Se non siete particolarmente appassionati di animazione, il nome di Andreas Deja non vi dirà niente, ma avete di sicuro visto qualcuno dei suoi lavori. Deja è infatti uno degli animatori che, tra gli anni Ottanta e Duemila, prese parte al Rinascimento Disney, animando o supervisionando personaggi come Roger Rabbit, Gaston (La bella e la bestia), Jafar (Aladdin), Scar (Il re leone), Topolino, Hercules, Lilo, Tigro e tanti altri. La sua ultima opera è il cortometraggio Mushka, racconto dell’amicizia tra una bambina e una tigre, che Deja sta presentando ai festival d’animazione in giro per il mondo.
Tra le sue varie attività c’è anche quella di curatore, e l’anno scorso ha firmato una mostra dedicata a Il libro della giungla, Walt Disney’s The Jungle Book: Making a Masterpiece (di cui è stato fatto anche un catalogo notevole), esposta al Walt Disney Family Museum. Abbiamo colto l’occasione per parlare con Deja dell’importanza del film e della sua carriera.
Durante le ricerche per la mostra dedicata al Libro della giugla hai scoperto qualcosa di nuovo o che ti ha fatto guardare al film con occhi diversi?
Sì e no. Conosco il film come le mie tasche. Fu il primo film Disney che vidi da bambino, in Germania. Mi cambiò la via. In pratica, è il motivo per cui sono qui a Los Angeles con una carriera da animatore. A volte mi domando se le cose sarebbero andate diversamente se non fosse stato Il libro della giungla, se fosse stato Peter Pan o La carica dei 101. E la risposta che mi do è: probabilmente sì. Fu sufficiente il fatto di vedere per la prima volta l’animazione Disney a un’età molto suscettibile. Sarebbe potuto essere qualsiasi altro film, ma il caso volle che fu Il libro della giungla.
Per quanto riguarda le ricerche, come dicevo, ne sapevo già moltissimo perché ho avuto la fortuna di conoscere le persone che ci avevano lavorato, come Frank Thomas, Ollie Johnston, Milt Kahl, Eric Larson, che poi fu la persona che mi prese sotto la sua ala e mi insegnò il mestiere di animatore. Era durante gli anni Ottanta, quando erano ancora tutti vivi. Ho passato moltissimo tempo a parlare con loro dell’animazione e delle loro carriere. Volevo aggiungere qualcosa per la mostra e trovare qualcosa che la gente non sapesse. Sono andato negli archivi Disney, che è dove sono conservati tutti i materiali di produzione ma anche le comunicazioni aziendali, che di solito sono lettere battute a macchina indirizzate a singole persone o reparti.
Volevo sapere che cosa fosse successo durante la produzione de Il libro della giungla. Ho scoperto che Disney aveva visto gran parte del film. Non vide il finale, perché Ollie Johnston, che animò Shanti, la ragazza del villaggio, disse che il suo ultimo meeting con Walt fu a proposito di quella scena, che però era ancora nelle prime fasi di lavorazioni, e discussero del design di Shanti e di alcune animazioni di prova. Milt Kahl mi disse che Walt approvò una sua scena verso la fine del film (quella in cui Shere Khansta interroga Kaa, il serpente, per scoprire dove si trovi Mowgli), quindi la mia ipotesi è che abbia visto tra l’80 e il 90% delle animazioni. Il libro della giungla è un film che ha il marchio di Walt Disney, non è una produzione che lui ha supervisionato a distanza o solo nelle prime fasi.
C’è un documento che trovo particolarmente interessante. Walt aveva appena visto la scena con Re Luigi e diede suggerimenti molti specifici sul design a Kahl e Thomas, che avevano animato la sequenza. Disse loro che l’animazione andava bene, ma che stavano pensando al personaggio in maniera troppo animalesca, doveva essere più accattivante, gli occhi erano troppo piccoli e avrebbero dovuto mettere dei peli in testa perché Luigi sembrava strano da calvo. Suggerimenti molto puntuali. Erano tutte cose che non sapevo del coinvolgimento di Walt nel film.
È interessante perché, come raccontano le cronache, a un certo punto della sua vita Disney si dedicò ad altro (i parchi tematici, le produzioni dal vivo) lasciando lo studio d’animazione in mano ai suoi collaboratori. Disney non ebbe granché a che fare con La carica dei 101 o La spada nella roccia, mentre su Il libro della giungla tornò a occuparsi del suo primo amore.
È proprio così. Gli animatori ci raccontavano sempre che all’epoca de La bella addormentata nel bosco non riuscivano a parlare con Walt, non aveva mai tempo per le riunioni con loro e, quando riusciva a dare dei suggerimenti, li dava su parti del film che erano quasi ultimate e non potevano essere modificate granché.
Nel caso della Carica dei 101, Disney lasciò tutte nelle mani di Bill Peet – una cosa senza precedenti – e quando il film si rivelò un successo si sentì sicuro di cedere a Peet le redini del comando per il film successivo, La spada nella roccia. Però quel film non andò bene (e non piaceva nemmeno a Walt) e presumo che Walt avesse pensato «meglio se torno a occuparmi dei film animati, queste produzioni possono deragliare facilmente se non ci sono io al comando». Infatti per Il libro della giungla fu molto presente, collaborando in ogni fase, dal design alla scrittura delle gag. E si vede. Disse perfino agli animatori «sapete, mi ero dimenticato quanto fosse divertente lavorare a questi film».
Anche se dovette fare pace con lo stile xerox…
Quello fu un vero shock per lui, vedere tutte quelle linee sullo schermo. Ma quando La carica dei 101 si rivelò un successo, capì che alla gente piaceva. Ed era un metodo di produzione più economico, necessario perché non potevano più permettersi la manodopera per inchiostrare. E di sicuro piaceva agli animatori, che finalmente vedevano il loro lavoro grezzo sullo schermo. Gli ci volle un po’ ad abituarci.
Però, anche se i personaggi de Il libro della giungla sono realizzati con lo stile xerox e si vedono le linee della matita, gli sfondi no. Ci fu un compromesso. E io ci penso sempre: è un compromesso che non dovrebbe funzionare. Però presumo che i personaggi, essendo comunque molto morbidi, e gli sfondi quasi acquerellati, è come se i primi fossero a fuoco mentre lo sfondo fosse un po’ fuori fuoco. Ma è comunque un acosa che mi stupisce. Funziona, ma non dovrebbe!
A te sarebbe piaciuto fare un film in cui si vede la linea dell’animatore?
Certo! Vorrei sempre vedere i miei disegni sullo schermo. Feci una cosa quasi in stile xerox nel mio ultimo film Disney, Winnie the Pooh – Nuove avventure nel Bosco dei 100 Acri. Siccome animavo Tigro, che all’epoca era stato animato da Milt Kahl, volevo fare come lui. Di solito i disegni degli animatori subiscono il “clean up”, vengono ripuliti da una persona che li ridisegna con un solo tratto di matita. I disegni di Kahl erano talmente precisi che subivano solo un “touch up”, un ritocco, non venivano ridisegnati, soltanto sistemati un po’ e poi finivano sullo schermo.
Nei parlai con la persona incaricata di pulire i miei disegni, che mi disse «d’accordo, ma dovrai disegnare in maniera molto precisa, perché non abbiamo tempo per cancellare i segni in più». E lo feci. In quel film quindi vedi i miei disegni sullo schermo. La cosa interessante è che pensavo che lavorare con precisione mi avrebbe rallentato, e invece andai più veloce. Fu una grande scoperta, la precisione non comprometteva la velocità di esecuzione.
I film della Disney moderna non sarebbero mai potuti essere realizzati con lo stile xerox. Quando li disegnavano negli anni Settanta, gli stili di disegno erano molto simili tra di loro. I personaggi erano tutti, come si dice, on model, uguali al modello di riferimento che viene dato all’inizio della produzione. Non tutti disegnavano on model, tante persone avevano stili di disegno diverso. Andavano per forza uniformati dal reparto che si occupava di rendere coerente il film visivamente.
Tu sei mai venuto a patti con la mediazione tra quello che disegnavi e quello che finiva sullo schermo?
È la natura del mezzo. Una linea spontanea avrà sempre più vita di una linea ricalcata. Ci pensavo l’altro giorno: tanti anni fa vidi La bella addormentata nel bosco in 70mm. Si vedeva benissimo, e restai estasiato dalla pulizia di quel film. Dissi a Marc Davis, uno dei nine old man che ci avevano lavorato, che di sicuro loro erano molto fieri del lavoro fatto dagli inchiostratori.
E invece lui mi disse che erano arrabbiati, preferivano i loro disegni grezzi. Anche in un film del genere, che è formalmente perfetto… è frustrante. Ma poi ci sono animatori a cui non importa per niente e che si fidano delle persone che mettono le mani sui loro disegni. Io no, sento sempre la necessità di fare dei ritocchi!
È un problema che gli animatori di film al computer non hanno.
A noi veniva affidata la responsabilità di quei personaggi. Nell’animazione a matita, si lavora su un singolo personaggio. Nell’animazione al computer, ti assegnano delle scene e tu devi animare qualunque personaggio ci sia in quell’inquadratura. Visivamente saranno sempre coerenti, perché il modello non cambia mai, ed è come animare una marionetta, ma si perde la paternità di un personaggio. Noi riuscivamo a imprimere la nostra personalità e il nostro stile nei personaggi.
Ti faccio un esempio: il Genio in Aladdin è animato da Eric Goldberg e in lui c’è tutto Eric, la sua simpatia, la fluidità del suo segno. Se l’avessi fatto io sarebbe stato tutto un altro personaggio e non sarebbe stato così memorabile. Per questo lo affidarono a Eric. Animare è una forma espressiva personale che, quando è fatta al computer, magari cambia un po’ in base a chi anima un personaggio, ma non molto.
Questa perdita di paternità è in qualche modo una perdita di autorialità?
Più che perdita, parlerei di un passaggio delle responsabilità creative. Tempo fa ero a un incontro pubblico con un produttore Pixar e dal pubblico arrivò la domanda «qual è la differenza tra affidare una scena a un animatore tradizionale rispetto a uno che lavora al computer?». Lui disse chiaramente che nel disegno a matita l’animatore ha moltissima responsabilità per quello che succede da un punto di vista attoriale – cosa fa il personaggio, come si muove – mentre in un film al computer questa responsabilità è tutta del regista.
Forse è anche il motivo per cui mi vengono in mente i nomi di molti animatori tradizionali, ma quasi nessuno al computer. Magari anche per motivi di marketing, ma voi eravate delle vere celebrità negli anni Novanta.
Già, era anche molto divertente. Eravamo parte della macchina promozionale. Dopo aver faticato sul tavolo da disegno ci portavano in giro per il mondo a prendere gli applausi. È una fortuna che oggi capita a pochi. Oggi quando si tratta di fare promozione per un film animato, di solito chiamano il regista, forse il soggettista a capo della storia e poi i doppiatori.
Quando eri ragazzo, come ti informavi sulla Disney e l’animazione?
Non c’era molto da reperire. Non esistevano libri o riviste. Ricordo che con l’aiuto del mio insegnante d’inglese mandai una lettera alla Disney piena di domande in cui chiedevo cosa avrei dovuto fare. Non sapendo l’indirizzo scrissi solo “Los Angeles, California”. E arrivò! Fu come scrivere una lettera a Babbo Natale: non scrivi la via, metti solo “Polo Nord”.
Mi risposero con una lettera precompilata che però spiegava bene quale fosse il percorso. Mi colpì che scrissero «non ci inviare disegni di Topolino, quelli te li insegneremo a fare noi, preoccupati di diventare un disegnatore». Sapevo che dovevo essere un bravo disegnatore e che il resto me l’avrebbero insegnato loro. Così frequentai scuole d’arte e nel frattempo, visto che non esistevano corsi per animatori, mi davo dei compiti.
Mio padre mi costruì un tavolo da animatore. Poi riuscii a entrare in contatto con Eric Larson. Ci scrivemmo molte lettere e poi una volta lui venne in Germania in vacanza. Io capivo solo metà di quello che diceva, perché il mio inglese non era buono, e ricordo che gli fissavo la bocca per cercare di estrapolare ogni sillaba di conoscenza possibile. Vide i miei lavori e mi inserì nel programma di formazione dello studio.
Qual fu il miglior consiglio che ti diede?
Di rendere le cose personali, credo. Muovere le cose in modo carino non è abbastanza. Devi far sembrare che questi personaggi stiano pensando. C’è la tecnica e poi c’è lo spirito. Per lui era importante, e aveva ragione.
I tuoi genitori come la presero quando esprimesti il desiderio di diventare animatore?
Era molto strano per loro. Non sapevano niente di questo mondo o dell’arte in generale. Mi lasciarono fare, però non sapevano nemmeno come supportarmi. Quando fui accettato nel programma di formazione per loro fu un trauma. Pensavano che quello dell’animazione sarebbe stato un hobby e che il mio lavoro sarebbe stato quello d’insegnante. Io dissi loro che, finito il periodo di formazione, se non mi avessero assunto sarei potuto tornare a casa.
Poi successe una cosa sciocca. Era passato circa un anno, e una televisione tedesca era venuta a sapere che lavoravo per la Disney. Mandarono una troupe per intervistarmi e trasmisero l’intervista in Germania. Mia mamma la vide e rimase colpita, ma le cose cambiarono davvero quando la mattina dopo andò dal panettiere e le dissero «abbiamo visto tuo figlio in tv! È famoso!». Quando il mondo esterno mi legittimò allora anche loro si tranquillizzarono. Bastò questa stupidata. [Ride]
Il libro della giungla è un film che molti registi citano come il loro preferito, perché è il perfetto manuale di recitazione animata. È solo quello o c’è dell’altro?
Mi sorprende sempre che molti appassionati lo critichino perché «non c’è storia, non succede niente». Invece succedono cose, solo che sono molto semplici. È la storia di un ragazzino che, nel capire quale sarà il suo futuro, incontra personaggi che tentano di manipolarlo o sedurlo. E sono tutti personaggi eccentrici, ognuno interessante a modo suo.
Proprio perché la storia è modesta c’è tutto il tempo per conoscere i personaggi. Il libro della giungla è tutto un film di personaggi. A oggi, credo che sia il cast di personaggi che lo spettatore impara a conoscere meglio di ogni altro personaggi Disney. Perché negli altri film c’è tantissima trama che, giustamente, prende spazio al racconto dei personaggi.

Aladdin ha da poco compiuto 30 anni. Il tuo rapporto con il film è cambiato rispetto a quello che avevi all’epoca?
Domanda interessante. All’epoca ero un po’ frustrato. Il primo animatore chiamato a lavorare sul film fu Eric, che realizzò il Genio, e fin da subito si capì che sarebbe stato un personaggio straordinario che si sarebbe mangiato il film. Non avevamo mai visto niente di simile. Era fresco, nuovo e davvero ben fatto. Iniziò a prendersi così tanto spazio che pensavo «tanto vale chiamarlo Il Genio: Il film».
Dall’altra parte c’ero io che cercavo di capire come stare al passo con Jafar. All’inizio fu un compito frustrante e anche spaventoso. In Aladdin tutti i personaggi si muovono tanto e sono dinamici. Il Genio, ovviamente, ma anche Aladdin, Abu, il Tappeto… così pensai di ridurre al minimo i suoi movimenti e creare questa nuvola scura sopra il film. Meno lo facevo muovere, meno gesti esuberanti gli facevo fare, più efficace diventava.
Si muove tutto di bocca infatti.
Sì, infatti volevo divertirmi con la bocca, farla muovere a destra e a sinistra quando Iago gli cammina sulle spalle, farle assumere espressioni strane, scimmiesche.
C’è un momento di Jafar di cui vai particolarmente fiero?
La scena in cui Jasmine, nella prima parte del film, parla con Jafar per chiedergli come mai Aladdin è stato arrestato e lui la manipola facendole credere che il ragazzo sia morto. Quella tensione nella conversazione mi piace molto.
Quale fu il momento più difficile di Aladdin?
Il giorno in cui Jeffrey Katzenberg vide la prima versione del film e disse «potete tenere il titolo». A volte succede come La sirenetta, la cui produzione filò liscia, altre volte è «dobbiamo ricominciare da capo».
A te però è capitato spesso il momento «dobbiamo ricominciare da capo».
Spesso sì. [Ride] La bella e la bestia, Aladdin…
Anche Le follie dell’imperatore.
Quello fu l’unica produzione che abbandonai. Di solito non si fa. Non si abbandona un gruppo di lavoro. Ero davvero entusiasta di lavorare su Yzma. Nelle prime versioni era una donna vanitosa che agognava la giovinezza e faceva un patto con uno spirito malvagio che era stato intrappolato nella montagna all’alba dei tempi, dagli dei del sole, e fa un patto: lei lo libererà, lui in cambio le darà l’eterna giovinezza. Era una premessa fantastica, migliorata dalla voce di Eartha Kitt. Avevo grandi idee per quel personaggio, ma poi iniziarono, prima ancora della versione che uscì nei cinema, a farla diventare un personaggio comico, non più malevolo e seducente.

E allora andasti a lavorare su Lilo & Stitch.
Mentre la produzione era in pausa ero andato al terzo piano, dove lavoravano ai progetti nuovi e avevo visto questo bellissimo disegno di Lilo nell’acqua che tiene in braccio un pesce. Rimasi folgorato e mi feci raccontare tutta la storia. Era stupenda. Chiesi di poter essere trasferito e mi dissero che sarei dovuto andare ad animarlo negli studi in Florida. Non me ne importava, avrebbero potuto mandarmi in Africa e ci sarei andato.
I Nine Old Men vi facevano appunti sui vostri film? Erano puntigliosi?
Eccome se lo erano! Non se altri miei colleghi andavano a chiedere loro un parere. Io lo facevo perché volevo sapere cosa pensavano del nostro lavoro. Sapendo chi erano e cosa avevano fatto, prima di sentire la risposta scappavo via. [Ride] Per esempio, a Frank Thomas e Ollie Johnston non piaceva che si vedesse il cadavere di Mufasa ne Il re leone. Loro in Bambi avevano affrontato la morte in modo completamente diverso, senza mostrare nulla. Funziona, ma credo che funzioni anche ne Il re leone perché è un film che parla di morte e che doveva affrontare quel tema di petto.
E poi Bambi è un film di vuoti, di sottrazione. Era più coerente non mostrare e solo alludere.
Marc Davis, sempre parlando de Il re leone, mi disse che loro per Bambi avevano studiato l’anatomia del cervo così tanto che a ogni passo dei personaggi c’era il peso e la credibilità di quell’animale. E poi aggiunse «quando guardi Il re leone quei leoni sembrano peluche». Non fu piacevole sentirselo dire. Ma non me la presi, perché era il suo punto di vista ed era un maestro delle anatomie. Per lui non era abbastanza credibile come anatomia. Però Frank e Ollie mi fecero un bel complimento – e non erano persone che concedevano complimenti facili – perché trovavano Jafar un personaggio molto ben riuscito.
Aladdin fu l’ultimo film realizzato dallo studio tutto insieme, perché poi si divise in due squadre di lavoro. Questa cosa ha cambiato in qualche modo i film?
Sì, in meglio. Ci diedero più tempo, tanto per cominciare. Di norma, animavano un film in dodici mesi. Finivamo La bella e la bestia e ci dicevano «benvenuti ad Aladdin! Siete già in ritardo». Eravamo sempre in ritardo. Facevamo le ore piccole, non vedevamo le nostre famiglie neanche nei fine settimana pur di finire in tempo i lavori sui film. Sono andati in fumo molti matrimoni, la gente si è ammalata. È stata dura.
Verso la fine di Aladdin lo facemmo sapere alla dirigenza, durante un ritrovo aziendale sulla Queen Mary, a Long Beach. Una settimana dopo ci dissero «d’accordo faremo così: assumeremo nuovi dipendenti e vi divideremo in due gruppi di lavoro, e avrete un anno e mezzo di tempo per animare», quindi sei mesi in più rispetto a prima. Fece tutta la differenza.
Ti senti lo stesso animatore di quando facesti Aladdin?
Mi piacerebbe pensare di essere più eclettico, come animatore, per via delle esperienze che ho avuto dopo. Penso di saper fare più cose. Lavorare al mio film, Mushka, mi ha permesso di animare tutti i personaggi del film. Mi sento più sicuro.
Un nuovo Nine Old Man in pratica.
All’epoca io, Glen Keane e altri venivamo scherzosamente chiamati i “Nine Young Men”. Non so, ho accumulato un po’ di conoscenza del passato, grazie all’amicizia con alcuni dei Nine Old Men, perché quando capivano che eri davvero appassionato e devoto all’animazione, ti raccontavano tutti i loro segreti, le storie, i conflitti. E all’improvviso queste persone che consideravamo divinità, diventavano umane.
È anche per questo che ho aperto il mio blog, ormai dodici anni fa, per condividere e magari aggiungere mie storie. Una volta fui invitato a parlare alla Dreamworks, erano già due o tre anni che avevo aperto il blog, e in ogni ufficio erano appesi i disegni di Milt Kahl o altri che avevo pubblicato online. Ed era proprio quello che speravo accadesse. La diffusione della conoscenza.
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