RubricheShock in My TownFatevi una risata

Fatevi una risata

Un viaggio nelle storie di ieri e di oggi per provare a immaginare il nostro futuro. "Shock in My Town", una rubrica di Fumettologica a cura di Davide Scagni. Il martedì, ogni 15 giorni.

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Disegno di Brian Bolland da “Batman: The Killing Joke”

L’ironia salva sempre tutto, in questo strano Paese. Funziona ovunque, nel privato come nel pubblico. Altro che «non si può più dire niente». Qui da noi, la dittatura del politicamente corretto è una distopica pagliacciata. Puoi permetterti di dire o fare le peggio cose, ma se fa ridere va bene così. Se qualcuno verrà a contestare quello che dici, puoi sempre cavartela con una battuta. 

La freddura più o meno sagace, la barzelletta più o meno sconcia, la cazzata buttata lì, tanto per ridere – a noi piace, sempre. Ne abbiamo bisogno. Basta dare un rapido scorcio ai contenuti video sui principali social network, da Facebook a Instagram a TikTok, per vedere che subito dopo i gattini (e pet in genere) e il porno (in senso lato, si capisce), ci sono i comici. Niente di male, anzi. Alcuni sono anche bravi. 

D’altra parte, si sa, l’Italia è il paese della barzelletta. Dalla commedia dell’arte in poi, questo paese non riesce proprio a prendersi sul serio. Il nostro cinema lo ha capito meglio di tutti, dalle commedie (amare) di Dini Risi e Mario Monicelli, alle maschere di Totò, Alberto Sordi e Paolo Villaggio. Prima dei grandi affreschi Marvel pieni di battutacce, i nostrani successi di Natale erano già campioni nel prenderci per il naso. 

Lo stesso accade da decenni nel campo dell’informazione televisiva: la cronaca (anche morbosa), l’approfondimento politico, l’inchiesta giornalistica, per attirare pubblico devono metterci sempre la risata, lo sberleffo, la bassa presa per il culo. Scherzare coi fanti, senza toccare i Santi ovviamente. Satira? A volte si fa chiamare così, specie quando – per un qualche, fortuito incidente – corre il rischio di farsi censurare. Ma, per lo più, quello che passa nel mainstream è già lungamente rivisto e addomesticato, scarsamente pericoloso, quindi innocuo: un qualunquismo di bassa lega, che piace a tutti e non danneggia nessuno. Sia mai che gli inserzionisti si incazzino per davvero. 

Anche il nostro amato fumetto-mondo è fedele all’accezione anglosassone del termine: comics. Lo ha colto molto bene il più importante autore contemporaneo italiano, Michele Rech in arte Zerocalcare: noi italiani non possiamo esimerci dal fare battute neanche in uno scenario di guerra. Siamo fatti così, che ci vuoi fare? Tralasciando il lavoro grottesco e gustosamente satireggiante (nel senso del Satyricon di Petronio) della coppia Magnus-Bunker, o le genialità senza tempo di Jacovitti e Bonvi. 

Molto fumetto popolare, anche quando votato all’avventura drammatica, non manca di spalle comiche: dal Cico compagno pasticcione di Zagor, interprete inossidabile di un’ironia fisica e clownesca che suona ormai anacronistica, fino al Groucho di Tiziano Sclavi, la faccia allegra della depressione: ovvero, tutto il contrario di quella macchietta spara-freddure in cui è stato spesso trasformato. Ci voleva un Alessandro Bilotta per fare evolvere Groucho in qualcosa di diverso, levargli la maschera buffonesca di Pulcinella per trasformarlo nel paziente zero di una nuova apocalisse zombi (nella serie Il pianeta dei morti).

L’ironia, la satira, la comicità, anche quella più greve, sono armi potenti, che spesso però si rivoltano contro chi le impugna. In una versione rivisitata della cura Ludovico in Arancia meccanica di Stanley Kubrick, gli spettatori medi ingurgitano quintalate di cose divertenti per diventare allegri. L’allegria è la medicina migliore per farci passare la rabbia, per farci dimenticare il dolore: «Sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re», cantava Jannacci con Cochi e Renato in Ho visto un re. Negli anni Settanta, una generazione meno disillusa della nostra, vagamente ispirata da Bakunin, diceva: «La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà». Oggi invece, con poche lodevoli eccezioni, sappiamo che la risata è una potente arma del potere: il re è nudo, ma chi se ne frega. A guardar bene, la sua nudità non ci fa così ridere. Avete mai visto la faccia del tizio che ha inventato lo smile?

Non a caso, nei fumetti “seri”, la risata è spesso un carattere dei cattivi: i buoni sono troppo disperati per ridere delle loro disgrazie. Se va bene, la risata scaturisce dall’amara constatazione dell’assurdità che è il reale. Da Altan a Gipi, da Andrea Pazienza a Maicol&Mirco, da Dr. Pira a Leo Ortolani, da Bonvi a Silver (e tanti altri senz’altro ne dimentico), il comico ha sempre un retrogusto di consapevole disperazione

Nel finale di Batman: The Killing Joke, graphic novel di Alan Moore e Brian Bolland, il Joker ormai vinto racconta una stupida barzelletta a Batman per ribadire che i due nemici continueranno a scontrarsi nella immutabile irrealtà dei fumetti, uno dalla parte del male, l’altro dalla parte del bene. Il loro eterno scontro riecheggia nella testa dei lettori, rassicurati da una risata senza fine. Nel film Joker di Todd Phillips, la risata nervosa del pagliaccio esprime un’alienazione individuale che diventa metafora di un disagio collettivo, provocando una ribellione che rimane però nell’ambito della patologia, qualcosa da controllare più che da curare. 

L’immutabile macchina sociale ha confinato i propri momenti eversivi in spazi ben definiti, innocui e non pericolosi. Altro che «una risata vi seppellirà»: ormai la comicità non sembra avere più alcun effetto sulla realtà, al contrario è un modo facile di uscire dall’impiccio delle nostre menzogne. Nello speciale di Dylan Dog numero 35, intitolato Una risata vi resusciterà, di Alessandro Bilotta e Sergio Gerasi, scopriamo per la prima volta le vere origini dell’assistente di Dylan. Groucho è in realtà Waldo Wilkinson, un mentitore, uno stand-up comedian che si prende troppo sul serio, che non riesce a separare l’illusione dalla realtà: un uomo ottimisticamente deciso a raccontare al mondo una verità che è solo nella sua testa, a costo di ingannare non una ma due famiglie. 

E c’è una cosa che Bilotta fa dire a Waldo Wilkinson, in questa storia splendida e sorprendente: «La bugia più grande è quella di far credere a chi ci mente che gli crediamo». Forse, questa è l’unica risata che possiamo ancora permetterci: ridere dell’immensa menzogna della nostra vita. Quella di chi ancora pensa di farci ridere.

Leggi tutte le puntate di “Shock in My Town”

Leggi anche: Alan Moore e l’eredità di “Batman: The Killing Joke”

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