
Più che una serie tv, quando si guarda l’adattamento live action Netflix di One Piece, il popolare manga di Eiichiro Oda, sembra di vedere dei cosplayer ripresi da una GoPro che scorrazzano nella casa di Prezzemolo a Gardaland. Dietro questo One Piece ci sono gli sceneggiatori Matt Owens (Luke Cage, The Defenders, Agents of S.H.I.E.L.D.) e Steven Maeda (Helix, Pan Am), che hanno nel curriculum tutta roba al gusto di nulla, e sono, forse proprio per questo, i più adatti al ruolo di impiegati che trascrivono i testi del manga senza aggiungerci nulla di personale.
Così, pur rispettando i passaggi della trama (che adatta il primo ciclo di storie, la Saga del Mare Orientale), tutta l’inventiva e l’umorismo sgangherato di Oda sono spenti da sceneggiature dritte come l’asfalto, per cui è difficile esaltarsi. Non aiutano neanche gli attori, sui cui volti alberga più entusiasmo che bravura. L’unica eccezione è rappresentata dal protagonista Iñaki Godoy, che infonde nel personaggio di Luffy quel senso di speranza, gioia fanciullesca e irruenza tipici di Cappello di Paglia.
Nel raccontare le avventure fantastiche di Luffy – un giovane intenzionato a mettere insieme una ciurma per trovare il tesoro più prezioso del mondo, il One Piece, e diventare il re dei pirati, in un mondo immaginario popolato da creature di ogni tipo e frutti che donano poteri speciali – la serie tenta di replicare lo spirito ciarliero e comico del manga, senza averne i mezzi. La supervisione diretta di Oda, che a Repubblica ha detto di aver voluto una serie «luminosa e ottimista» e «che doveva essere fedele a quello che i lettori amano», farebbe pensare che ci sia stata attenzione a non tradire la miscela di azione, umorismo e stile sopra le righe dell’autore. E c’è, in effetti, una certa, prodigiosa, dose di fedeltà alle vicende del fumetto, con riferimenti ed easter egg che faranno contenti gli appassionati. Ma la trasposizione è fiaccata da un senso generale di povertà.
La povertà è quella, apparente, del budget. Scrivo “apparente” perché One Piece è una delle serie tv più costose mai prodotte da Netflix (circa 18 milioni di dollari a puntata, per un totale di 144 milioni, ma comunque ben sotto i 30 milioni spesi a puntata per Stranger Things)*. Sullo schermo però non si vede che un decimo di quella cifra.
{*Se avete visto Fondazione sono sicuro che, come me, avrete pensato alla vagonata di milioni piovuti sulla produzione per realizzare costumi, scenografie ed effetti visivi di tutto rispetto, e invece tutta la prima stagione è costata solo 45 milioni di dollari. Di contro, ho scoperto che ogni episodio di WandaVision – ricordiamolo, una serie ambientata IN UNA CASA – è costato 25 milioni di dollari. Fa riflettere, vero?}
Una decisione schizofrenica ha portato i realizzatori da una parte a relegare le scene d’azione (ossia i momenti più d’interesse del manga, come ha testimoniato il fomento per la nuova trasformazione di Luffy) a poche insipide sequenze che non reggono il confronto con il manga ma neanche con la media delle produzioni televisive di questo genere; e dall’altra a chiudere le inquadrature attorno ai volti dei personaggi, ripresi costantemente con primi piani grandangolari.
L’insistenza con cui la regia porta avanti questa scelta (sono tanti i momenti, anche concitati, ripresi sempre da vicinissimo), a cui si aggiunge una fotografia quasi sempre in penombra, non riesce a comunicare la geografia delle scene e soffoca l’elemento immaginifico e quel senso del meraviglioso che il manga ha saputo creare attraverso un variopinto worldbuilding.
Purtroppo, anche se avessero allargato l’inquadratura o aggiunto qualche faretto, ci sarebbe stato ben poco di interessante da vedere: le scenografie e i costumi sono sì (abbastanza) fedeli al manga, ma sembrano usciti da una produzione amatoriale, da parco giochi alla meglio, privata del taglio davvero surreale dei design di Oda. La caratterizzazione visiva dei personaggi, eclettica nei riferimenti e cartoonesca nello stile, è il punto di forza del manga: trasportare i design di Buggy (un pirata nato con un naso da clown) o Arlong (un uomo-pesce) nella realtà significa venire a patti con l’effetto alienante che assumono quando scavallano nel mondo in carne e ossa.
Trovare una quadra è difficile, ma stando un po’ nel reale e un po’ nel fantasy si è finiti per cascare nella cifra del marchio Netflix, ossia un «gusto da due soldi, un tanto al chilo e vagamente trash senza alcuna patina ironica o post-ironica». La sensazione di amatorialità avvinghia questa produzione faraonica dall’inizio alla fine e agli appassionati resta solo il piacere di vedere i propri beniamini prendere vita sullo schermo. La cosa più sorprendente è che, mentre trasportava fedelmente l’opera di Oda, One Piece si sia persa per strada la vitalità del manga.
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