
«Che stai facendo, John?» chiede la moglie defunta di John Wick nel video che il killer professionista – l’ultimo grande eroe cinematografico americano, interpretato da Keanu Reeves – guarda e riguarda dallo schermo del suo cellulare. «Ti sto guardando» le risponde nel video un amorevole John Wick del passato. Ma noi con lui sappiamo che in realtà non sta facendo solo questo: anzi, in quello sguardo colmo di amore, che John Wick immortalava con la telecamera di un telefonino, c’è già la coscienza di una perdita, c’è tutta la malinconia di un presente che fugge mentre lo si sta guardando.
Nessuno come un assassino impeccabile, freddo e preciso alla John Wick è consapevole della caducità dell’esistenza. Nessuno come lui dunque può capire l’imprecisione di uno sguardo. Come i pistoleri dei film western, l’Uomo Nero John Wick è il killer migliore di tutti perché riconosce prima e meglio degli altri quel dramma del visibile che Gilles Deleuze aveva identificato nel cinema: «L’eroe agisce solo perché vede per primo, e trionfa solo perché impone all’azione l’intervallo o quel secondo di ritardo che gli permettono di vedere tutto».
Prima di saper sparare, l’eroe deve saper vedere. E non è forse la pistola, e l’arma in genere, un’emanazione dello sguardo? Uno sguardo capace di toccare, persino di uccidere ciò che guarda. E non è forse la telecamera – di una cinepresa o di un cellulare, poco cambia – la nostra arma migliore? Un’arma capace di ammazzare e di immortalare, di consegnare all’eternità la nostra immagine mortale. Come John Wick, sappiamo che mentre guardiamo il mondo lo stiamo già uccidendo: lo conserviamo per un futuro senza di lui.
Questo presente che vogliamo tradurre in immagine è già un ricordo del futuro. Come in uno specchio, nel nostro sguardo di oggi si riflette il nostro sguardo di domani. Per questo non smettiamo di immortalare noi stessi: come se la nostra esperienza morisse nell’istante in cui la viviamo e dovesse costantemente rinascere nella memoria. Jacques Lacan ha teorizzato nello stadio dello specchio una delle fasi più importanti nello sviluppo del bambino: quando si vede riflesso in braccio al genitore e per la prima volta si percepisce come altro. Si percepisce cioè come immagine, come oggetto di sguardo. Nello specchio diventiamo immagine e, attraverso lo sguardo, possiamo agire su di noi. In un diabolico contrappasso, lo specchio rivela la nostra immagine rovesciata, uguale e contraria a quello che siamo.
Sul secondo numero della serie bonelliana Mercurio Loi – scritto da Alessandro Bilotta e disegnato da Giampiero Casertano, con i colori di Stefano Simeone – il protagonista avventuriero-dilettante immerso in una carnevalesca Roma papalina si imbatte in un giustiziere mascherato che si fa chiamare Contrappasso, perché appunto ama infliggere alle sue vittime una pena uguale e contraria alla colpa di cui si sono macchiati. Fedele al principio dantesco, il terribile latore di giustizia sa che la colpa, prima ancora della bellezza, è nell’occhio di chi guarda: quel peccato mortale, che è appunto la nostra mortalità. Non a caso, la sua maschera è uno specchio: così che i colpevoli possano vedersi in faccia mentre vengono puniti.
C’è un bel film che riflette su questo sguardo riflesso e omicida, è del 1960, diretto da Michael Powell, e si intitola in italiano L’occhio che uccide. Racconta di un cameraman, aspirante regista, che arrotonda lo stipendio realizzando fotografie porno-soft e che nel tempo libero ama filmare le prostitute con cui va a letto per poi ucciderle. Non solo: per aumentare il divertimento, mette sopra l’occhio della telecamera che usa per i suoi crimini uno specchio. Non gli basta infatti immortalare l’omicidio, ma vuole che le vittime si osservino mentre muoiono, in una specie di variante omicida di un selfie.
Anche quest’uomo conserva gelosamente i filmati del suo passato, fin dalla sua traumatica infanzia: suo padre infatti lo sottoponeva a sadici esperimenti psicologici, filmando il suo comportamento in ogni momento della giornata, e creando situazioni dolorose per immortalare le sue reazioni. Come il bambino allo specchio di Lacan, questo personaggio vive la perenne condanna di essere un oggetto del proprio sguardo. Quindi è incapace di percepirsi come soggetto di uno sguardo che non sia omicida: uno sguardo peccaminoso, destinato a fare del male o a rivelarlo. Il titolo originale del film, Peeping Tom, rimanda a un personaggio leggendario che vide lady Godiva nuda sul suo cavallo e ne restò talmente impressionato da diventare cieco. Non vi è dunque migliore contrappasso, nei confronti di uno sguardo che uccide, che smettere di vedere.
Nell’ultimo grande capolavoro di Alberto Breccia, Rapporto sui ciechi (1991, tratto da un racconto di Ernesto Sàbato), il protagonista giunto ai suoi ultimi giorni di vita scopre una verità spaventosa nei sotterranei di Buenos Aires. In un bianco e nero estremo, in un collage raffinatissimo che esalta le lovecraftiane figure di Breccia, penetriamo nel fondo dell’inferno dei Ciechi, una vera e propria setta millenaria capace di andare oltre la realtà sensibile per giungere alla conoscenza di un mondo alieno, estraneo, divino e spaventoso. A dominare questo paesaggio futuristico e anti-umano, un grande occhio si staglia implacabile a giudicare i vivi e i morti. Oltre lo specchio, si può forse afferrare il senso del nostro presente sfuggente. In quella grande ferita, che è il nostro sguardo impreciso e mortale, si afferma la verità del non vedere.
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