di Loris Cantarelli*

Vent’anni fa, il suo Blankets anche in Italia fece una certa sensazione (peraltro premiata in USA da due Eisner Award): il fumetto cominciava a “sgomitare” in libreria, raggiungendo un pubblico attento e curioso, quasi del tutto al di fuori della solita cerchia di appassionati che dalle edicole erano debordati in fumetteria. Chi cercava racconti realistici, senza tutine di supereroi né avventure eroiche, ebbe il piacere di scoprire una storia vera di crescita anche dolorosa raccontata con rara perizia.
Ora il volume torna in una nuova edizione, in tutt’altra situazione editoriale (il fumetto seriale arranca anche per il crollo delle edicole, mentre le librerie straripano di libri con le nuvolette) e con un terreno fertile di lettori poco avvezzi ai nomi di riferimento della Nona Arte ma sempre incuriositi da opere vecchie e nuove in grado di catturare la loro attenzione. Per l’occasione, abbiamo incontrato Craig Thompson.
Che effetto ti fa, a rileggere Blankets dopo 20 anni?
Che abbia mantenuto energia e vita per due decenni è un onore che mi fa rimanere umile. È invecchiato molto meglio di me! [Ride] Invidio la purezza creativa del giovane autore che ha creato questo libro. C’è una spontaneità e un’espressività nelle linee del pennello, un’apertura emotiva e una vulnerabilità nella scrittura che oggi ho qualche difficoltà a raggiungere nel cinismo della mia mezza età.
Quale fu la causa scatenante del processo che ti portò a realizzarlo?
Era un’epoca diversa, in cui i graphic novel esistevano a malapena e l’industria del fumetto era nota per i generi del fantastico roboante, come i supereroi e la fantascienza. Interi mondi venivano creati e distrutti in 48 pagine. Come contrasto, io ho voluto creare un libro lungo, che prendeva il suo spazio, con la lunghezza di un romanzo in prosa, in cui accadesse ben poco. Blankets non è di per sé guidato dalla trama. Si tratta di comunicare emozioni e di cercare di catturare l’esperienza molto semplice e che ti cambia la vita di condividere il letto con qualcun altro per la prima volta.

Che feedback dai lettori ricordi di più, all’epoca? Hai notato differenze nelle reazioni del pubblici nei vari Paesi o in fondo siamo davvero tutti uguali?
Certamente la seconda che hai detto. Siamo tutti uguali. Non avrei mai immaginato che Blankets avrebbe trovato un pubblico, anche negli Stati Uniti… perché parla di un’educazione nell’idiosincrasia e ben protetta nel bel mezzo del nulla del Midwest rurale. Sorprendentemente, però, i temi della famiglia, della fede e del primo amore si sono rivelati piuttosto universali. Ha creato un legame con i lettori di tutto il mondo.
L’interazione più surreale con i lettori è stata quando una coppia è venuta alle dediche del libro con una copia di Blankets da autografare che era stata intagliata per contenere un anello: l’uomo si è inginocchiato per fare la proposta di matrimonio alla sua ragazza davanti a me… Per fortuna lei ha accettato! [Ride]
È stato molto toccante anche un viaggio in Medio Oriente. L’Ambasciata degli Stati Uniti ad Amman, in Giordania, mi ha ospitato per tenere dei laboratori di fumetto. Ho lavorato con bambini sordi che vivono in un orfanotrofio a Salt City, per realizzare insieme dei fumetti. E ho lavorato con la prima ondata di rifugiati siriani, in fuga dalle loro case sulla scia della rivoluzione siriana nella primavera 2011 detta “della dignità”. Il fatto che molti di loro abbiano portato con sé una copia di Blankets nella manciata di oggetti che sono riusciti a salvare durante l’esodo è stato assolutamente straziante.
I tuoi genitori sono ancora orgogliosi del volume… dopo i primi tempi, diciamo così, “burrascosi”? E tu?
Sì, oggi i miei genitori sono orgogliosi del mio lavoro… e io gli credo. I primi 5 anni dopo la pubblicazione di Blankets in effetti sono stati difficili. Ma con il tempo è diventato più facile. In parte, sospetto che ciò sia dovuto al fatto che nessuno si è mai avvicinato a loro per criticare il loro modo di essere genitori. Anche qui, questi piccoli conflitti tra figli e genitori sono universali. Detto questo, i miei genitori preferiscono di gran lunga i miei lavori di fantasia, come Habibi (2011) e Polpette spaziali (2015). Al momento, sta creando delle tensioni il mio ritorno al territorio autobiografico con Ginseng Roots… di cui da voi in Italia è uscito il primo volume nel 2020.
C’è ancora la possibilità che da Blankets venga tratto un film? Ormai il cinema sembra guardare sempre più ai fumetti.
In effetti è dal 2016 che Blankets è stato opzionato da un importante produttore di Hollywood. A volte, il progetto sembra ottenere una certa trazione. Ci sono stati registi famosi, tre diversi sceneggiatori, molte sceneggiature… Ma ahimè, non si è concretizzato nulla. A me va bene così. Perché non ho mai disegnato un libro con l’intenzione di adattarlo in un altro medium. Con l’eccezione, forse, di Polpette spaziali, che sembrava più commerciale sotto molti aspetti.

Agli inizi scrivevi per i ragazzi, che è più difficile ma forse più appagante… hai cambiato approccio quando scrivi per gli adulti? O non fai troppa differenza?
Ho realizzato fumetti umoristici da 1-2 pagine per riviste per bambini dal 1998 al 2004: erano a colori e molto cartooneschi. Con Blankets, ho imparato a disegnare in uno stile più realistico, con una pennellata più organica ed espressiva. È impossibile mettere in relazione le due cose: i fumetti per bambini erano fondamentalmente una battuta e uno stipendio, mentre Blankets è stato un progetto d’amore profondamente personale.
Il mio primo libro completo, Addio, Chunky Rice (1999), era disegnato con uno stile cartoonesco, ma era sempre destinato a lettori più grandi, o almeno a ventenni emo-hipster come me.
Infine, nel 2015, a poco più di dieci anni da Blankets, ho realizzato il mio primo graphic novel per lettori più giovani, Polpette spaziali, una commedia sci-fi ispirata ai miei fumetti e film preferiti da bambino. È stata una boccata d’aria fresca, rispetto alle mie opere più serie. Sono riuscito ad accedere a quella parte del mio entusiasmo infantile che mi fece innamorare del medium fumetto quando avevo 9 anni. Ma alla fine, quel libro non ha mai trovato un pubblico.
Quali autori hai scoperto ultimamente e pensi ti stiano in qualche modo influenzando?
Blankets è influenzato soprattutto dagli autori francesi Blutch ed Edmond Baudoin. Il mio lavoro attuale, Ginseng Roots, è influenzato soprattutto dal giornalismo a fumetti di Joe Sacco, in particolare dal suo recente e brillante Tributo alla terra. Per le nuove influenze, sono in cerca d’ispirazione. Sospetto che avrò più fortuna a trovarne quando viaggerò in Europa a fine anno. Sono stati anni come in un tunnel, tutto fisso nel concentrarmi a finire Ginseng Roots, e non ho avuto molto tempo o energia per assorbire nuovi lavori di altri autori.
Nel mondo di oggi film e tv, animazione e videogiochi condizionano sempre più autori e lettori. Per te è un bene o un male, attualmente?
C’è probabilmente un miscuglio di effetti positivi e negativi di questi altri media nel contaminare chi fa fumetti. Quello che è frustrante per me è quando i fumetti vengono usati come trampolino di lancio per mezzi più redditizi. In America, molti autori sfruttano i comics come un modo per proporre una serie tv a Netflix. Non tengono conto del fatto che il fumetto è un medium a sé stante, che per molti versi è superiore.
I videogiochi e i film inducono il cervello animale a pensare che qualcosa di finto sia reale, mentre i fumetti allenano il cervello umano a vedere l’umano dietro la storia. I videogiochi e i film richiedono squadre enormi con centinaia e a volte migliaia di persone, montagne di denaro e sprecano risorse. Invece i fumetti possono essere realizzati da un singolo individuo e riflettere la sua umanità cruda. Ora che altri mezzi di comunicazione, come i videogiochi, sono più adatti a storie d’azione e di fantasia, questo permette al fumetto di concentrarsi sulla sua forza di medium più intimo, tranquillo e personale.

Quanto è diverso lavorare a colori e in bianco e nero nella tua esperienza?
Preferisco decisamente il bianco e nero. Per me è più elegante, intimo e leggibile. Ma i lettori più giovani e il pubblico moderno cresciuto con i media digitali richiedono il colore. Il compromesso ideale potrebbe essere l’uso di un colore extra, come sto facendo con i rossi e i grigi nel mio ultimo libro di Ginseng Roots. La seconda tonalità crea luci, ombre, volume e un po’ di “pop” sulla pagina senza distrarre dal disegno delle linee come fa il colore pieno.
I viaggi interiori alla fine sono sempre più importanti di quelli fisici, ma quanto sono cambiate le cose nella nostra epoca digitale e virtuale?
Sembra che il mondo digitale e virtuale ci distragga da connessioni più profonde con noi stessi e gli altri. Certamente, in America, sembra che gli algoritmi combattivi dei social media stiano alimentando una violenta divisione culturale, una mentalità del “noi contro loro”. Forse siamo intrappolati nei dolori della crescita di consapevolezza che si è liberata della specie umana come veicolo e si sta muovendo verso l’intelligenza artificiale come prossimo passo nella sua evoluzione. O forse tutto il rumore dell’era digitale diventerà così assordante, da indurci a concentrarci su ciò che significa essere umani e parte della natura.
Al momento hai un urgenza narrativa? Che cosa stai preparando per il futuro immediato e prossimo?
La mia urgenza narrativa è un anno sabbatico quanto mai necessario. Sono ormai 20 anni che faccio graphic novel a tempo pieno. Il mio finale Ginseng Roots sarà completato quest’anno… e ci sono voluti 8 anni per raggiungere questo traguardo. Ho bisogno di un momento per staccare, rivalutare, nutrire. L’ideale sarebbe che quella vacanza accendesse il recupero e l’ispirazione e che si aprissero nuove finestre… vedremo!
*La versione originale di questo articolo è disponibile sul mensile Fumo di China 331, ora in edicola, fumetteria e online.
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