
Il New Yorker, la rivista settimanale newyorkese di giornalismo d’eccellenza nata come rivista satirica nel 1925, questa estate ha aperto un filone di dibattito che è interessante anche per noi che ci nutriamo, tra le altre cose, di fumetti. Nel numero dell’ultima settimana di agosto infatti un articolo intitolato Che cosa perdiamo quando lasciamo decidere alle aziende di streaming che cosa guardiamo. È un pezzo che tocca vari temi: la fine dei supporti fisici digitali, la scomparsa di quelli analogici, la crescita (limitata) dei cataloghi dei servizi di streaming, effimeri e cangianti nonostante la loro indubbia utilità.
Il problema alla fine è sempre quello, almeno in partenza: lo spazio nelle case, soprattutto nelle grandi città, è sempre poco, il rischio è quello di essere sommersi di libri, fumetti, CD e DVD. Per questo gli abbonamenti sono meravigliosi, perché consentono di smaterializzare e guardare on demand tutto quel che si vuole. Fino a quando è disponibile, però.
Il “grande curatore” dei servizi di streaming, che poi sono parecchi (e questo è parte del problema, perché si combattono i diversi titoli, privando la concorrenza e quindi il pubblico degli altri servizi dell’accesso), ha questa prerogativa. Può infatti con una mano dare («Ecco nuovi film e telefilm da vedere, nuovi dischi da ascoltare») e con l’altra togliere («Ultima settimana per questo film, per questo disco»). È un bel problema, dicevo. Uno perde tutte le sue certezze. Vuol rivedere un episodio di Lupin III giacchetta verde e scopre che sullo streaming non c’è più. Oppure cerca un film dello studio Ghibli e scopre che non è mai stato messo in streaming. E magari non hanno mai fatto neanche il DVD europeo/americano. È uscito solo nelle sale e come DVD giapponese.
Non è la prima volta che accade qualcosa del genere. Se pensiamo ad esempio alla musica, è vero che c’è una disponibilità (prima impossibile) di circa 100 milioni di brani tutti in linea (per un totale di 10 milioni di album, più o meno), ma questi a loro volta sono frutto di una selezione violenta dell’esistente. Che a sua volta è frutto di un’altra selezione che è frutto di un’ulteriore selezione. Mi spiego.
Un tempo c’erano molti più CD (attorno ai 33 milioni di album) rispetto alla musica digitalizzata per lo streaming, che di nuovo a loro volta erano una selezione avvenuta durante gli anni Ottanta/Novanta degli oltre 41 milioni di vinili ufficialmente stampati sino ad allora, secondo i dati registrati negli Usa. Ma poi ci sono anche le stampe di vinili “parallele”, che una volta si facevano: i bootleg e via dicendo. E non parliamo poi dei 78 giri e dischi di vari formati strani, prodotti nell’Ottocento prima della nascita dell’industria culturale.
Insomma, le regole di mercato, la disponibilità dei diritti, il ritorno economico e gli investimenti del momento hanno permesso di tramandare a noi la musica, ma solo una parte. E tutto questo senza addentrarci nel filtro di terzo livello, quello cioè per cui la musica registrata è solo una vaga ombra della “vera” musica, che è quella suonata. Anche se oggi non è più così vero perché esiste musica che semplicemente non può essere suonata dal vivo ma deve essere registrata e soprattutto prodotta.
La musica – che come fenomeno sociale sarebbe qualcosa che accade dal vivo – è cambiata radicalmente quando i Beatles e altri artisti pop e rock trasformarono lo studio di registrazione nel loro strumento creativo preferito e quindi diedero vita a un modo di “fare musica” (con sovraincisioni, mix e via dicendo) che era unico già nel mondo analogico degli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso e che oggi è percepito come assolutamente “naturale”. La “vera” musica è diventata paradossalmente quella del disco, non più quella del concerto.
Tre articoli da leggere per restare aggiornati
• Pubblicato da Marvel Comics nell’estate del 1991 e diventato il fumetto più venduto di sempre con oltre 8 milioni di copie, X-Men 1 fu il frutto di una strana miscela che tirava e spingeva, e affastellava storie editoriali e dinamiche distanti. Questa è la sua storia.
• Nel Tempo Medio in cui viviamo la quantità delle immagini che accumuliamo le rende inutili, senza costruire un discorso che ci arricchisca.
• 20 anni fa usciva Pluto di Naoki Urasawa. Un manga struggente e potentissimo.
Ma torniamo a noi. L’editoria in generale e il fumetto in particolare sono parzialmente diversi dall’industria discografica. Intanto perché il digitale non ha avuto lo stesso impatto: i fumetti si comprano ancora di carta, anche se si stanno trasformando (e diventando un’altra cosa) per sbarcare soprattutto sui telefonini. E la carta ha il vantaggio che è sempre accessibile, anche secoli dopo. Certo, a volte è difficile trovare alcune cose (a me manca ad esempio l’ultimo numero, il 38, della serie Glénat/Panini di Akira, e buona fortuna trovarlo) e altre vengono semplicemente dimenticate: pensate a tutte le daily strip dei quotidiani americani degli anni Trenta e Quaranta, perse per sempre nella notte a parte alcune rarissime e pregevoli opere di “salvataggio” editoriale.
Con la carta, una volta che si acquista qualcosa poi si rimane proprietari e addirittura si può rivendere il fumetto o prestarlo ad altri per leggerlo. Non si perde l’accesso se il servizio digitale decide di cancellare il titolo dal suo catalogo online e da tutti i nuovi dispositivi, oppure se semplicemente fallisce come fornitore e non rinnova più gli strumenti software per autenticarsi e accedere ai propri acquisti nel cloud. È una polemica venuta fuori con Amazon e il “buco nero” della nostra cultura che la digitalizzazione in generale e i servizi cloud on demand stanno costruendo. Rischiamo di non avere più ricordi: foto digitali, audio digitali, musica digitale, libri e fumetti digitali, film e serie digitali. Tutto a rischio di evaporare quando i servizi che li gestiscono tireranno le cuoia (e prima o poi lo faranno, almeno nel medio-lungo periodo).
Il dibattito messo in piedi dal New Yorker, dicevo all’inizio, è però interessante perché secondo me apre anche un altro fronte. Non tanto quello dei supporti, che dopotutto hanno una componente fortemente tecnica ed economica più che sociale, quanto quello della curatela. Infatti, come per le collane delle case editrici e i programmisti delle televisioni, così anche i servizi di streaming fanno un’opera di scelta. Selezionano e curano un catalogo che ha una serie piuttosto ampia di limiti dovuti a costi e diritti, ma che fa anche da barriera a meccanismi di generazione e degenerazione infinita. Quelli invece si vedono nei social, dove l’onda lunga dei contenuti degli utenti si allunga tramite YouTube, Instagram, TikTok e via dicendo sino al self-publishing sempre di Amazon e di altri fornitori di libri. Tutte cose che non vengono filtrate se non poco e automaticamente. Non ci sono curatori umani.
Tuttavia, il critico supremo, l’essere che in maniera autarchica esercita (spesso a sua insaputa) un potere assoluto sui contenuti che entrano in casa sua, è il suo proprietario. Il collezionista. Che, come i curatori, programmisti, produttori streaming, algoritmi dei social, dovrebbe avere una componente essenziale per curare la sua passione: la cultura. E per cultura non intendo il fatto di essere “colto” quanto di essersi “coltivato”. Cioè di avere una bussola minimamente sensibile e normativa, costruita e affinata con anni di crescita, che gli permetta di orientarsi e di portare avanti le sue passioni in modo consapevole. Collezioni sono tutte, se curate. Altrimenti si tratta solo di accumulo. E si ha accumulo anche quando si sono acquistati solo tre fumetti in vita propria, ma lo si è fatto senza criterio. Ovvero, se il criterio c’è, anche un libro solo è una collezione.
Quel che passa nella casa di una persona è un po’ come quel che si mangia: un regime alimentare fatto di curiosità ma anche di gusto, di passione e innamoramento ma anche di estetica e attenzione ai dettagli. Dopotutto, come il cibo è nutrimento del corpo e dello spirito, così i libri e i fumetti sono nutrimenti dell’animo e della propria estetica. Sono arte che che viene vissuta come esperienza e come tale occupano uno spazio nella nostra vita.
Spesso si ragiona su libri e fumetti (e in misura minore su musica e film, e quasi mai su pittura, fotografia e altre arti) come se fossero un qualcosa di statico e di dato, determinato. Un qualcosa fuori da noi. L’estetica in questo caso è un incrocio tra appagamento e gusto che serve per la vita, ma non tiene conto di un aspetto che è invece determinante e completamente dinamico. Non esiste una “vita” separata dalla nostra essenza.
Non c’è un momento in cui facciamo qualcosa per la nostra “vita” che non sia “vita” anch’esso. E quindi l’esperienza dell’arte non è un rinvio a un altro momento: vale proprio, anche e soprattutto nel momento in cui accade. Rinviare il piacere o la difficoltà, il dolore o l’indifferenza rispetto a un’opera, fosse anche il più umile dei fumetti scalcagnati e vintage da edicola trovato su una bancarella dell’usato, è uno sbaglio concettuale, perché è comunque un’esperienza che fa parte della vita in quanto accaduto durante la nostra esistenza.
Ogni momento è un’esperienza che, se è esperienza estetica, contribuisce alla nostra vita. L’essenza del piacere o comunque dell’attaccamento che proviamo nei confronti delle opere d’arte in generale e dei libri e dei fumetti in particolare nasce da questo: non nell’oggetto in se stesso ma dal piacere che fornisce attraverso un’esperienza “estetica” che accade nel momento in cui la proviamo. L’arte è estetica e psicologia, è una forma di nutrimento che non è semplicemente un mediatore (il libro, il fumetto) quanto una vera esperienza.
Per questo il gusto del creatore del proprio catalogo interiore, sia esso fatto di oggetti fisici che di esperienze furtive godute in streaming o “in diretta” al cinema, o magari leggendo qualcosa di sfuggita in fumetteria, è la persona stessa. Per questo i critici e i curatori fuori da noi sono solo grandi filtri preliminari di qualcosa che invece accade nel nostro reame. Loro costruiscono i mondi, con il catalogo di quel che è possibile, ma le scelte e l’ordine sono solo nostri.
Siamo noi che scegliamo, e lo scegliere e organizzare una biblioteca personale soprattutto se fisica che ci consente l’accesso costante in momenti diversi della nostra vita, è fondamentale. Ha un ruolo politico, perché è una affermazione forte contro una digitalizzazione che all’apparenza democratizza e amplia l’accesso, ma che in realtà pone delle grandi barriere quantitative (lo streaming solo di alcune cose tra quelle esistenti) e temporali (l’accesso solo finché si paga e finché il sistema decide di tenere i contenuti online).
La conclusione del New Yorker, che porta avanti il ragionamento su binari differenti dal mio, è comunque convergente: «Il futuro del cinema, il suo avanzamento verso l’avanguardia dell’arte moderna, è derivato dalla conservazione e dall’apprezzamento del suo passato. In un’epoca in cui i supporti fisici a basso costo come i DVD circolano ampiamente, la conservazione non è più appannaggio esclusivo delle istituzioni che ospitano ingombranti e costose copie di film. L’archivio del futuro è decentralizzato e gestito in crowdsourcing. Lungi dall’essere nostalgico e conservatore, il mantenimento di uno stock di supporti fisici a casa è un atto di sfida progressista». Nel mio piccolo, concordo assolutamente anche per quanto riguarda il fumetto. Viva la rivoluzione della carta stampata!
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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.
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