
Nei giorni scorsi, mosso da una certa nostalgia, mi sono procurato l’integrale di un vecchio telefilm degli anni Ottanta, Magnum, P.I., e ho fatto un po’ di binge watching: otto stagioni in sette giorni o giù di lì. Una settimana di anni Ottanta, insomma.
In realtà ci avrei messo anche meno, se non avessi avuto un paio di scadenze di lavoro, ma non si può avere tutto. Comunque, mi sono guardato di nuovo tutto Magnum, P.I., perché, ahimè, l’età è tale da averlo già visto quando è stato trasmesso la prima volta in Italia, con due anni di ritardo rispetto alla messa in onda negli Usa.
Magnum, P.I. fu infatti trasmesso negli Usa a partire dal 1980 e allietò gli spettatori americani (e poi quelli italiani e di altre parti d’Europa) fino al 1988, quando terminò con una ottava stagione che non era stata inizialmente prevista. Il protagonista, interpretato dall’attore Tom Selleck, infatti, moriva al termine della settima stagione. Le lettere (lettere!) e le telefonate dei fan imbestialiti convinsero però il network a produrre un’ulteriore ultima stagione, sfruttando l’idea molto anni Ottanta (fu usata in maniera plateale dal telefilm-soap Dallas) che la morte di Magnum fosse stata tutta un sogno. Una bella doccia al risveglio e via ricominciare, come se non fosse successo nulla.
Se non fosse che, francamente, l’ultima stagione se la sarebbero potuta evitare, perché è indubbiamente la più debole di tutte. A dire il vero, anche la settima non scherza: non solo per la qualità delle storie, ma anche perché comincia a mostrare le prime crepe quella sospensione dell’incredulità che rende ogni telefilm e altra opera di fantasia una rappresentazione fruibile. Si guardano dei tizi che corrono a destra e sinistra sullo schermo pronunciando battute improbabili e sparandosi a salve (oppure limonando all’improvviso e come se non ci fosse un domani) solo perché ci crediamo. Quando però uno non se la beve più (era la domanda preferita di mio padre: «Ma tu te la bevi?». Io me le bevevo quasi tutte), fa una gran fatica ad arrivare in fondo ai 45 minuti dell’episodio.
Da qui in avanti, lo confesso, si accavallano un po’ di cose e quindi mi perdonerete se Magnum, P.I. è solo una scusa per affrontare alcuni temi e mettere fuori delle idee che mi porto in testa da tempo. E mi scuserete ancora di più se non avete visto la serie (anzi, il telefilm), che invece io ho fresco in testa. Se vi capita, andatevelo a guardare e poi rileggete quel che segue, vi divertirete un po’ di più. Pronti?
Cominciamo con l’età: come dicevo l’ho visto da ragazzino e le prime puntate le ho riviste con mio figlio maggiore, che in questo momento ha dieci anni. Io avevo poco più di lui all’epoca, e mi sembra che la fruizione del telefilm, che fu una delle teste d’ariete della tv commerciale italiana, sia più o meno analoga. La principale fascinazione che sia io da ragazzino che mio figlio adesso abbiamo provato per Magnum è stata la difficoltà a non credergli. Cioè, ci sembrava proprio vero. E molto divertente. Anche a mia figlia non dispiace (lei ha sette anni), ma alla fine preferisce rivedersi l’integrale di Frozen, senza troppi rimpianti.
Magnum, P.I. però è tutta un’altra cosa. La mia ormai quarantennale fascinazione per le Hawaii, per la Ferrari 308 GTS, per la villa con i dobermann e per il Rolex Gmt-Master nasce da quel maledetto telefilm. Anche le Lacoste blu tenute dentro i Levi’s, l’uso degli short in momenti non troppo appropriati, il desiderio di possedere una chiassosa camicia hawaiana, la voglia di fare una corsa in elicottero sopra il bagnasciuga di un’isola, tutto, tutto.
Insomma, a parte i baffi e i riccioli, avrei voluto praticamente avere e fare tutto quel che faceva Magnum, compreso il passato da ufficiale di Marina reduce del Vietnam e l’attività da investigatore privato, sottolineata da un fantastico voice-over che è poi la versione dell’Ulisse di Joyce dei poveri, quella per il popolo. Magnum, P.I. era il prosieguo con altri mezzi di quella letteratura pulp che ha avuto degli interpreti geniali nel romanzo hard-boiled e che negli anni Ottanta andava molto. Basti pensare che anche il capolavoro della fantascienza “hard” dell’epoca, cioè Blade Runner (1982), alla fine è una storia di investigatori privati che sparano ai cattivi nella vecchia Los Angeles del futuro, con la pupa che forse muore o forse no.
Torniamo da Magnum. Al di là del momento padre-figlio (sono cose che capitano, per fortuna), la vista del telefilm ha risvegliato anche delle curiosità narrative. Ad esempio, il secondo piano di lettura, quello “colto” riservato agli adulti che la Pixar ha trasformato in un suo marchio di fabbrica e che viene raccontato come una astuta mossa di marketing (si intrattengono i pargoli con le torte in faccia ma si fanno ridere anche i genitori che li accompagnano in sala con battute degne di Woody Allen), in realtà era già da tempo patrimonio comune della fiction televisiva americana.
Nella serie interpretata da Tom Selleck non ci sono solo battute un po’ più adulte del target adolescenziale. Ci sono anche le armi, le macchine, gli elicotteri, le cose da reduci, gli intrighi un po’ polizieschi ma un po’ anche geopolitici: nella prima stagione c’è un intero episodio che ruota attorno allo scontro tra il governo britannico e l’Ira, il movimento indipendentista dell’Irlanda, e un altro sulla caccia agli ultimi criminali nazisti sfuggiti a Norimberga. Insomma, Magnum, P.I. era tutt’altro che ingenuo.
Certo, le messe in scena venivano adattate alla dimensione del suo protagonista. La narrazione aveva un sottotesto forse oggi un po’ troppo datato, ma sicuramente interessante: i legami di Thomas Magnum con i servizi della Marina in epoca di fine della guerra fredda (il presidente era Ronald Reagan, che stava “strizzando” a morte l’impero sovietico) erano qualcosa di tenuto sullo sfondo, ma molto concreto e reale. Un “non detto” che rendeva la spensieratezza di Thomas Magnum una specie di leggerezza sul bordo dell’abisso. Quando Magnum faceva sul serio (ed era uno dei toni che il suo personaggio tirava fuori almeno una o due volte a episodio, nelle prime stagioni), si capiva che nonostante tutto era anche lui un guerriero di quell’esercito di eroi che combatteva contro l’impero del male per tenere la notte più lontana. Insomma, tanta roba.
Non a caso poi sparava. E non solo perché era un reduce (ci torniamo tra un attimo), ma proprio perché in quei telefilm la morte non era stata ancora rimossa dalla società o trasformata in una ritualità (il supereroe che fa fuori decine, centinaia, migliaia di cattivi con una serie di gesti che paiono una coreografia). Nei telefilm degli anni Settanta e Ottanta c’erano drogati, morti ammazzati, gente che ammazzava altra gente con un colpo di karatè o di pistola in piena faccia. C’erano ragazze di buona famiglia texana che andavano alle Hawaii a cercar fortuna e poi finivano a fare le prostitute, ce n’erano altre che non ci pensavano due volte prima di saltare nel letto del prestante investigatore privato e poi allontanarsi, con una scrollata di testa neanche dovessero scuotersi dai capelli la paglia di un incontro galeotto nel fienile. Era un mondo diverso, dalle battute leggere, con tante messe in scena e tanti inseguimenti in auto fatti evidentemente da dilettanti e tante sparatorie, di quelle dove i cattivi non beccavano mai nessuno, mentre per il buono ogni colpo era un morto.

Dicevo, la parola reduce. Una delle intuizioni più geniali dei due ideatori della serie, cioè Donald P. Bellisario e Glen A. Larson, è stata quella di dare un background piuttosto sfaccettato per Thomas Sullivan Magnum IV: ex ufficiale di Marina, inserito prima nei corpi speciali e poi nei servizi segreti, ferito in combattimento, tormentato da numerosi flashback degli scontri nella giungla. Un eroe “bruciato”, che ha lasciato la vita militare perché, dice, «mi sono svegliato una mattina all’età di 33 anni e ho scoperto di non averne mai avuti 23».
Magnum doveva essere un personaggio costruito sulla falsariga del primo James Bond, quello cattivo a cavallo tra i libri di Ian Fleming e l’interpretazione cinematografica di Sean Connery (che negli anni Ottanta aveva lasciato il passo a Roger Moore). Cinico, spietato, a tratti crudele, sicuramente ferito, donnaiolo impenitente. Invece, Tom Selleck riesce a spostare il personaggio su toni completamente diversi e lo trasforma, con la complicità degli autori (i telefilm dell’epoca erano così: una bottega artigianale più che un’opera pianificata fin dal principio come accade oggi) in un antieroe che è capace di sparare in faccia alla gente, ma in realtà è un tenerone, cede sempre alle richieste delle ragazze, non ha due soldi in tasca e vive alle spalle del suo ospite Robin Masters, litigando con il responsabile della villa Higgins (John Hillerman) e passando il tempo con i suoi due commilitoni e reduci: Orville “Rick” Wright (Larry Manetti) e Theodore “TC” Calvin (Roger E. Mosley).
Magnum vive nella depandance della villa lussuosa e meravigliosamente anni Trenta di Robin Masters (scrittore famosissimo multimilionario che vive altrove e non verrà mai mostrato per tutte le otto stagioni del telefilm), usa la Ferrari 308 GTS (hard top, il tettino lo butta letteralmente via nel pilota della serie) e la macchina fotografica di Robin, ma anche il campo da tennis e la cantina (litigando quotidianamente con Higgins per avere accesso). Magnus ha solo una sacca da marinaio con pochissimi vestiti. Viaggia davvero leggero nella vita, anche se si sa mimetizzare. E infatti non ha giacche o abiti da impiegato, solo dei jeans, pantaloni corti troppo attillati, una Lacoste blu, due camice hawaiane (una blu e una rossa) e due o tre polo con le maniche lunghe, un paio di canottiere e un cappello da baseball blu dei Detroit Tiger. Alla fine delle prime quattro stagioni non si è visto praticamente altro, se non forse una o due camice sportive chiare.
Le uniche due cose di proprietà di Magnum hanno un valore simbolico più che economico: sono l’anello fatto su misura per la sua unità, con la croce di Lorena (ce l’hanno anche Rick e TC), e il Rolex che gli ha lasciato il padre e che tiene, enorme, sul polso facendo il saluto militare quando da bambino partecipa al funerale del padre ufficiale morto durante la guerra di Corea. Basta. Non c’è altro nella sua vita di scappato nel posto più lontano degli Usa dove si può andare: Hawaii, sempre meglio dell’Alaska.
Spiantato, sempre in bolletta, con il frigo della depandance che contiene solo bottiglie di birra (tipo Budweiser o Sam Adams), sempre a fare colazione o a pranzare nel club esclusivo di cui Rick è amministratore (e in cui Magnum va a scrocco con TC, perché non può permetterselo), Magnum è la versione romanticizzata stile anni Ottanta di un eroe tragico. Un reduce devastato dalla PTSD, la sindrome di chi è passato attraverso eventi traumatici sconvolgenti e si nasconde dietro uno stile di vita totalmente irresponsabile e superficiale, alla giornata, con battute da fumetto per non pensare alla sua vita, a quel che farà da grande.
Lo salva una forma fisica pazzesca, un metro e novantadue a fianchi stretti, torace peloso e gambe da urlo, coltivato con nuotate e giri in canoa quotidiani. Magnum fu uno dei primi esempi televisivi di protagonista che faceva capire chiaramente che il suo fisico esuberante non era un accidente della genetica ma veniva fuori da una vita regolata e molto attiva. Negli anni Ottanta, nell’America dei fast food e della pandemia di obesità, era una rivoluzione. Ma a guardare bene, l’ossessione per l’esercizio fisico era anche con tutta probabilità il modo per tenersi attivi e reagire al dolore interiore che lo dilaniava.
Magnum era un uomo a pezzi, un eroe tragico, devastato, che alla fine purtroppo diventa una macchietta, perché finisce le avventure plausibili che tengano assieme i cocci della sua maschera e diventa invece una sorta di teatrante condannato a intrattenere i ragazzini e le ragazzine con avventure fini a se stesse, in cui da flaneur hawaiano si trasforma in goffo clown.
Siamo tutti un po’ reduci, o abbiamo avuto tutti amici reduci di qualche trauma. Amici che, anziché essersi chiusi in casa diventando hikikimori, si sono trasformati in scanzonati mattacchioni irresponsabili, pronti a saltare di qua e di là per non doversi fermare a pensare a quel che è stato della loro vita e a quel che sarebbe stato nel futuro. La genialità del Thomas Magnum interpretato da Tom Selleck è stata quella di creare un personaggio eroico e romantico che suonasse tutte le note giuste in un contesto meno politicamente corretto di quello di oggi, ma al tempo stesso molto meno realistico e più “paese dei balocchi” (dopotutto erano gli anni Ottanta) di quello che mettiamo in scena in una serie contemporanea.
Alla fine, eccomi. Ancora rintronato da otto stagioni viste di corsa, ho capito che il più grande merito di Magnum, P.I. è quello di aver messo in scena le Hawaii, ma non come paradiso artificiale con un clima immutabile (stile Los Angeles). Le Hawaii di Magnum sono sempre minacciose sullo sfondo, sono splendide, ma sono anche potenti, crudeli, spietate: il cielo grigio, gonfio di nuvole gravide di pioggia, venti da tifone che alzano onde improvvise, il mare tostissimo, la natura che incombe sui protagonisti, straordinariamente urbani e cittadini, come su expat in una colonia remota e selvaggia. La civiltà come sottile linea rossa che può essere cancellata in un attimo dalla mareggiata.
Magnum, P.I. ha un gusto visivo e un senso narrativo che non si riesce più a trovare nelle produzioni di oggi, ma solo perché viviamo un periodo storico profondamente diverso. Mio figlio giustamente ha ceduto dopo i primi episodi, ancora troppo giovane per affrontare un binge watching frontale con una immersione in profondità negli anni Ottanta. Anche voi, probabilmente, cedereste. A meno che questo non sia il vostro secondo giro, a 42 anni di distanza. Perché gli anni Ottanta, quelli veri, sono come un virus: bisogna averli passati per sviluppare l’immunità.
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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.
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