
L’arcipelago finlandese è il più grande del mondo, conta innumerevoli isole che punteggiano il Golfo di Botnia. Più di 80.000, che emergono dalle acque del Mar Baltico e fronteggiano le impervie coste della Finlandia. Certo, il numero è impreciso. C’è chi ne conta sino a 188.000, ma al di là dei numeri quello che impressiona è la possibilità per alcuni finlandesi di avere la propria isola privata, dove trascorrere le proprie vacanze in una comoda stuga, una specie di casa di legno tipica delle zone scandinave, con il suo colore rossastro e l’aspetto un po’ austero e parsimonioso. In una di queste isole, per l’esattezza quella di Klov Harun – poco più di 6.000 metri quadri di terra – Tove Jansson aveva costruito la sua di stuga, dove, lontana dal mondo, trascorreva le vacanze estive.
Tove Jansson è la creatrice dei Mumin, piccoli troll finlandesi dall’aspetto rassicurante e bonario che negli anni hanno invaso le case di mezzo mondo con le loro eccentriche avventure. Come sottolinea Paul Gravett, nella monografia dedicata all’autrice finlandese ed edita in Italia da Lupoguido, Jansson fu donna, lesbica e di lingua svedese: incarnò tre minoranze nella Finlandia del secolo scorso, una nazione senza passato e proiettata verso il futuro, il trampolino ideale per l’immaginazione feconda e trasversale della giovane pittrice.
Durante una di quelle vacanze, in un cottage su un’isola affidatole dai genitori, Jansson tracciò sulla parete del bagno una figura abbozzata, tutto naso – perché come abbiamo già detto in altra sede il naso è importante – e senza braccia: un troll burbero e dispettoso che tira su il muso nasale (Snork!!!) e aggiunge: «La libertà è la cosa migliore». I Mumin erano a quel punto una presenza fantasmatica: provenivano dall’infanzia passata in Svezia in casa della zia Einar – che per tenerla lontana dalla dispensa fantasticava di piccoli troll – e apparivano di tanto in tanto nelle sue opere, diventando presenze rassicuranti.
Persino nell’enorme affresco commissionato dal Municipio di Helsinki nel 1947, accanto all’autoritratto dell’autrice, c’era un piccolo troll: il suo “lato fantasma”. All’epoca, i Mumin avevano già esordito senza grande clamore: un romanzo illustrato del 1945 che l’editore Söderström aveva voluto intitolare Småtrollen och den stora översvämningen, cioè I piccoli troll e la grande inondazione. Anche se forse sarebbe più opportuno tradurre con il grande diluvio, vista la presenza nell’opera di forti simbolismi legati al mito religioso, ma soprattutto al mondo della fiaba. Un gusto tutto nordico in cui il sacro e il fiabesco andavano a braccetto senza tanti problemi.

Quello che sorprende in questo libro è la natura: i personaggi qui sono davvero piccoli, sovrastati dall’imponenza di piante e animali. I troll di Jansson sono lontani anni luce da quelli della tradizione: sono piccole creature, dall’aspetto buffo e rassicurante che si trovano a dover fronteggiare diverse peripezie, in un ambiente di che volta in volta è una risorsa o un ostacolo. Mamma Mumin e il suo piccolo cercano Papà Mumin in lungo e largo, immersi in una natura pertanto ambigua.
È palese come, in questa prima opera, embrionale per alcuni aspetti, si riverberino il mondo di Jansson e le sue preoccupazioni, legate al conflitto in corso e alla situazione della popolazione scandinava, costretta a dover lasciare le proprie case sotto la spinta dell’esercito russo. Al di là di questo, dalle illustrazioni che impreziosivano il testo e tracciavano le prime linee del mondo dei Mumin emergevano due grandi influenze dell’autrice finlandese, che dialetticamente si componevano rispondendo al carattere umbratile, ma al contempo solare del romanzo: John Bauer e Elsa Beskow.
Se l’influsso di quest’ultima era evidente nella cura con cui Jansson delineava i temi floreali e ne faceva un uso non solo decorativo, ma anche psicologico, gli acquerelli tenebrosi di Bauer – il padre dei troll e dei popoli fantastici del nord – definivano in maniera profonda l’approccio che l’autrice ebbe con il mondo dei Mumin: anche quando i toni si facevano più vivaci e scanzonati, come nelle strisce pensate per i quotidiani britannici, Jansson non abbandonava mai un fondo perturbante e tenebroso, che affiorava spesso e volentieri.
La stessa Jansson era consapevole di come i ragazzi fossero affascinati dal non detto e dal nascosto, dai margini oscuri più che dalle radure, e di come avessero un indubbio gusto per tutto quello che era raccapricciante e macabro. Basta sfogliare l’edizione svedese del classico di J.R.R. Tolkien Lo Hobbit, illustrato proprio dall’autrice nel 1962, per accorgersi che non era tanto la furia di Smaug a inquietare i sogni della disegnatrice, quanto una figura sfuggente come quella di Gollum. L’inquietante interpretazione restituita dal tratto di Jansson costrinse lo stesso Tolkien a ritornare sul testo de Lo Hobbit per specificare la grandezza e l’aspetto della creatura. Tuttavia, il vuoto del testo tolkieniano aveva solleticato l’immaginazione macabra di Jansson: Gollum è quell’oscuro abisso in cui l’unico anello ha gettato la mente di Sméagol.

Stessa sorte toccò alle illustrazioni di Alice nel Paese delle Meraviglie. Il testo di Lewis Carroll fu riletto in chiave horror, e il mondo del titolo diventò un luogo poco rassicurante dove un’Alice adolescente si muove in punta di piedi. Un tema, quello del viaggio, che attraversò l’intero corpo della scrittrice e che emerse anche nella sua ultima opera dedicata ai Mumin: Den Farliga Resan (traducibile come “Il viaggio pericoloso”) del 1977, in cui la piccola e occhialuta Susanna deve affrontare un lungo viaggio per recarsi alla festa organizzata dai Mumin. Ancora una volta emergono i numi tutelari di Jansson, Bauer e Beskow, in una delle sue migliori sintesi.
Il successo dell’autrice – nonostante le sue molte vite – è legato però alla produzione fumettistica dei Mumin. I primi tentativi risalgono al 1947, ma la produzione seriale debuttò solo nel 1954, dopo due lunghi anni di incubazione. E diventò il primo e vero impiego permanente per Tove Jansson. Un impegno costante che la legò ai Mumin sino al 1960, quando decise di abbandonare tutto e lasciare che il fratello Lars, che fino a quel momento si era occupato solo della traduzione in inglese, gestisse anche l’aspetto produttivo. In tutto, l’autrice scrisse e disegnò 21 racconti, per un totale di 1.584 strisce e decine di migliaia di vignette. Alla fine degli anni Cinquanta, dopo aver scritto e disegnato quotidianamente le avventure dei piccoli troll, il matrimonio era ormai logoro: Jansson cercava altre vite.
Eppure, i ventuno racconti che compongono il corpus originale delle avventure dei Mumin sono un esempio notevole dell’arte del fumetto seriale e della striscia quotidiana, forse quella più difficile, dettata da tempi stretti ed esigenze contingenti. Sono storie che, pur mantenendo una propria autonomia, dovevano essere in sincrono con i tempi: non è un caso che i Mumin vadano anche in vacanza, come nello stupendo episodio dedicato al viaggio in Costa Azzurra, dove una serie di equivoci e di situazioni grottesche diventano uno strumento per leggere l’attualità. Tra l’altro è uno dei pochi racconti superstiti: il materiale originale è stato distrutto, una prassi toccata anche ad altri grandi delle strisce sindacate come Charles Schulz.

Quello che colpisce, al di là della ricchezza dei temi e della dimensione corale, è lo stile di Tove Jansson. Il suo tratto certosino tipico delle illustrazioni, dove i neri tratteggiati servivano a creare lo spazio utile affinché i bianchi potessero spiccare con più convinzione, si asciugava in linee nette e precise, donando plasticità alle figure che si muovevano in ambienti ricchi e dettagliati, dove gli elementi floreali – sempre centrali nell’estetica della Jansson – diventavano strutturali. Ma le strisce dei Mumin possono essere lette da grandi e piccini e soprattutto a più livelli, cercando di scorgere rimandi alla vita dell’autrice o semplicemente quell’elemento inquietante e perturbante che spesso aleggia nella valle dei Mumin e che si nota con più immediatezza nelle illustrazioni che costellano i romanzi.
Un’ottima introduzione all’opera di Tove Jansson è rappresentata dalla monografia scritta da Paul Gravett per la collana The Illustrators, curata da Quentin Blake e Claudia Zeff per Thames & Hudson, e tradotta in italiano da Gabriella Tonoli per Lupoguido. Attualmente Iperborea è alle prese con un’edizione integrale delle storie autografe dei Mumin. L’editore ha scelto di colorare le strisce, forse per renderle più appetibili a un pubblico infantile. L’edizione di riferimento è quella della Drawn & Quarterly in dieci volumi, la stessa che Black Velvet stava pubblicando per il mercato italiano, interrotta con il quinto volume e di difficile reperibilità anche sull’usato. Spero però che qualcuno decida prima o poi di portare in Italia anche la nuova edizione deluxe dell’editore canadese.
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