
Quando nel 2003 Appuntamento a Belleville fu distribuito, in tanti scoprirono un cinema d’animazione diverso, più artistico e autoriale, più estremo e coraggioso rispetto a quanto il grande pubblico fosse abituato. In realtà, non si trattava di nulla di nuovo: Appuntamento a Belleville era solo l’ennesima conferma di quanto l’animazione francese fosse solida nel suo essere innanzitutto industria.
Sono passati vent’anni, e ancora oggi Appuntamento a Bellevillle brilla soprattutto per il suo essere radicalmente e intellettualmente distante rispetto all’animazione mainstream. Se lo confrontiamo a come l’animazione si è evoluta oggi, inoltre, appare ancora di più come un esempio eclatante del suo essere identificativo di un’idea di cinema, di animazione, di tipologia di narrazione che, oggi, sembra desueta.
La storia è quella di Campion, un bambino timido e triste con una nonna che non sa come aiutarlo, almeno fino a quando non scopre la sua passione per il ciclismo. Gli regala allora una bicicletta, cambiandogli del tutto la vita. Passano gli anni, cambia il mondo, la Storia (e la guerra) fa il suo corso, e Campion è finalmente pronto per il Tour de France. Ma due loschi individui lo rapiscono, e la nonna, accompagnata dal fedele cane (un bracco bello grassottello che si diverte ad abbaiare ai treni e che fa sogni incredibili), lo cerca fino a Belleville dove, aiutata da tre vecchiette, cercherà di salvarlo.
Per comprendere meglio Appuntamento a Belleville bisogna sapere chi ne è l’autore. Sylvain Chomet è un fumettista, animatore e regista francese, e il legame con il fumetto lo ha reso particolarmente sensibile a certi modi di rappresentazione grafica che hanno influenzato il suo cinema. Dopo l’esperienza di animatore portata avanti a Londra nella seconda metà degli anni Ottanta, si trasferì in Canada, dove completò il suo primo cortometraggio, La vieille dame et les piegeons (1996), con cui vinse il Gran Premio al Festival di Annecy e fu candidato agli Oscar.
Forte di questo successo, si mise a lavorare al suo primo lungometraggio che avrebbe completato soltanto nel 2003 con il titolo Appuntamento a Belleville. Il percorso artistico di Chomet è, purtroppo, non molto denso. Troppo pochi i suoi lavori e, per chi scrive, Appuntamento a Belleville non è nemmeno il suo migliore. Il suo secondo e finora ultimo lungometraggio animato, L’illusionista (2010), è infatti ancora più affascinante, emozionante ed equilibrato dell’esordio.
Ma Appuntamento a Belleville fu comunque un’opera fondamentale per il ruolo che ha avuto nel far (ri)scoprire l’animazione francese in Italia. Ebbe un discreto successo di critica e di pubblico e fu distribuito in sala in un periodo in cui l’unica animazione che giungeva da noi era quella statunitense. Chi, vent’anni fa, si ritrovò di fronte ad Appuntamento a Belleville ne restò sconvolto. O incantato. Perché il film era quanto più di anti-disneyiano si potesse immaginare.
Il tratto grafico era sporco, l’approccio narrativo era nonsense, il character design spingeva sul fronte del grottesco, e il film non temeva di mettere in scena anche sequenze forti, come l’uccisione di un personaggio, lo sfruttamento dei ciclisti rapiti, ma anche il degrado del quartiere in cui vivono le tre vecchiette che aiutano la nonna di Campion. Il film di Chomet abbandonava completamente ogni pretesa di realismo o credibilità per spingere sul fronte della commedia amara, pennellando il tutto con sfumature di onirismo. I sogni del cane, che a conti fatti sembra l’unico personaggio con cui si può entrare in empatia, sono ancora oggi splendide e divertenti rielaborazioni di ciò che accade nel piano del reale.
Chomet, inoltre, costruì il suo film su un discorso quasi nostalgico, citando un mondo che non esiste più, legato alla musica, al cinema, alle arti degli anni Venti e Trenta. All’inizio, nella sequenza in bianco e nero, omaggiò l’animazione delle origini e Walt Disney. Il regista Jacques Tati (Le vacanze di Monsieur Hulot) apparve in carne e ossa nel film e divenne poi il cuore pulsante de L’illusionista. Anche il mondo della musica era citato e omaggiato, da Django Reinhardt a Glenn Gould, passando per Fred Astaire.
Un tripudio di citazioni in cui, a farla da padrona, è l’animazione stessa, anche perché il film è praticamente muto, come a voler amplificare l’esperienza visiva e sonora dello spettatore. Un’idea di animazione che, se in Francia è consolidata, da noi fatica anche solo a essere compresa. E, per una volta, i vent’anni di Appuntamento a Belleville sembrano più sottolineare quanto quel modo di fare cinema e animazione sia ormai, almeno per l’Italia e i suoi spettatori, un ricordo ingiallito dal tempo.
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