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Perdere tempo sembrando intelligenti

Tendenze e direzioni della pop culture viste da chi non riesce a farne a meno, anche se vorrebbe. "Sofisticazioni popolari": una rubrica di Fumettologica a cura di Marco Andreoletti. Il giovedì, ogni 15 giorni.

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gorogoa perdere tempo
Un’immagine dal videogioco “Gorogoa”

Settembre segna l’arrivo di un lunga serie di produzioni Annapurna Interactive su Gamepass, il servizio di streaming targato Microsoft. La questione non è inscrivibile al mero campo di interesse videoludico, finendo invece per essere tangente a chiunque abbia un minimo di interesse nelle derive estetiche dell’intrattenimento moderno, nel senso più ampio del termine. 

Per chi non lo sapesse, stiamo parlando di videogiochi distribuiti da una divisione interna della casa cinematografica Annapurna. Fondata da Megan Ellison – classe 1986, figlia del fondatore di Oracle – dopo due semestri di università di cinema e un trekking sull’Himalaya, nel giro di qualche anno è riuscita a infilarsi in tutte le diramazioni del cinema che conta. Ha coprodotto film di Andrew Dominik, Kathryn Bigelow, Spike Jonze, Paul Thomas Anderson, David O. Russell, Wong Kar-wai, Harmony Korine e i fratelli Coen. Nel 2022 ha lanciato il proprio studio d’animazione, che ha debuttato con l’ottimo Nimona, basato sul fumetto di ND Stevenson.

La scelta non poteva che essere più rappresentativa. In un momento in cui inclusività e cancel culture finiscono continuamente al centro del dibattito pubblico, spesso mettendo in discussione quanto queste scelte paghino in termini economici, ecco che i nuovi arrivati decidono di dire la loro con un lungometraggio dove le tematiche lgbtqia+ non sono solo suggerite ma centrali e al contempo normalizzate. La protagonista non si riconosce nel suo corpo, proprio come la fumettista che l’ha disegnata, e lo dice senza troppi giri di parole.

Nel 2016 Annapurna decise di lanciarsi anche nel mondo del videogame nelle vesti di publisher. Una tendenza che Netflix avrebbe seguito solo cinque anni più tardi. Rispetto a quanto fatto nel cinema, qui la vocazione di Megan Ellison si fece ancora più chiara, andando a veicolare uscita dopo uscita una visione estetica ben definita. I primi tre giochi distribuiti furono i magnifici What Remains of Edith Finch, Flower e Gorogoa. Tutti titoli dalla spiccata attitudine artistica, in grado di infilarsi nel florido mercato degli indie e di posizionarsi subito ai vertici della categoria. 

Questo significa una ricerca estetica e concettuale abbastanza sofisticata per accontentare le classi aspirazionali, ma mai talmente proibitiva da escludere qualcuno dall’accesso ai suoi prodotti. Annapurna Interactive fa esattamente quello che fa la A24 con l’horror: fornisce la possibilità a una generazione di utenti colti o semicolti la possibilità di fruire di intrattenimento senza sentirsi in colpa per il tempo buttato. Abbiamo sempre invidiato quei videogiocatori che passavano le serate giocando a Call of Duty senza il minimo dubbio di non avere di meglio da fare. Adesso possiamo fare la stessa cosa giocando a un videogame diretto da Sam Barlow, sentendoci quindi più intelligenti della media.

Non si tratta certo di una tendenza recente – la prima ondata di videogiochi inscrivibili a questo mondo risale ormai ai primi anni Dieci del nuovo secolo – ma nessuno l’aveva mai industrializzata come sta succedendo ora. Anche il mondo sembra cambiato. Lo sdoganamento pop dell’idea di “elevated horror” – neo genere cinematografico che dava forma a tutto quello di cui stiamo parlando – è arrivato nel 2022. 

Il quinto sequel di Scream si apriva con il rifacimento della celebre scena di apertura del capitolo originale. Prima di finire pugnalata dal killer di turno, Jenna Ortega spiegava per bene la differenza tra il Babadook di Jennifer Kent – uno dei più celebri esempi di di elevated horror – e i film della serie Stab, la metaserie cinematografica che rappresenta Scream all’interno di Scream stesso. Inutile specificare la posizione al riguardo da parte dell’assassino di turno. 

Al di là dell’horror, quello di una certa ricercatezza estetica e/o concettuale in contesti di genere puro è uno dei trend più importanti degli ultimi anni, diventato mainstream senza dirlo ad alta voce. Il successo planetario del Barbie di Greta Gerwig – e prima ancora del Joker di Todd Phillips – ha dimostrato come anche proprietà intellettuali sfruttate allo sfinimento possono trovare nuova linfa vitale in un’estetica fatta su misura per il pubblico millennial.

Tutto è ricercato a dovere, aspirazionale quanto basta, leccato come una foto di un’appartamento di Airbnb arredato con l’immancabile monstera e le riproduzioni da supermercato di celebri pezzi di arredamento nordico. Prima di diventare un fenomeno da Instagram molto più popolare e vasto di quanto gli stessi produttori probabilmente si aspettassero, il lungometraggio della bambola Mattel puntava tutto sulla combo ”estetica ironica ma ricercata” – qualcuno si ricorda del millennial pink? – più regista indie classe 1983

Non riesco a immaginare nulla di più incentrato attorno alla mia generazione. Facciamo finta di non sapere che qualcuno definisce il successo di Barbie come la consacrazione del “normie fandom”, ovvero di quel fandom composto da persone che scoprono di essere fan di qualcosa solo perché lo sono tutti gli altri. Perché noi figli del cambio di millennio vogliamo sentirci speciali e artsy anche quando vediamo un tizio combattere con un dildo infilato nel culo, qualche squartamento da classico slasher movie, un film di supereroi o il live action di una linea di giocattoli. 

Per una volta possiamo dire che il fumetto ci è arrivato prima. Pensiamo all’esplosione dei graphic novel – e a tutta la discussione venutasi a creare attorno al termine stesso – e poi a uscite come la serie Grand Design di Marvel Comics o la linea Black Label di DC Comics. Un modo come un altro da parte delle major di adeguarsi in corsa al trend del momento (fa nulla se con la Vertigo avevano contribuito in anticipo sui tempi a creare questo trend, regalandoci al contempo titoli dal valore immenso).

L’imperativo è quello di avere la certezza di stare per consumare un prodotto valutato come di qualità a priori, solo perché inserito in quel particolare cestone. L’idea di perdere tempo investendolo in qualcosa di brutto o troppo poco denso per le nostre velleità ci spaventa. Basta fare una rapida ricerca online per trovare tanti articoli come questo, dove viene calcolato quante ore sprechiamo ogni anno per scegliere cosa vedere in streaming. Peggio ancora lo fanno solo quei motivatori su Medium o LinkedIn che ci ricordano quanto potremmo essere più produttivi se invece di investire il nostro tempo nella visione di brutti film ci dedicassimo ad altro. 

L’aveva capito bene il graphic designer Caspian Whistler, quando decise di mettere in piedi uno dei primi bookazine dedicati ai videogiochi e di chiamarlo A Profound Waste of Time. Un ossimoro che esprime alla perfezione una delle più grosse ossessioni della nostra generazione: accettiamo e celebriamo la nostra infantilizzazione, ma al contempo vogliamo essere trattati come i bambini più intelligenti della classe. Non come lo scemo del villaggio che a quarant’anni ancora si strappa le vesti per un film di supereroi. 

Per quanto mi riguarda, con tutta probabilità giocherò a tutti i titoli Annapurna messi a disposizione da Microsoft, seguirò con distaccata ironia gli sviluppi della nuova wave di film basati sui giocattoli targata Mattel sperando nel colpo di genio, mi arrabbierò profondamente quando uscirà il trailer del film di The Legend of Zelda targato Illumination – con tanto di hit anni Novanta infilata a forza in un montaggio di sapide gag -, e cercherò di rimanere al passo con i fumetti di supereroi leggendo i riassunti qui su Fumettologica. Avrò comunque sprecato un sacco di tempo, ma mi sentirò tanto intelligente.

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