
Il 17 novembre arriverà sul catalogo di Netflix Scott Pilgrim: Takes Off, nuova iterazione di uno dei titoli più importanti e rappresentativi dei primi anni Duemila, con un personaggio che fin dal suo esordio ha raccolto un consenso enorme, ritrovandosi dall’essere il protagonista di una commedia romantica sopra le righe a diventare qualcosa di simile a una improbabile icona generazionale. E non fa nulla se adesso pare essere finito in quello spazio liminale che separa novità e classici senza tempo. Gli anni passano – sono ormai quasi venti dal suo debutto – e le mode sono destinate a essere superate, ma Scott Pilgrim, il bassista dai capelli arruffati creato da Bryan Lee O’Malley, rimane ancora oggi il più millennial di tutti.
Per chi non lo avesse letto – ovvero chiunque nato dopo gli anni Novanta – la trama del fumetto è presto riassunta: Scott Pilgrim è un ventenne sfaccendato, vive con un amico gay in una specie di seminterrato e passa le giornate giocando ai videogame o suonando il basso nella sua band garage. Non brilla certo per intelligenza, ma dimostra una spiccata propensione a menare le mani nonostante un fisico non proprio da lottatore di MMA. Un giorno incrocia – prima nei suoi sogni, poi nel mondo reale – Ramona Flowers, una ragazza di New York impiegata come corriere per Amazon. I due iniziano a frequentarsi, e così Scott scopre che per coronare il suo sogno d’amore dovrà prima affrontare e sconfiggere i sette ex della sua nuova fiamma, unitisi nella Lega dei Malvagi Ex.
O’Malley mette in piedi un roster da picchiaduro vecchia scuola, puntando su una galleria di personaggi quantomeno colorati. Dall’indo-canadese che manda convocazioni per il duello via mail ed evoca “demoni hipster” alla coppia di produttori di musica elettronica giapponesi, passando per la ninja ex-compagna di stanza del college. In poche parole: pensate a una commedia alla Nick & Norah – Tutto accadde in una notte e immaginatela in chiave battle shonen.
Basterebbe questa breve sinossi per capire perché il fumetto di Bryan Lee O’Malley, originariamente pubblicato fra il 2004 e il 2010 dalla piccola Oni Press e poi passato alla multinazionale HarperCollins, sia riuscito a guadagnarsi quasi istantaneamente un successo oltre le più rosee aspettative. All’epoca non esisteva nulla che raccontasse meglio di così le idiosincrasie di una generazione ancora priva di un rappresentante davvero significativo da parte dell’industria dell’intrattenimento.
La Generazione X aveva avuto Ghost World, Kids, Gregg Araki, Giovani carini e disoccupati e Clerks. Noi ancora niente, o comunque nulla di così preciso nel raccontarci come estremamente egoriferiti, emotivamente immaturi e con ben piantata in testa l’idea di essere perennemente soverchiati da un mondo brutto e cattivo, incapace di capire quanto eravamo speciali. Come Scott ci vedevamo – e ci vediamo ancora oggi – come i più sagaci e cinici della classe, facendo finta di non sapere di essere così fragili da crollare alla prima vibrazione negativa.
Non c’è da stupirsi se le pagine scritte e disegnate dal fumettista canadese – anche se impregnate del classico disincanto post-moderno di cambio millennio – mettevano al centro del discorso la volontà di raccontare una storia d’amore avvolta nel pluriball. Una di quelle zuccherose, da film, dove alla fine va sempre tutto bene e non si sta mai davvero male. La nostra idea di dramma era la scena dell’aeroporto nell’ultima puntata di Friends, dove la disperazione del protagonista dura al più una manciata di minuti prima di risolversi nel migliore dei modi possibili. Non sia mai che qualcuno si faccia male davvero.
Tirando le somme, quella raccontata da Bryan Lee O’Malley è una vicenda ombelicale, fatta di personaggi mediocri che non hanno ancora capito il loro posto nel mondo. Quello che li rende speciali, sfondando una porta aperta sulla generazione millennial, non è quello che fanno ma a cosa aspirano.
Tutti gli attori di questa surreale vicenda sono incastrati in lavori che non li rappresentano, dal lavapiatti alla commessa in videoteca, eppure questo non gli impedisce di suonare in band fichissime, di fare battute saccenti, di indossare t-shirt belle solo ironicamente. Sono persi in un cosmo fatto di videogiochi, di riferimenti pop, di richiami nostalgici e della perenne ricerca della cosa più cool in quel preciso momento. A parte forse il libro Una somma di piccole cose. La teoria della classe aspirazionale di Elizabeth Currid-Halkett, non riesco a immaginare qualcosa che descriva meglio la mia generazione. O forse sì, e sto pensando al film basato sul fumetto di O’Malley: Scott Pilgrim vs. the World. L’avevo detto che la questione si sarebbe fatta piuttosto autoreferenziale.
Il film, uscito nel 2010, è un più che raro esempio di opera derivata nettamente superiore all’originale. Non per demerito di O’Malley, che avrebbe confermato la sua sensibilità per il presente anche con il lavoro successivo, Seconds, ma per l’incontenibile talento ed efficacia tecnica del regista chiamato a rendere reale la trasposizione: Edgar Wright. Forse il migliore regista della sua generazione, capace di portare avanti lungo tutta la sua carriera una notevole capacità di reinterpretazione dei generi, un discorso personale e un costante lavoro di destrutturazione del linguaggio cinematografico. Dopo la serie televisiva di culto Spaced e i primi due capitoli della trilogia del cornetto (L’alba dei morti dementi e Hot Fuzz) per Wright arrivò l’occasione di girare il primo kolossal (anche se siamo comunque abbondantemente sotto i 100 milioni di budget) della sua carriera.
Pochi minuti di visione sono sufficienti per rendersi conto di come il regista e i produttori ce l’abbiano messa davvero tutta per girare il film della vita. Non c’è un singolo aspetto che sia lasciato al caso, tutto è impregnato di un’aria indie fighetta che immortala alla perfezione gli anni in cui fu pensato e girato. Pensiamo ai titoli di testa, diretti e prodotti da Richard Kenworthy del team Shynola. Se per aprire il tuo primo lavoro davvero mainstream scegli qualcuno noto per la sua collaborazione con i Radiohead e gli chiedi di realizzare un’animazione che fa tutto per spacciarsi per analogica mentre sullo sfondo la band del protagonista suona una canzone garage prodotta da Beck, il tuo obiettivo di pubblico è chiaro come il sole.
Basta poi dare uno sguardo al cast, capitanato da un Michael Cera all’epoca campione assoluto delle rom com più radicalmente hipster (tra cui almeno un paio prodotte da Judd Apatow). Oltre a lui vanno citati almeno Jason Schwartzman, Anna Kendrick e Kieran Culkin, tutti provenienti da una certa idea di cinema indie (per completezza va detto che il cast comprende anche una lista folle di nomi che da lì a breve avrebbero sfondato nel mondo dei blockbuster, da Chris Evans a Brie Larson).
Alla colonna sonora lavorarono, tra gli altri, Nigel Godrich, Dan the Automator, Kid Koala, Cornelius e il già citato Beck. Perfino l’inevitabile tie-in videoludico in pixel art non riuscì a esimersi da questa rincorsa alla ricerca di una coolness completamente incentrata sulla ricerca dello zeitgeist culturale. Ecco quindi assunti l’animatore Paul Robertson alla direzione artistica e il gruppo chiptune Anamanaguchi alla colonna sonora. Il risultato è un videogioco prodotto dalla major Ubisoft ma travestito da indie, come quelli a cui O’Malley disegnava le illustrazioni promozionali, diventato immediatamente di culto.
Scott Pilgrim vs. the World è il film millennial per definizione. Un blockbuster che si vergogna di finire nei multisala e fa di tutto per farci sentire intelligenti e disincantati, nonostante parli prevalentemente un linguaggio pop fatto di richiami alla nostra infanzia e alla nostra adolescenza. Ecco allora le colonne sonore di Zelda e Final Fantasy che fanno capolino, i mille riferimenti grafici agli anime, gli inserti pixelosi e lo schermo che si divide in pannelli come la pagina di un fumetto. Wright alza il volume a undici e non riesce a girare una scena dove non ci sia una trovata di linguaggio che strappi un sorriso allo spettatore. E in più i dialoghi ficcanti, le magliettine attillate degli Smashing Pumpkins (all’epoca non ancora vintage, semplicemente off), il sentimentalismo saccarinico e una pretesa di autentica profondità.
Come se tutto questo non bastasse c’è anche Ramona Flowers, la nostra Amélie. La ragazza in cerca di se stessa, motivo per cui si tinge i capelli di un colore diverso ogni tre settimane, e che vive secondo regole tutte sue (ma lavora comunque per una multinazionale). Quella che ti compare in sogno e ti spinge a metterti del tutto in discussione, facendoti passare al livello successivo della tua vita.
Come scriveva Emma Shapera su Collider: «A prima vista, il significato che Ramona ha per Scott è strettamente legato alla sua immagine. Scott vuole che lei dia senso alla sua vita amorosa diventando letteralmente la ragazza dei suoi sogni. Con il passare del tempo però Ramona assume un nuovo ruolo che non è conforme alle supposizioni che abbiamo fatto su di lei. Essendo impenitente ed egoista, costringe Scott a crescere e ad affrontare il suo passato e il suo presente. Questo le dà uno scopo diverso e più significativo rispetto all’originale manic pixie dream girl. Scott Pilgrim vs. the World sovverte le commedie romantiche del passato sfatando le aspettative iniziali di Scott nei confronti di Ramona Flowers. Cambia il suo valore e il suo ruolo iniziali e diventa una donna forte che va oltre l’etichetta di manic pixie dream girl».
Tre articoli da leggere per restare aggiornati
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• Nel Tempo Medio in cui viviamo la quantità delle immagini che accumuliamo le rende inutili, senza costruire un discorso che ci arricchisca.
• 20 anni fa usciva Pluto di Naoki Urasawa. Un manga struggente e potentissimo.
Rispetto a tutti gli altri personaggi del fumetto e della trasposizione cinematografica, Ramona si dimostra l’unica in grado di sorpassare la divisione in generazioni. Se Scott Pilgrim è irrimediabilmente legato allo stereotipo del nerd musicale che passa i pomeriggi da Rough Trade a spulciare vinili e a bere birre artigianali, la sua innamorata è considerata una delle ispiratrici di tutta l’estetica E-girl (si veda qui e qui), appartenente più alla generazione Z che a quella di cui abbiamo parlato fino a ora.
Sarà curioso stare a vedere se l’arrivo della serie anime sarà un evento in grado di attirare solo i fan della prima ora – l’operazione è costruita tutta su di loro, dal fatto che in originale i personaggi vengano doppiati dagli attori originali ai richiami a serie culto di inizio Duemila come FLCL – o se potrà raccogliere nuovi appassionati. Magari proprio grazie all’apporto di Ramona. Un’intera generazione di ragazze dai capelli colorati in grado, fino a un pugno di anni fa, di piazzarsi stabilmente nella testa dei loro coetanei – grazie non a un’autostrada iperspaziale ma a un fiume infinito di ore passate in streaming – potrebbe finalmente dare un volto alla propria ispiratrice.
Altro aspetto di discontinuità generazionale lo troviamo nella conclusione delle epiche imprese di Scott Pilgrim. Sia il film che il fumetto si concludono con un riferimento alla parte più oscura di noi, indicata in entrambi i casi come il nemico più difficile da sconfiggere e resa graficamente dal personaggio di Nega Scott (che mi piace pensare sia un riferimento a Dark Samus dal videogioco Metroid). Eppure, a dispetto di quanto ci si aspetterebbe da un’opera frutto di una generazione abituata a commiserarsi della propria depressione e miseria, i protagonisti reagiscono nella maniera più sorprendente possibile. Arrivano alla conclusione che il buio dentro di loro non è così tremendo come gli era stato raccontato e che forse quello che c’è fuori è molto peggio.
Così, nell’ultimo volume del fumetto preferiscono concentrare i propri sforzi nello sconfiggere l’ultimo ex fidanzato, anche perché nei libri precedenti hanno capito quanto i nostri aspetti meno piacevoli ci siano utili per crescere. Nel lungometraggio, invece, Scott arriva a dire che la sua controparte malvagia dopotutto è un tipo a posto, con cui ha molto in comune. Pensa addirittura di vederlo per un brunch. Un cambio di passo del tutto inaspettato, in grado di restituire a tutta la narrazione una maturità inaspettata e di consacrarla definitivamente tra i classici generazionali. Come dicevamo poco sopra, forse adesso soffre il posizionamento nel limbo temporale “troppo poco vecchia, non abbastanza nuova”, ma la coda lunga di Scott Pilgrim non è ancora destinata a esaurirsi.
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