
In una recente uscita della sua newsletter Garbage Day, il giornalista Ryan Broderick ha ospitato un pezzo di Emily St. James in cui si analizza il fenomeno delle speculazioni sulla conclusione della serie di HBO Succession. Sebbene non si tratti certo di una novità – le teorie dei fan contribuiscono in maniera massiva al successo di prodotti di intrattenimento da sempre, con un picco recente che parte da Lost e passa per Il Trono di Spade – quello che colpisce i due commentatori è che nella saga della famiglia Roy non c’è proprio nulla da decodificare o da interpretare.
Il meritato successo dell’impietoso affresco messo in piedi da Jesse Armstrong è proprio dovuto alla piattezza e alla mancanza di ogni forma di ingentilimento con cui vengono raccontati gli eredi di una famiglia di super ricchi e tutti gli omuncoli che gli gravitano attorno. Sono mediocri, opportunisti, incapaci di prendere una decisione, completamente scollati dalla realtà. Certo, abbiamo il dramma di matrice shakespeariana, una fotografia patinatissima, una colonna sonora maestosa. Ma, alla fine, se proprio si volesse andare alla struttura minima di quello che stiamo guardando, non siamo troppo lontani da un The Office in versione Rupert Murdoch.
Cosa c’è da speculare in una dark comedy cinica e crudele, dove i personaggi si dividono tra inutili e spregevoli? Assolutamente nulla, eppure un buon numero di persone ci sta costruendo attorno narrazioni sempre più fantasiose. Strategie da partite a scacchi in quattro dimensioni, morti che non lo sono e tutto il solito armamentario.
Alla stessa maniera pochi giorni fa è arrivato nei cinema Spider-Man: Across the Spider-Verse, nuovo fantastico capitolo dell’Uomo Ragno animato prodotto da Phil Lord e Christopher Miller. Sebbene dentro ci sia tanto materiale che sarebbe potuto essere campionato dal pubblico per produrre una nuova serie di meme – compresa la citazione di un meme già famoso, questa volta riproposto al cubo – gli spettatori hanno preso uno degli aspetti più drammatici della pellicola e sono riusciti a farlo proprio. Tutto il concetto di canone presente nel lungometraggio è diventato un modo per raccontare aspetti cupi o drammatici della propria vita.
Dubito che i produttori avessero previsto una svolta del genere. Eppure ci basta rivolgere lo sguardo al passato più recente per capire come il vero successo di un’opera di intrattenimento o di una forma di tecnologia di consumo sia sempre più legato al modo in cui il pubblico riesce a romperlo e a ricostruirlo a proprio piacimento. Facebook, Twitter, Telegram hanno dato il via alla loro vera espansione solo quando hanno cominciato ad assecondare le spinte degli early adopter, allontanandosi dalla visione originale dei loro creatori. Non più network di annuari universitari ma modo per spiattellare gli affari propri in pubblico.
Alla stessa maniera il social network di Jack Dorsey era nato per mettere in contatto un piccolo gruppo di conoscenti, non per permettere a tutti di sfoggiare arguzia e supponenza. Nel mondo videoludico, la cultura delle mod – modifiche più o meno radicali al codice di un gioco da parte del fandom – ha prodotto successi incredibili, spesso e volentieri dando vita a prodotti completamente nuovi.
Per i giocatori sarà una storia scontata, ma per tutti gli altri vale la pena raccontare uno dei casi studio più rappresentativi degli scorsi anni. Brendan Greene programmò la prima versione del megasuccesso PlayerUnknown’s Battle Royale partendo da DayZ – a sua volta una mod di Arma 2 – per poi passare direttamente a modificare Arma 3. Questo lo portò prima in Sony e successivamente in Krafton, che gli permise di sviluppare la versione di PlayerUnknown’s Battlegrounds che aveva in testa ormai da anni.
La risposta di pubblico fu tale da spingere la Epic a modificare il suo gioco Fortnite – il cui focus principale in origine erano costruzioni e orde di mostri – in qualcosa di molto simile a quanto sviluppato dal designer irlandese. Il risultato è stato uno dei fenomeni più enormi degli ultimi anni. La cosa ironica è che i giocatori, poco alla volta, hanno preso il risultato di questa serie di cambiamenti e lo hanno fatto ulteriormente proprio. Si tratta di quell’apice di popolarità in cui si passa da grande hit a fenomeno di costume.
Se le grandi compagnie che sono alle spalle di questi prodotti hanno abbastanza sensibilità da capire che cosa sta succedendo, non devono fare altro che assecondare questi movimenti. Appena si è cominciato a parlare di Metaverso sono stati in molti a far notare come qualcosa del genere esistesse già, proprio nelle evoluzioni più libere di Fortnite. Nel 2022 Mashable scriveva: «Fortnite non è davvero un videogioco. È più un fantastico spazio di ritrovo virtuale con dentro un videogioco ed è più accessibile di qualsiasi cosa richieda un visore VR, come Horizon Worlds di Meta o VRChat. È totalmente gratuito ed è disponibile su ogni dispositivo di gioco e telefono del pianeta».
Alla Epic Games hanno sicuramente assecondato questa tendenza – si vedano per esempio i concerti di Travis Scott e dei BTS o le proiezioni cinematografiche di Inception – ma il tutto era nato da una spinta derivante dai giocatori, nata ben prima che Mark Zuckerberg cominciasse a parlare di Metaverso. Sono stati gli utenti stessi a capire che Fortnite era più divertente per cazzeggiare che per giocare. Alla fine si tratta di continue evoluzioni del rocket jumping di Doom. Quel momento fondamentale in cui i giocatori ruppero per la prima volta le meccaniche di gioco previste dagli sviluppatori per accedere a parti di livello che non erano state concepite per essere esplorate. Rompendo il gioco ecco nascere qualcosa di nuovo, molto migliore di quello preventivato.
Il punto è tutto qui: mai come in questo momento il pubblico ha bisogno di sabotare quello che gli viene dato per farlo proprio. E se si prova a manipolare questo meccanismo – vedi il tragico tentativo di rimandare Morbius nei cinema per sfruttare l’onda lunga della memificazione – si viene puniti senza pietà. Gli autori non sono mai stati così poco padroni delle loro idee, subendo spesso stravolgimenti delle loro creazioni.
Vince Gilligan impiegò cinque stagioni per farci capire che Walter White non era la vittima in cerca di rivalsa che sembrava nella prima puntata di Breaking Bad, bensì una belva che aspettava la giusta spinta per essere liberata. Eppure ancora oggi il suo protagonista è considerato un idolo dai fan della serie. L’ultima iterazione del videogioco The Legend of Zelda – intitolata Tears of the Kingdom e uscita poche settimane fa – è stata costruita intorno all’idea di libertà assoluta come motore primo di gameplay, ma è evidente che tramite questa si puntava anche alla produzione virale di contenuti da parte degli utenti.
Così, mentre i critici si spellavano le mani per celebrare la poesia dell’opera di Hidemaro Fujibayashi e Eiji Aonuma, oppure tracciavano i doverosi parallelismi con lo Studio Ghibli e ne analizzavano i tratti più autoriali, ecco che i giocatori sfruttavano l’enorme spazio di manovra concessogli per stravolgere totalmente il gioco. Enormi peni rocciosi, mech implacabili e droni assassini generati sfruttando le meccaniche interne sono cominciati a fiorire su tutti i social network. Così come meccaniche impossibili per battere ogni record e ogni altro modo vi venga in mente (più uno) per sfasciarlo a rimontarlo in nuove forme.
Dubito che queste precise derive fossero state preventivate dai dirigenti di Nintendo, ma che ci sperassero era evidente. Non a caso il videogame ha fatto vendite record, oltre a monopolizzare l’attenzione dei media. Una cosa che era successa diversi anni fa anche con la versione online del franchise GTA, che una volta in mano ai consumatori aveva cambiato radicalmente faccia. Si tratta di appropriazioni additive e propositive rispetto alle opere originali, molto più stimolanti di quanto succeda in fase di reviewbombing o in tutti quei casi in cui il pubblico vuole farsi padrone di un’opera nella maniera più degradante possibile.
Sapere gestire questi flussi di energia è sempre stato mandatorio per ogni imprenditore legato all’intrattenimento, ma ora abbiamo diverse conferme che il gioco è passato a un livello successivo. Il pubblico vuole diventare padrone di ogni opera a cui è legato e lo farà a ogni costo. Mentre giornalisti e analisti si spaccano la testa per cercare di prevedere se il prossimo gadget tecnologico alla Vision Pro sarà un successo o meno, da qualche parte qualche sedicenne sta già pensando come sfruttarlo in maniera imprevedibile.
Penso anche a social media manager di grido, impegnati a studiare meme fuori tempo massimo per rendere il lancio di un nuovo franchise sagace e al passo con i tempi. Il tutto mentre gli utenti minorenni di un qualche oscuro gruppo Telegram lo stanno già decontestualizzando nel modo più violento possibile. Il successo di un qualsiasi nuovo prodotto dipende, ora più che mai, da quanto queste operazioni di appropriazione riescano a intercettare la sensibilità del pubblico meno avvezzo a queste meccaniche.
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