RubricheAnd So What?Planimetria di un Silo, anatomia di una storia

Planimetria di un Silo, anatomia di una storia

Pensiero critico e laterale attorno a quell'incrocio molto trafficato fra cultura, tecnologia e mercato. "And So What?", una rubrica di Fumettologica a cura di Antonio Dini. Il giovedì, ogni 15 giorni.

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Immagine dalla serie tv “Silo”

Una trilogia in nove parti che è diventata una delle serie tv di maggior successo degli ultimi tempi. Per quanto questi tempi possano durare, perché nell’epoca dello streaming comanda l’algoritmo e ciao, dopo una stagione massimo due evapora tutto (salvo ritornare, magari con una nuova stagione qualche anno dopo, anche su piattaforme diverse). Sto parlando di Silo, la serie su Apple Tv+, la app di streaming di Apple.

È un prodotto notevole, che ha attirato l’attenzione sia per la storia che per il livello di qualità della produzione. La vicenda è nota ai più, credo, ma la ricapitolo per sicurezza: la serie è ambientata all’interno di un enorme silo dove vivono 10mila persone, perfettamente isolate tranne che per una videocamera (molto sporca) che riprende un pezzetto di terra all’esterno. Terra tossica e morta. Gli abitanti del silo non hanno memoria dell’esterno, non sanno perché sono dentro, vivono in una apparente democrazia di cui mimano ruoli e funzioni, ma che in realtà è una specie di dittatura segreta della quale sappiamo pochissimo, anche se episodio dopo episodio la storia va avanti. Eccome se va avanti.

Siamo di fronte a un classico prodotto televisivo dell’epoca inaugurata da Lost. Ricordate Lost? Ai tempi fu una sensazione e, assieme a Battlestar Galactica, fece ripartire la serialità televisiva americana con una qualità che poi è esplosa sui servizi di streaming. Un prodotto che però aveva un problema: alla fine gli autori avevano creato talmente tante piste, falsi indizi, veri indizi, suggestioni, segreti, trucchi, mezze rivelazioni, che quando tirarono giù la clér per chiudere la serie non riuscirono a terminare tutto quello che avevano lasciato in sospeso. E sostanzialmente Lost è una storia senza senso, perché non riesce a chiudere. Peccato, ma ci sta: se non altro la studiano nelle scuole di sceneggiatura per capire come fare a evitare la maggior parte degli errori.

Invece Silo non solo non è una storia senza senso, ma è anche molto di più. È anche un prodotto televisivo post-Game of Thrones, serie della HBO molto più recente che ha segnato una svolta nel modo di gestire le produzioni (meravigliosamente visiva quella tratta dai romanzi di George R.R. Martin) ma soprattutto di scrivere le storie. La genialità dei produttori de Il Trono di Spade, David Benioff e D.B. Weiss, è stata quella di mantenere tutta la potenza narrativa dei “sacrifici di regina” creati da Martin: la morte improvvisa e irrimediabile di personaggi centrali alla storia, almeno sino a quel momento, che mettono sotto scacco il lettore, perché lasciano un enorme vuoto di senso e provocano cambiamenti profondi delle dinamiche narrative.

Ormai è nei manuali di sceneggiatura: preparate un personaggio con tutti i segni del protagonista e poi ammazzatelo a tradimento, quando di solito l’eroe si salverebbe. Fate un bel cliffhanger e poi fatelo cadere sul serio. Per sempre. In Il Trono di Spade Eddard Stark muore alla fine della prima stagione e in un attimo abbiamo la conferma che, al di là delle scene di nudo e di violenza fisica e sessuale nella serie, in quella serie si viaggia a una velocità diversa.

Ci si può aspettare di tutto, nessuno è al sicuro: il vecchio assioma che il buono non muore mai, casomai muore uno dei suoi amici, crolla. Si avverte un senso di urgenza e di pericolo neanche troppo strisciante. Che verrà ribadito e confermato nelle varie stagioni, con una vera epidemia di morti ammazzati – talvolta in gruppo talvolta da soli – che purtroppo poi si schianta contro il muro dell’ultima stagione, della quale Martin non ha mai scritto il soggetto e che gli showrunner hanno sostanzialmente devastato. Ma questa è un’altra storia.

Comunque, dopo Game of Thrones le serie tv non sono più state la stessa cosa. Silo, pur essendo ben lontano dalla crudezza di quella, ne mantiene alcune strutture narrative, nella migliore tradizione delle tanto criticate “rimediazioni narrative”. Riadatta i vari tropi e stilemi narrativi costruendo una visione della storia che è al tempo stesso classica, moderna e pure innovativa.

La cosa che mi interessa di Silo è la sua origine: una serie di romanzi nati come autoproduzione e raccolti in tre volumi: Wool, che raccoglie i primi cinque autopubblicati su Amazon, e poi i successivi Shift e Dust. Tutto nella mente di Hugh Howey, scrittore americano praticamente sconosciuto che esplose nel 2011.

Hugh Howey ha un talento diverso da quelli classici degli scrittori popolari di successo che lo hanno preceduto, cioè la capacità di gestire la promozione sui social e architettare l’uscita dei suoi libri in maniera tale da massimizzarne la visibilità. Non è una novità: negli ultimi anni è anzi la regola, ma per Silo mi pare valga la pena partire da qui nel mio ragionamento.

Classe 1975, Hugh Howey è stato bravo anche a fare altro che non la promozione social, e da questo punto di vista è più completo di molti autori famosi. Ad esempio, è stato bravo come un qualsiasi Wilbur Smith o Ken Follett a vendere in maniera oculata i diritti dei suoi libri quando la serie è diventata un fenomeno di rete. E ha fatto i soldi sostanzialmente in questo modo, cioè come i suoi colleghi di cinquant’anni fa, va detto chiaramente anche questo. Ma alla base del successo di Hugh Howey c’è il talento per il digitale sociale. Un talento che forse Charles Dickens o Alexandre Dumas padre non sarebbero stati in grado di addomesticare. Chissà. Trovo intrigante l’idea di immaginare come i grandi autori di feuilleton dell’Ottocento, la letteratura popolare di una volta, si sarebbero mossi sui social per diventare fenomeni quali sono.

Ci sono però un paio di osservazioni ulteriori da fare su Silo. L’autoproduzione narrativa dei romanzi di Hugh Howey è figlia di una dimensione squisitamente letteraria della rete: si fa prima e meglio a promuovere la vendita di parole scritte e poi raccolte che non molte altre cose. Certo, dal nostro Zerocalcare all’americano e super-nerd xkcd, di fumettisti che sono “nati” in rete ce ne sono ormai a bizzeffe. Come per i musicisti che vengono tutti da X-Factor o da qualche altro game-show, così obbligatoriamente gli scrittori devono venire dalla pubblicazione online di qualche romanzo.

Gli editor delle case editrici sono diventati ormai dei cercatori del web. Attenti a valutare, oltre alla qualità dello scritto, anche le potenzialità crossmediali del prodotto, le IP (le proprietà intellettuali) e ovviamente il seguito di follower. Perché questi ultimi sono, nel caso della prima edizione del libro, lo zoccolo duro di acquirenti. E siccome a ripagare una prima tiratura basta qualche decina di migliaia di copie (perlomeno nel mondo anglosassone, visto che da noi si grida al miracolo già se si superano le mille copie), ecco che i follower diventano istantaneamente un valore, una specie di assicurazione da monetizzare.

Il problema delle autoproduzioni di solito è la qualità. Nel senso che non c’è. Soprattutto nel ventre molle, nel corpaccione delle migliaia di libri pubblicati per vanità, quello che infatti si chiama “vanity publishing”. Almeno, quando in Italia facciamo queste pubblicazioni “vecchio stile”, come purtroppo molto spesso succede ancora, la qualità semplicemente non c’è. E questa è la ragione sia della nascita di un enorme mercato di servizi per chi fa self-publishing, che delle scuole di scrittura, che aprono la porta alla professionalizzazione dei futuri “lavoratori autonomi” della scrittura.

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La copertina del primo romanzo della “Trilogia del Silo” di Hugh Howey, edito in Italia da Fanucci Editore

Facciamo un passo indietro, premettendo che non conosco la storia di Hugh Howey, se non che sia un buono scrittore che dal suo catamarano, sul quale viveva con la moglie, la pilota di linea ed ex modella Shay Londre, navigando tra Cape Town in Sudafrica e l’Australia (in realtà i due si sono da tempo trasferiti a New York), ha scritto come un indemoniato tonnellate di pagine, puntando come un siluro sul servizio di self-publishing di Amazon.

Proviamo a immaginare la storia di un altro scrittore che come il 48enne Hugh Howey ha avuto successo: come ha fatto? Negli Usa esistono corsi di laurea in scrittura creativa e ci sono intere sezioni dei dipartimenti di letteratura inglese in cui si insegnano a scrivere romanzi e racconti. Non molto tempo fa ci fu addirittura un ricercatore che si chiese se per caso questo sistematico diffondersi di scuole di scrittura universitarie non stesse in qualche modo azzerando l’originalità delle nuove generazioni di scrittori.

Beh, immaginiamo che il nostro autore clone di Hugh Howey faccia un bel corso di scrittura creativa universitaria, magari con gente del calibro di David Forster Wallace, Jonathan Lethem, Lisa Russ Spaar, Eula Biss. È facile che lo faccia con uno scrittore mediamente famoso (di quelli da lista dei libri del New York Times, per intenderci, che sono decine di migliaia) perché è il modo con il quale poi questi scrittori campano tra un romanzo e l’altro: insegnando a scrivere.

Se il nostro clone ha studiato alcuni anni fa, diciamo venti, ha imparato come si scrive qualsiasi cosa. Se invece ha frequentato il college più di recente si è trovato davanti a una tonnellata di insegnamenti diversi e molto specializzati: dalla gestione delle emozioni dei personaggi al rapporto tra genere e classe sociale sino a “come scrivere di se stessi” passando per “scrittura di viaggio”, storie di fantasmi, la poetica dell’estasi (aka come descrivere un orgasmo a parole) sino alla narrazione di paesi immaginari. Ma questa, come si dice, è solo la punta dell’iceberg.

Il nostro eroe si trova poi a frequentare corsi pratici per “accendere” la fantasia: Maria Montessori sarebbe stata orgogliosa di vedere che il suo approccio serve non solo ai bambini di materne ed elementari ma anche ai quarantenni che vogliono scrivere un romanzo. Nei workshop, in località esotiche e molto costose, si lavora tutti assieme a problemi individuali (nel senso che il gruppo dà sostegno ma ognuno scrive per sé) e poi il frutto della creazione rimane al suo legittimo titolare. Molte opere prime e seconde nascono così: in questi workshop che un Thomas Mann faceva da solo fumando la pipa in salotto, guardando in silenzio fuori dalla finestra, mentre i giovani d’oggi devono saltare vestiti da indiani su e giù per un cerchio infuocato con i propri colleghi che fanno la hola.

Tutto questo c’è anche da noi, più o meno, con le varie scuole Holden e dintorni. Solo che noi siamo indietro di quasi un decennio e per adesso siamo nella fase di istituzionalizzazione del processo di scrittura. Come nelle scuole di cinema e televisione, si insegnano tutte le forme della narrazione come fossero ricette di cucina e poi si procede all’assaggio stupendosi se i gusti sono già noti.

Poi arriviamo all’aspetto pratico: ora che abbiamo imparato a scrivere, cosa facciamo? La prima mossa è la scelta del software: solo i dilettanti usano Word. Se fate sceneggiature, non avrete altro dio che Final Draft o – se ci sono problemi di budget – il gratuito Celtx. Se invece volete scrivere romanzi e racconti sul serio l’unica via possibile è Scrivener (che fa anche le sceneggiature). Oppure il testo semplice su Google Keep, ma quest’ultima è un’ipotesi un po’ radicale.

Ammesso che abbiate cominciato a carburare e abbiate messo giù qualche idea (perché poi il clone di Hugh Howey lo abbiamo capito benissimo che siete voi), dovete partire a costruire il vostro mondo per arrivare ad avere una storia ricca, complessa e tormentata come quella di Silo. Una storia con personaggi veritieri, ambientazioni claustrofobiche, dinamiche sociali, che possono affascinare, spaventare, far innamorare milioni di lettori. Occorre avere un solido background di tutto, anche se poi non lo userete mai in concreto: dalla forma del silo al materiale usato per i gradini e come si consuma dopo secoli d’uso, da cosa si mangia in un ambiente chiuso senza morire tutti di scorbuto dopo tre anni a come funzionano gli impianti termici e di riciclaggio dell’aria, da cosa si fa ai piani alti e come ci si adatta a stare in quelli bassi.

Voi pensate di dover fare tutto da soli? Negli Usa ci sono consulenti per tutte queste fasi, che vi aiutano a trovare i bandoli delle matasse, a evitare errori grossolani (soprattutto scientifici ma anche sociali o psicologici), a tirare fuori dettagli su dettagli che poi vi serviranno solo come coerenza. Quello che una volta un bravo e capace editor di casa editrice riusciva a dire durante qualche pranzo a carico dell’editore per gestire i suoi autori adesso è stato dato in mano a torme di consulenti esterni. Un pezzo di filiera del libro che è diventata una rete di liberi professionisti, tutta da testare e verificare ovviamente.

Stessa cosa per le fase successive: prima stesura, seconda stesura, correzioni, editing, lettori “esperti” per capire se la struttura regge, lettori “di fino” per trovare errori più piccoli, fino all’editor di pagina che corregge refusi, scioglie frasi, trova sinonimi, sposta frasi. Al limite, riscrive. Perché poi i consulenti non è che lavorino per la gloria con i romanzieri inediti. Invece, spesso finiscono coinvolti all’incrocio tra il vanity publishing e la gente con un bel po’ di soldi che si può permettere di farsi scrivere il libro. Perché non prendersi direttamente un bel ghost writer allora, direte voi? Succede, ma è un’altra storia per un’altra volta.

Invece, se pensate che essere arrivati alla versione definitiva del manoscritto su Scrivener sia facile, vi sbagliate, perché avete solo iniziato il viaggio. Bisogna infatti “montare” il libro. Cioè trovare un grafico che faccia l’impaginazione, un designer per la copertina, un altro creativo e designer che faccia la landing page sul sito web e sui vari store online, un altro ancora che faccia da social media manager e cominci ad attivare le community. Per ogni pagina di libro che sarà pubblicata nel romanzo secondo le solite statistiche assurde fatte dagli americani servono due o tre tweet e mezzo post su Facebook.

Le due cose assolutamente irrinunciabili però sono l’editing (dai refusi agli anacoluti passando per le cose che proprio non tornano a livello macroscopico) e l’impaginatura (montaggio) del libro. Perché un libro impaginato da un dilettante si vede immediatamente: sballa tutto, dal font alla sua dimensione, ai margini, rientri, spazi, legature. Tutto. E il lettore se ne accorge subito, perché è come la cucina: i grandi cuochi sono pochi, ma quelli capaci di capire se stanno mangiando un piatto cucinato molto bene o molto male sono tanti.

La maggior parte delle professionalità necessarie per fare il libro si pagano, così come si pagano i passaggi sui social, il ranking del SEO, qualche passaggio di BookToker mediamente famosi. L’autore self-published “interiorizza” per così dire tutte le attività che gli editori seri una volta facevano di mestiere. Non tutti, molti. Infatti, case editrici “minori” non di qualità del vanity publishing (oggi anche alcune case una volta autorevoli e cadute in disgrazia economica) chiedevano e chiedono soldi per stampare il libro che poi non distribuiscono ma sostanzialmente rivendono solo al suo autore, che si trova così la casa invasa da qualche cassa di copie del suo capolavoro.

Se siete il clone del nostro amico di Silo avrete capito che il successo che vi è venuto incontro non è casuale ma è stato cercato con una determinazione estrema. Costruito, passo per passo. Non avete scritto di getto su un rotolo di carta da lasciare poi a una qualsiasi copisteria web aspettando che la gloria vi sommergesse. È un lavoro ulteriore rispetto a quello dello scrivere. Secondo me molto più difficile che non scrivere.

Tutto questo considerando che l’autore di Silo in realtà sarebbe rimasto un emerito sconosciuto con un po’ di soldi e un po’ di gloria se non fosse stato un talento nella vendita del suo lavoro al cinema e alla televisione. Contemporaneamente. Perché ha venduto sia all’uno che all’altra: la tv è arrivata prima con Apple, e qui si entra in un giro completamente diverso. Perché, per quanto uno possa aver venduto in libreria, se non sbarca sullo schermo, grande o piccolo che sia, rimane sostanzialmente un anonimo. Gli agenti intervengono a questo punto e spingono per la vendita dei diritti, ma occorre averli scelti bene, altrimenti si pappano tutto loro. È un’abilità anche quella.

Così, ecco che l’autore di Silo, oltre che talento più o meno costruito della scrittura, più o meno capace di mettere assieme quel che gli serve scriverlo, gestirne la produzione editoriale, la vendita via web, la sua promozione e via dicendo, ha dovuto anche sapersi muovere con interlocutori estremamente strutturati, vendere i diritti in maniera oculata e gestire lo sviluppo della sua property indirizzandola verso il tipo di produzione che non solo lo riempisse di denaro in stile “prendi i soldi e scappa”, ma gli permettesse di iniziare a costruire una carriera come autore quotato, i cui prodotti editoriali si potessero trasformare in serie tv o film “fatti bene”.

Qui entra in gioco Apple. La materia autoriale grezza con la quale i produttori e gli showrunner vogliono lavorare è infatti relativamente importante perché l’opera originale alla fine è solo una scusa, dal loro punto di vista. Ma dal punto di vista di chi ha scritto la storia dei libri, il risultato sullo schermo definisce per molto tempo il futuro del suo lavoro.

Quando è terminata la prima serie di Silo ho trovato mille possibili spunti di riflessione da cui ripartire. C’è ad esempio uno stile “Apple” che si sta delineando sempre di più con le varie produzioni di successo di Apple TV+. Sono meno, più curate, con un certo tipo di ambiti valoriali e determinati limiti morali che non vengono superati. Una specie di Disney ma per adulti, più fantascientifica e con una complessità crescente, che ha dalla sua una potenza visiva enorme perché ha budget molto elevati.

Alla fine, però, c’è un aspetto che mi ha colpito. La ricerca di storie dall’impatto narrativo potente che possano essere utilizzate per spendere bene i soldi della produzione. Con i budget di Apple, con la capacità di mettere in pista serie televisive con attori di notevole bravura e la produzione di effetti speciali e ambientazioni di serie A, servono storie relativamente vergini. Non storie nuove, attenzione, perché non ne esistono. Invece, storie che non siano già state messe in scena. Romanzi ben strutturati ma che non siano parte dell’immaginario, del già visto. Per questo, secondo me, Silo è stato scelto e sta avendo successo.

La conclusione – ammesso che un pensierino finale ci stia alla fine di questa digressione infinita su Silo, il self-publishing e il successo delle serie tv – è che manca l’ingenuità. Nel senso che tutto è cercato e costruito con fortissima determinazione. Altro che scrittori maledetti, storie scoperte per caso in soffitta, Vivian Maier della narrazione. Viviamo nell’epoca dei focus group e del lavoro di squadra. Il self-publishing è solo una strategia produttiva diversa, una carriera da imprenditore che fa start-up di contenuti. L’intenzione rimane la stessa, richiede solo molto più tecnica, applicazione e processi.

Leggi tutte le puntate di And So What?

Leggi anche: 12 cicli di fantascienza che dovreste leggere assolutamente

Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.

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