ricevuta non è esattamente una benedizione per lo spadaccino, perché, anche se gli garantisce di sopravvivere a ogni scontro, non gli risparmia il dolore delle ferite e soprattutto lo costringe a vagare in cerca di uno scopo che dia un senso a questa sua straordinaria condizione. È sempre l’anziana monaca a unire il destino di Manji a quello di Rin, una ragazzina che ha assistito impotente all’efferata uccisione del padre e al selvaggio stupro della madre e vuole vendicarsi.
ll responsabile della tragedia è il leader di un’atipica scuola di arti marziali nota come Itto-ryu, Kagehisa Anotsu, che ha consacrato la sua vita a realizzare la visione del suo defunto nonno: distruggere tutti i dojo in cui il combattimento è diventato una disciplina puramente estetica, perdendo la sua natura originaria di arte della guerra, e diffondere la filosofia per cui la vittoria a tutti i costi e l’annientamento dell’avversario contano più della perfezione tecnica.
Anotsu, abile nel combattimento e circondato da seguaci fortissimi – tra cui la sua amica d’infanzia Makie – è chiaramente un obiettivo troppo ambizioso per Rin, che chiede quindi a Manji di accompagnarla e aiutarla. I due stringeranno un legame sempre più forte e, nel tentativo di compiere l’impresa, si incontreranno – e scontreranno – anche con i membri del Mugai-ryu, un’organizzazione che lavora nell’ombra e obbedisce agli ordini del bakufu, il governo dello shogun.
Un Giappone brutto, sporco e cattivo

L’Immortale è un manga che si inserisce in un genere narrativo ben noto e consolidato, il dramma storico sui samurai, detto jidaimono o jidaigeki (a seconda che si prenda in prestito il termine dal teatro o dal cinema). Samura non amava affatto le storie in costume, e ben lungi dal mettere in piedi una ricostruzione storica rigorosa preferì evocare un’atmosfera che pur tratteggiando un passato leggendario gli consentisse ampio spazio di manovra. «Non fissarti sui dettagli, concentrati sulla storia» è stato infatti il suo motto.
La prima, più evidente licenza rispetto a un racconto storicamente attendibile è il ricorso all’elemento fantastico dell’immortalità, ripreso dal folklore giapponese – dove si parla in effetti di una monaca di 800 anni di nome Yao Bikuni ma non c’è traccia dei kessenchu. Conferire questa caratteristica a Manji rende possibile raccontare situazioni paradossali, in cui l’eroe riesce a sconfiggere un nemico nonostante sia tagliato a metà e a tornare come nuovo dopo qualche pagina di convalescenza.
Nella seconda parte della serie, inoltre, la condizione straordinaria dello spadaccino diventa anche il pretesto per far virare il racconto verso atmosfere sospese tra l’horror e la fantascienza tramite il personaggio di Burando, un medico che intraprende una grottesca ricerca scientifica per scoprire il segreto di Manji, con risultati a metà tra Frankenstein e un film di zombi.
L’altra libertà che Samura si prende rispetto alla verosimiglianza storica riguarda la caratterizzazione fisica di molti personaggi, che con i loro outfit e la loro selezione di armi personalizzate si discostano in modo vistoso dall’immagine tradizionale dei samurai. Per fare solo qualche esempio, Anotsu ha una corporatura androgina, indossa un diadema sulla fronte e non brandisce una katana ma una sorta di ascia, mentre uno dei suoi seguaci, Taito Magatsu, ha una chioma punk alla Sid Vicious e combatte coprendo parte del volto con una bandana. Tra i membri del Mugai-ryu c’è la bionda ossigenata Hyakurin, che indossa un kimono cortissimo, una sola calza stile parigina e sandali a tacco alto, e accanto a lei il fortissimo Giichi che sfoggia degli occhialini scuri e maneggia una sorta di falcetto-gancio munito di catena.

Eppure, nonostante la palese infedeltà alle fonti storiche, le vicende narrate dal manga sono effettivamente collocabili in un’epoca precisa del passato giapponese. Ne L’Immortale l’arte del combattimento non viene più esercitata sui campi di battaglia ma al sicuro nei dojo, ed è trattata alla stregua di una disciplina sportiva in cui la tecnica e il rispetto delle regole contano più dell’abilità effettiva di ottenere la vittoria. Questa situazione colloca la storia durante lo shogunato Tokugawa (1603-1868), epoca di pace e stabilità in cui la famiglia al potere instaurò un rigido controllo sui signori feudali, costrinse molti samurai all’inattività o al vagabondaggio e creò una burocrazia che puntava a regolamentare persino la vendetta di sangue (katakiuchi) che si poteva perseguire legalmente previa accettazione della domanda di iscrizione a un registro ufficiale.
Samura si è lasciato ispirare da questo passato storico per evocare un Giappone crudele, dove la legge punisce ma non protegge, e dove anche il bushido, il codice di condotta dei samurai (stilato nella sua forma definitiva proprio nel periodo Tokugawa) suona privo di significato. Senza il sostegno di una morale condivisa che dia loro la certezza di essere nel giusto, i guerrieri de L’Immortale vivono ciascuno secondo un proprio sistema di valori, cercando un riscatto dalle proprie colpe e dal dolore subito in passato. Non mancano di determinazione o coraggio e sono pronti a esibire tutta la loro forza e la loro abilità, ma sono ormai consapevoli di mettere la loro vita costantemente a repentaglio per niente.
Emblema perfetto di questo dramma è Anotsu, che ha un’indole nobile in contrasto con la brutalità delle sue azioni e che mette a ferro e fuoco il Giappone per realizzare il sogno delirante di un nonno rancoroso e crudele, cercando di costruire il futuro su ideali anacronistici. Laddove emerge sempre più chiara l’evidenza che per adempiere al proprio destino quella della spada non è l’unica via.
L’amore più dell’onore

Lavorare a L’Immortale portò Samura a definire la sua idea di eroe, «una persona che non rivela mai le sue debolezze agli altri e che allo stesso tempo non è così potente e inattaccabile come sembra». Nell’aspetto, Manji non ha un design del tutto inedito: si ispira infatti, attraverso le illustrazioni di Tatsumi Shimura, a Tange Sazen, un samurai senza un occhio e senza un braccio che da personaggio minore di un romanzo a puntate di Fubo Hayashi del 1921 divenne poi popolarissimo sul grande e sul piccolo schermo (finendo poi anche in un manga di Tezuka).
Pur sarcastico e sbruffone, contrariamente alla maggioranza degli eroi combattenti dei manga, Manji non è il guerriero più forte – primato che spetta a una donna, Makie – e anzi finisce con l’ottenere molte delle sue vittorie più per la sua miracolosa capacità di sopravvivere a qualsiasi mutilazione che alla sua abilità. D’altro canto deve dare un senso alla sua vita immortale, uno scopo che sia meno egocentrico del “diventare il migliore” e anche meno astratto del vacuo “combattere con onore”. E lo trova scegliendo di proteggere Rin.
Se da una parte Manji è un guerriero dal cuore tenero, dall’altra Rin è tutt’altro che spietata nel pretendere la sua vendetta. Con le sue trecce da bambina e l’animo dolce e sensibile, mentre cerca di restare ferma nel suo proposito, soffre constatando come questo la porti a infliggere ad altri il dolore che ha sofferto lei stessa. Anziché colmare il vuoto lasciato dalla perdita dei genitori con l’odio verso Anotsu, la ragazza dà spazio all’affetto per Manji, al desiderio di guadagnare la sua stima e alla ferrea volontà di proteggerlo quando questi si trova in pericolo, nonostante o proprio a causa della sua immortalità.

È il legame che unisce i due protagonista il fulcro della vicenda de L’Immortale: Manji e Rin restano fino alla fine coerenti con l’obiettivo dichiarato nelle prime pagine, ovvero uccidere, ma di fatto le loro azioni sono mosse da un’altra motivazione, fare il bene dell’altro. La relazione complessa che nasce tra loro, che non è amore romantico ma piuttosto un viscerale affetto fraterno, diventa il punto fermo dal quale riescono ad affrontare l’incertezza del mondo in cui vivono. Le persone e i sentimenti contano più di orgoglio, dovere e onore: un messaggio decisamente inconsueto per un manga di samurai.
L’approfondimento della psicologia dei personaggi, anche secondari, e dei legami che li uniscono si fa più evidente a mano a mano che l’intreccio diventa insufficiente a dare sostanza a una serializzazione che è andata avanti troppo a lungo, come ha ammesso lo stesso autore. Da un certo punto in poi, la trama mostra varie debolezze, il ritmo del racconto cala, ma chi legge continua a farlo perché si trova di fronte eroi ed eroine dalla personalità sfaccettata e si sente parte dei loro drammi. E anche perché, se è vero che la storia perde qualche colpo, non viene mai meno la straordinaria potenza grafica dei disegni.
La bellezza nel massacro
Quando Samura cominciò a disegnare la serie era ancora uno studente della Tama Art University. La sua formazione accademica, unita alla volontà di distinguersi da Katsuhiro Otomo, di cui era grandissimo ammiratore, lo portò a elaborare per L’Immortale uno stile decisamente unico che si tiene a distanza da molti degli stilemi grafici tipici del manga, nel quale eroi ed eroine hanno volti realistici e corpi statuari e dove alle pagine inchiostrate con tratti graffiati si aggiungono tavole realizzate interamente a matita.
L’impostazione “classica” del disegno, applicata alle numerosissime sequenze di azione, porta Samura a ottenere un risultato tanto inconsueto quanto affascinante nella rappresentazione degli scontri: il momento decisivo è riassunto in un’unica immagine che occupa tutta la tavola e in cui frammenti di vari istanti sono rappresentati uno accanto all’altro in un’unica composizione caleidoscopica, una fioritura armonica fatta di lame, drappi di kimono, spruzzi di sangue e membra mozzate. L’immagine nel complesso risulta difficile da interpretare, eppure restituisce l’energia dei fendenti e le loro devastanti conseguenze, oltre ad avere un’ipnotica bellezza.
Samura riesce in una parola a rendere seducenti le scene di massacro, mostrandosi vicino all’ero guro, quel filone che mescola violenza, erotismo e grottesco. Associato soprattutto a immagini di donne bellissime vittime di torture perverse – tema a cui il mangaka ha del resto dedicato una raccolta di illustrazioni, Love of the Brute – l’ero guro è una cifra estetica evidente ne L’Immortale anche nel trattamento riservato ai personaggi femminili, a turno costretti a subire terribili violenze psicologiche e fisiche.
D’altra parte, però, le eroine di Samura non sono affatto passive. Meno numerose dei personaggi maschili, hanno sempre un ruolo cruciale nelle vicende narrate e anche quando sono vittime di qualcosa o di qualcuno restano sempre padrone di sé. Il loro animo non si spezza e la loro bellezza resta inalterata, nonostante gli orrori che sono costrette ad attraversare. Un tributo alla superiorità delle donne, di cui Samura è fermamente convinto, dal momento che nella sua vita privata sono sempre state le donne ad avere un ruolo risolutivo, così come nel suo percorso professionale sono state tre autrici – Rumiko Takahashi, Kei Ichinoseki e Fumiko Takano – a ispirarlo.

Oltre alle roboanti ed eleganti scene di massacro, le sequenze narrative di Samura presentano un’altra peculiarità: lo spazio lasciato a dettagli apparentemente superflui, che però aggiungono ulteriori sfumature di significato. In particolare nelle pagine di dialogo, Samura dedica spesso un’inquadratura ai piedi, nudi o calzati di sandali, colti in pose vezzose o in leggerissimi movimenti capaci di comunicare lo stato d’animo del personaggio cui appartengono, di veicolare l’emozione che quello cerca di nascondere. È uno dei modi in cui Samura cerca di conferire al racconto quel vivido senso di vita che dichiara di apprezzare nel manga.
«Tra gli alberi il ciliegio, tra gli uomini il guerriero», recita un proverbio giapponese che celebra il connubio di morte e bellezza insito nella via della spada. L’Immortale di Hiroaki Samura rielabora liberamente questa epica cogliendone gli aspetti ambigui e crudeli, ma anche quelli più delicati e umani, restituendoci una rilettura sfaccettata e per questo decisamente interessante dei samurai e della loro intramontabile leggenda.
Leggi anche: “La principessa Zaffiro” e le tante anime dello shojo
Entra nel canale Telegram di Fumettologica, clicca qui. O seguici su Instagram, Facebook e Twitter.