
Non c’è niente da fare: contro Barbie vince Oppenheimer. E lo fa a man bassa. Per quanto il film di Greta Gerwig – di cui abbiamo parlato all’uscita a fine luglio – sia davvero un blockbuster sovversivo e postmoderno, il film di Christopher Nolan che racconta la parte cruciale della vita di J. Robert Oppenheimer, il fisico teorico americano alla guida del Progetto Manhattan che durante la Seconda guerra mondiale costruì la bomba atomica, è un gradino sopra alla pellicola scritta da Gerwig con il marito Noah Baumbach. I meriti della supremazia di Oppenheimer dipendono da tre fattori diversi, che qui vedremo brevemente. Ma non prima di aver osservato un’altra cosa.
Negli Usa il film è uscito in contemporanea a Barbie, mentre in Italia stranamente (visto che i grandi film americani tendono a uscire parallelamente o leggermente prima in Europa) è uscito solo adesso. Lo abbiamo visto di sera, in un multisala di Milano gremito di spettatori e con tutte le sale e le proiezioni piene. Barbie non aveva avuto questo pubblico, eppure è già stato un notevole successo. Ma Oppenheimer è qualcosa di più: è veramente un film capolavoro. Di quelli che quando esci hai la sensazione di aver visto qualcosa che rimarrà, anche se con una piccola perplessità.
Cominciamo dal primo fattore: la storia. Non ce n’è una immaginabile che abbia più pathos e più conflitti dentro. La storia del fisico che ha guidato il progetto per la costruzione della bomba atomica e che ha provato che poteva funzionare con il test Trinity, il più grande successo della fisica applicata del Novecento. Come il presidente americano Harry Truman ricordò a Oppenheimer, mentre il fisico americano sarebbe stato ricordato per il test Trinity, lui sarebbe invece stato ricordato per aver fatto sganciare la seconda e la terza bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, uccidendo più di 200mila persone (secondo le stime forse addirittura 226mila, per la maggior parte civili).
Nonostante questa distinzione, che in realtà aggiunge ulteriore pathos al dramma, le dimensioni della storia di Oppenheimer, della bomba atomica, della corsa di un gruppo di scienziati prevalentemente ebrei contro i Nazisti, dello spettro del comunismo sono tali da poter essere paragonate solo a una trilogia di tragedie greche. Un enorme capolavoro narrativo in attesa di essere raccontato. Nolan l’ha fatto, scrivendo anche la sceneggiatura a partire dal libro di Kai Bird e Martin J. Sherwin Un Prometeo americano.
Poteva essere un disastro, perché la storia era talmente forte di per sé che era facile sbagliarla, ma questo non è accaduto. Era un colpo sicuro, e Nolan l’ha saputo eseguire in maniera impeccabile. Tanto che le tre ore del film hanno anche il grande pregio di passare via senza mai una caduta o un momento di stanca. La tensione regge, costantemente. Questa volta Nolan farà il botto di Oscar.
Secondo fattore: gli attori. Qui c’è da dire che le scelte di Nolan sono state arrischiate, e non sempre ha vinto. Ma è riuscito a tenere tutto insieme. Grazie alla straordinaria produzione, sempre in bilico fra intimità del teatro ed enormità del grande cinema. Comunque, qui si può fare una pagella molto rapida: Cillian Murphy è semplicemente perfetto; Emily Blunt ha un ruolo difficile, che cresce nel proseguire del film, sino a risplendere di una terribile cupezza; Florence Pugh ha poche scene, alcune molto forti, ma è eccellente anche lei; le star a contorno, cioè Josh Hartnett, Casey Affleck, Rami Malek e Kenneth Branagh, sono molto molto buone. Per fortuna questa volta non c’era Michael Caine, che è sempre apparso nei film di Nolan e che è stupendo, ma che qui sarebbe stato di troppo. Invece, i problemi arrivano con Matt Damon e Robert Downey Jr.
Il primo ha dimostrato davvero poca respiro e poca dinamica nella sua interpretazione, recitando un se stesso imbolsito, con pochi movimenti e poca generosità. Mi aspettavo di meglio, ma quando è in scena sembra purtroppo di vedere il Matt Damon messo su TikTok e gli altri social che racconta le storie da talk show su Tom Cruise o su Jack Nicholson. È sempre uguale a se stesso, ha due espressioni in tutto e (a differenza di Clint Eastwood) non sono neanche convincenti.
Invece, il problema con Robert Downey Jr. è all’opposto: uno degli attori meglio dotati della sua generazione ma che è rimasto schiacciato sotto un ruolo gigantesco che ha fatto su di lui un typecasting spietato, cioè il personaggio Marvel stranoto di Iron Man/Tony Stark. È tremendo, non si può vedere. Ti aspetti che faccia qualcosa di supereroistico e non lo fa mai. Eppure qui in Oppenheimer RDJ fa tutto molto bene: è invecchiato alla grande, è mellifluo al punto giusto, è cattivo con durezza, è spaesato, è capace di passare da stati emotivi molto diversi come il meteo di Melbourne che fa tutte le stagioni in un giorno solo, e riesce a farlo. RDJ all’interno di un personaggio narcisista e umanamente deprecabile.
Eppure eppure, sembra sempre di vedere Tony Stark travestito che fa la finta in cui è particolarmente antipatico, e ti chiedi quando si metterà su l’armatura e comincerà a mazzuolare i cattivi con qualche battuta da ganassa. Dev’essere per questo senso di spaesamento che alla fine del film una trentina di spettatori piuttosto giovani sono rimasti in sala a guardarsi i titoli di coda. Forse si aspettavano una scenetta post-titoli che chiudesse qualche pezzetto di storia lasciato aperto? O aprisse a un ipotetico sequel sulla bomba H? O forse era un riflesso pavloviano alla presenza di Robert Downey Jr., per 10 anni uomo-Marvel per eccellenza? Chissà.
Infine, dopo il primo fattore (una storia che vale tanto oro quanto pesa), dopo il secondo fattore (attori praticamente perfetti), arriva il terzo: l’ambiguità morale del mondo. Viviamo tempi complessi, la lancetta dell’orologio dell’Apocalisse è a pochi secondi dalla mezzanotte, viviamo guerre sul suolo europeo, tensioni sociali negli Usa che dipingono il momento peggiore della storia di quel Paese e c’è bisogno di una narrazione che sia al tempo stesso potente, complessa e moralmente comprensibile. Nel caos delle interpretazioni possibili che i personaggi messi in scena da Nolan generano, del caos che l’atomo che esplode genera, assistiamo alla genesi del mondo moderno in cui stiamo ancora così precariamente vivendo. Oppenheimer non è un film sull’ambiguità morale o sull’Apocalisse atomica: è un film che scava nella testa degli spettatori, tocca corde profonde ed esplode, come una reazione nucleare che non si ferma, facendo scoppiare una sinapsi dopo l’altra.
Oppenheimer è un grande film, il migliore di Nolan, uno dei migliori mai prodotti a Hollywood, capace di tenere assieme aspetti profondamente diversi, simbolici e pragmatici, astratti e concreti. C’è chi lo accusa di essere pseudo-arte, ma ci vorrebbe un esercizio fin troppo lungo di mansplaining sulle categorie del postmoderno per rispondere, quindi lasciamo perdere. Piuttosto, il film si ferma sulla soglia di una rivelazione e presa di coscienza, come forse è giusto che sia per le grandi tragedie dai tempi dei Greci: finisce per non mostrare che il vero cattivo del Novecento in realtà siamo noi. E questo è un peccato, o forse no: magari serve per vincere più Oscar. Comunque, andatelo a vedere in un cinema con lo schermo grande e fatevi scoppiare il cervello con una reazione a catena anche voi. Dopo mi ringrazierete.
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