Nell’identità di un supereroe non c’è nulla di più importante e iconico del costume. La tutina di spandex con cui combatte il cattivo di turno è il primo aspetto della sua identità che arriva al lettore, permettendogli di decodificarne il carattere ancora prima di leggere una singola riga di testo. Commercialmente ne marchia le copertine, permettendogli di svettare su tutti gli altri fumetti esposti. E potrebbe diventare il motore trainante del merchandising. Ragionando sul lungo periodo, è l’aspetto che permette, se tutto va per il meglio, di trasformare un personaggio in un‘icona.
Alla stessa maniera il cambio di costume è il classico segnale di un nuovo inizio, di un’apertura per i nuovi lettori e l’occasione per aggiornare ai tempi correnti personaggi con decine di anni di carriera sulle spalle. E in questo senso nessuno ha deciso di rifarsi il guardaroba tante volte quanto gli X-Men nei fumetti di Marvel Comics. Dopotutto, il team mutante è l’unico gruppo di supereroi ad avere il suo personale Met Gala, solo che si chiama Hellfire Gala (in italiano Gala Infernale) e solitamente finisce per comprendere in scaletta sorprese come la terraformazione di Marte o un massacro.
La festa – che ha esordito nel 2021 – si svolge a Krakoa, raccoglie rappresentanti di un gran numero di testate di Marvel Comics (oltre che celebrità come Patton Oswalt e Jimmy Kimmel) e rappresenta l’inizio dell’anno editoriale legato al mondo mutante. Fornisce inoltre la scusa ai nostri eroi per presentarsi in pubblico con costumi ancora più flamboyant del solito. Intorno alla curiosa trovata narrativa si è finito presto per costruire un piccolo culto, con tanto di guide ufficiali e improbabili classifiche degli outfit stilate da siti nerd improvvisatisi emuli di Vogue. Tanto per confermare ancora una volta l’importanza delle tutine in spandex colorato all’interno della narrazione supereroistica.
E allora lo scopo di questo articolo è proprio quello di analizzare i cambiamenti di look particolarmente significativi dei personaggi mutanti, consapevoli che tanti passaggi meno importanti – e per meno importanti intendiamo roba inclassificabile come questa Tempesta – verranno lasciati fuori. Ce ne faremo una ragione.

Nella loro incarnazione originale ideata da Stan Lee e Jack Kirby nei primi anni Sessanta, i costumi degli X-Men erano quasi identici per tutti i componenti della squadra. In primo luogo perché si trattava di una divisa scolastica – all’epoca erano tutti studenti della Scuola Xavier per Giovani Dotati – e poi perché era uno scaltro artificio grafico per uniformare personaggi già fisicamente molto diversi tra loro. C’erano quello di ghiaccio, quello con le ali, quello scimmiesco, quello con gli occhi nascosti da una monolente cremisi e infine la ragazza.
La progettazione grafica di quest’ultima, ovvero Jean Grey/Marvel Girl, riusciva a essere molto progressista, grazie a una divisa che era solo minimamente diversa da quella dei suoi compagni – non eravamo ancora arrivati al tragico punto in cui gli eroi maschi erano vestiti come agenti delle forze speciali e le eroine come pin-up aerografate su qualche motrice di camion -, e al contempo terribilmente retrograda. Il gimmick distintivo di Marvel Girl era di fatto essere una ragazza, come se bastasse quello a definirne l’identità.

Le cose cambiarono già nel 1967, a quattro anni dal debutto dei personaggi. Arrivarono i costumi personalizzati studiati da Werner Roth – nel racconto una concessione di Xavier per i propri studenti, ormai adulti – e la protagonista assoluta di questa evoluzione fu proprio Jean Grey. Mentre i suoi compagni si accontentavano di un cambio di colore e di cominciare a usare le mutande sopra i pantaloni, lei optò per un favoloso abito verde con scollo a V e minigonna.
Come ci spiega Anna Peppard, «anche negli anni Sessanta il vestito di Jean era complicato. Negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in gran parte dell’Europa, le minigonne e gli abiti furono i capisaldi della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta. Le minigonne erano il simbolo dell’emancipazione femminile, in particolare quelle della varietà “mod”, che erano spesso associate all’avventura in mondi nuovi e coraggiosi, come nella collezione “Space Age” di Pierre Cardin del 1964». Insomma, mentre Ciclope e gli altri giocavano ancora a fare gli eroi ragazzini, Marvel Girl era diventata una donna. Oltre a essere in assoluto la più stilosa del lotto.

Nel 1975 arrivò il primo rilancio della testata, con un nuovo team di eroi e le divise riviste da Dave Cockrum. Per adattarsi ai tempi la direzione editoriale della Marvel decise di dare alla squadra un nuovo afflato internazionale, andando a comprendere eroi russi (Colosso), canadesi (Wolverine), tedeschi (Nightcrawler), kenioti (Tempesta) e nativi americani (Thunderbird). I costumi erano tutti diversi tra di loro, rafforzando ancora di più le diverse identità tramite le grosse campiture di colori accesi. C’erano tanto rosso, giallo e blu sparati a massimo volume. In aggiunta a questo venivano sfruttati molti tagli netti, sia a livello di volumi che di tinte.
Ogni personaggio era caratterizzato da un qualche preziosismo che andava a smussare un minimo scelte di design così urlate, spostando l’attenzione sulle identità personali. C’era chi sfoggiava frangette (Thunderbird), chi cromature (Colosso) e chi una fluente chioma bianca che entrava a far parte direttamente del costume (Tempesta). Ciclope interpretava il trait d’union con il passato, portando avanti il suo primissimo costume con variazioni minime. In linea di massima non fu uno dei cambi di stile più felici, se non fosse per la presenza Kurt Wagner/Nightcrawler che, con i suoi stivali e guanti a contrasto, la carnagione blu e l’aspetto da gargoyle, rimane uno dei mutanti graficamente più riusciti, in qualsiasi stagione lo si prenda (facciamo finta che il periodo da bucaniere non ci sia mai stato).

Nel 1975 iniziò la gestione dei personaggi dello sceneggiatore Chris Claremont, che sarebbe rimasto alla loro guida fino al 1991. La sua interpretazione dei mutanti rimane una delle più importanti e di successo di sempre, anche in virtù degli enormi talenti che contribuirono negli anni a mettere le sue storie su carta. Tra gli aspetti che graficamente distinsero maggiormente questa lunghissima striscia di storie rimane il costume marrone e ocra di Wolverine sviluppato da John Byrne – un bel passo avanti rispetto allo smanicato con stampa tigrata e spalline blu – e l’arrivo dell’amata e ambigua Rogue, che nel giro di dieci numeri (dal 182 al 192) cambiò due costumi. Fino a quando, nel numero 193, gli autori non optarono per una tuta aderente nera che avrebbe fatto da base per una serie infinita di variazioni.
La novità grafica più importante degli anni Ottanta rimane comunque l’iconica e indimenticabile versione punk rock di Tempesta. Leggenda – poi confermata – vuole che si trattasse di una presa in giro da parte di Paul Smith nei confronti di un Walter Simonson ritornato in ufficio completamente sbarbato. Al di là di questi aspetti folcloristici rimane ancora oggi un redesign perfetto, che sintetizza alla perfezione lo spirito di quegli anni.

Sospesa tra post-punk, goth e deathrock, il personaggio si presentò ai compagni con assoluta nonchalance, gettando la nuova arrivata Kitty Pryde nel panico. «Come… hai potuto?» urla quest’ultima, allontanandosi con il viso tra le mani. Una reazione forse esagerata, non troppo diversa da quella di alcuni dei lettori più conservatori. Rimane il fatto che, dopo Jean Grey, a un’altra mutante veniva fatto scegliere finalmente di abbandonare divise ben oltre il ridicolo per passare a un nuova veste cucita su misura. In linea con i tempi e con un’idea di eroina lontana da quella dell’eterna spalla.
Il seguente strappo con la tradizione arrivò in corrispondenza con l’arrivo di quello che ancora oggi è uno dei disegnatori più associati agli stessi X-Men: Jim Lee. Nel 1989, sempre con Chris Claremont, il disegnatore riportò in auge la combo oro/blu, cominciando a lavorare anche sulla fisicità dei personaggi. E, per la prima e unica volta, anche Tempesta si allineò al resto del gruppo, rinunciando a tutta la sua carica eversiva. I mutanti cominciarono ad assomigliare sempre di più a modelli e modelle di intimo, con enormi muscoli e curve esplosive inguainate in tutine adamitiche.

Le divise erano identiche per tutti, confermando la deriva militarista che da lì a poco avrebbe coinvolto tutta l’estetica del fumetto mainstream statunitense. Tutti i personaggi erano tosti, belli e bravi a digrignare i denti, eppure l’enorme triangolo giallo rovesciato che partiva dalle spalle e arrivava all’inguine, tagliato in perpendicolare dall’orrenda cintura rossa, finì per sembrare un perizoma indossato sopra ai pantaloni. A completare il fantastico outfit c’era una specie di tutore da portare sopra il ginocchio, cercando anche in questo caso di suggerire qualche utilizzo tecnico. Siamo alla fase prototipica di quella che sarebbe stata tutta l’estetica Image Comics degli anni Novanta, fatta di orpelli ed esagerazioni. Una disperata ricerca della coolness, che paradossalmente ci avrebbe regalato una delle parentesi esteticamente più orrende di tutta la storia dei supereroi.
Lo strappo definitivo con la tradizione e la consacrazione di queste tendenze la si ebbe con il rilancio del 1991, sempre a opera di Jim Lee. Esattamente come era successo con il passaggio tra il primo, storico costume e la rivoluzione grafica del 1967, anche in questo caso si passò dalla divisa uguale per tutti alla più completa libertà di espressione. Le ragazze si adeguarono del tutto a un modello di bellezza basato sulle Vivid Girl alla Jenna Jameson, anche perché l’altro grande prototipo di bellezza di quegli anni era l’heroin chic di Kate Moss, che poco si prestava a un prodotto indirizzato ad adolescenti.
I maschietti erano invece più grossi e ipertrofici che mai. Non a caso nello stesso anno arrivò anche la prima uscita del Marvel Swimsuit Special, tremenda trovata a misura di nerd dove i mutanti (ma soprattutto le mutanti) si trovavano a esibirsi in un concorso di bellezza sfoggiando costumi da bagno disegnati da Janet Van Dyne (ovvero il membro degli Avengers conosciuta anche come Wasp).

A inizio anni Novanta, i costumi manifestarono un aumento smisurato dei layer che li componevano, diventando sempre più complessi. Non bastava più la tutina in spandex, adesso bisognava sovrapporre il giubbotto da aviatore, l’impermeabile, la cintura o la cartuccera. Non c’era la minima voglia di dare un senso cromatico all’insieme. Paradossalmente si cercava un aspetto sempre più tecnico delle divise, ma i tessuti persero ormai ogni forma di verosimiglianza.
Nel mondo degli X-Men non esisteva una fibra elastica che si potesse tendere in maniera realistica – pensate a come funzionano i reggiseni sportivi – preferendo invece aderire in maniera perfetta a ogni superficie su cui veniva stesa, come se si trattasse di una guaina spalmata sulla pelle. Così le forme dei seni delle ragazze e degli addominali di Ciclope e compagnia erano evidenziate come non mai. Nonostante non si tratti di una delle parentesi più esteticamente riuscite, questo redesign delle X-divise rimane a oggi uno dei più amati e iconici. Poi lamentiamoci se Alan Moore dice che i fumetti con i super tizi sono da adolescenti stupidi.

Nel 2001, sulle pagine dei fumetti degli X-Men arrivarono due fuoriclasse come Grant Morrison e Frank Quitely, e il minimo che ci si potesse aspettare era una rivoluzione copernicana. Prendendo spunto da quanto fatto da Bryan Singer nel suo primo film basato sui mutanti di casa Marvel, spandex e colori sgargianti furono cassati in maniera definitiva. Al loro posto arrivano giubbotti in pelle e tanta seriosità. Ogni aspetto anche solo vagamente camp dei costumi classici fu eliminato in virtù di un rinnovamento di tutta la loro testata a fumetti, che si preparava ad affrontare alcuni dei momenti più duri e drammatici della sua storia.
Si trattava di un trend che si si sarebbe presto allargato a macchia d’olio, ma che sulle pagine degli X-Men visse alcuni tra i suoi momenti più ispirati. Per prepararsi a un simile orizzonte degli eventi, le divise si fecero più cupe che mai. La X diventò enorme, attraversando tutto il petto degli eroi come un bersaglio, mentre faceva capolino anche sul dorso dei guanti. Non ho mai capito se il richiamo alla cultura straight edge fosse esplicito o solo fortuito, rimane il fatto che restituiva l’idea di un gruppo compatto e pronto a tutto per portare avanti le sue istanze.
L’unica eccezione all’uniformità delle divise la trovavamo in una strepitosa Emma Frost, la cui indipendenza era rimarcata da un’uniforme che faceva apparire gli eccessi degli anni Novanta come le sciocchezze per adolescenti quali erano. Nella divisa studiata per l’ex Regina Bianca, l’iconica X era definita da una scollatura abbondantissima e dalla vita irregolare dei minuscoli short. Una presa di posizione chiarissima, che si allineava alla minigonna di Jean Grey e al taglio alla moicana di Tempesta.
Il risultato non era seducente quanto minaccioso. Una dichiarazione di fortezza e indipendenza che prendeva con forza le distanze da trovate dal taglio prettamente exploitation come la Rogue della Terra Selvaggia di qualche anno prima. I mutanti di Morrison e Quitely erano molto diversi dagli spensierati studenti degli esordi. Sapevano ormai di dover affrontare sfide molto dure ed erano pronti per farlo al meglio. Per far capire come le stesse idee possano portare a risultati antitetici, se non gestite da persone di altrettanto talento, si osservi la tragedia rappresentata dai costumi di Salvador Larroca per gli X-Treme X-Men, pubblicati lo stesso anno. Difficile aspettarsi di più da una testata con un titolo che pareva il nome di un energy drink da discount.

Con Astonishing X-Men di Joss Whedon e John Cassaday si decise invece di tornare a giocare in territori più familiari, e gli autori raffigurarono i personaggi più come eroi che come vigilanti. Ciclope sfoggiava un cappuccio integrale – rinunciando ai capelli a vista esibiti con tanto orgoglio dagli anni Novanta – abbinandolo a una divisa asciutta come di rado si era visto prima. Per Emma Frost invece si preferì togliere dalla naftalina il completo classico da Regina Bianca, composto da corpetto e mantello fluente (optando però per dei pantaloni attillati, giusto un filo più in linea con i tempi rispetto agli slip degli esordi).
In linea di massima non si respirava un grande aria di rinnovamento, con una scelta di costumi già visti o modificati solo in minima parte. Nota di demerito per un Bestia totalmente inguardabile, con una X gigante stampata ad altezza pacco su pantaloni caprini a loro volta imbarazzanti. Non ci siamo proprio.
Le stesse divise si videro nuovamente, anche se rilette in chiave più cupa, nel periodo del crossover Messiah Complex (2008) che presentò un parziale ritorno a un’estetica più grim & gritty anni Novanta (non a caso uno dei disegnatori coinvolti era Mark Silvestri, disegnatore che ancora fa fatica a staccarsi da un certo tipo di immagine ormai invecchiata in maniera incontrovertibile).

Un’ulteriore variazione fu apportata da Simone Bianchi nell’arco narrativo Ghost Box dello stesso anno, dove la medesima base fu reinterpretata in chiave molto più barocca e materica. I materiali per la prima volta avevano un peso, alternando le consuete licenze poetiche (le tute che seguivano pedissequamente i muscoli tesi allo spasmo) e soluzioni più curiose e realistiche. Forse per la prima volta si vedevano cuciture, ricami e lavorazioni dotate di un senso anche nel mondo reale, compreso il visore di Ciclope che avrebbe potuto benissimo essere realizzato in alluminio fresato.

Sempre sulle pagine di Astonishing X-Men nel 2010 arrivò l’inclassificabile Kaare Andrews, che combinò uno dei suoi soliti pasticci da ragazzaccio incontenibile. L’illustrazione con cui si presentò al pubblico fu di quelle clamorose, con i costumi talmente spinti da sfiorare un immaginario alla Balenciaga. Tanto nero, tagli impossibili, atmosfera tesa da disastro imminente. Insomma, per una volta i Simpson non sono arrivati prima (anche se lì c’era lo zampino del vero Demna Gvasalia). Poi successe l’incomprensibile: nelle pagine interne gli eroi sembravano corrieri di DHL. Poco male se si considera che qualche anno dopo anche il brand ultracool Vetements (fondato, guarda un pò, proprio dal direttore creativo di Balenciaga) avrebbe presentato una collezione sviluppata insieme al gigante della logistica.

Arriviamo poi al 2012 e all’epoca dello sceneggiatore Brian Michael Bendis, che, con un gioco di scrittura riuscì a riesumare i costumi originali degli X-Men. L’operazione funzionò alla perfezione per due semplici motivi: a) possiamo girarla come vogliamo, ma il primo design delle X-suit rimane il più iconico in assoluto nella sua semplicità; b) in quel periodo Stuart Immonen rappresentava alla perfezione il tratto più fresco e interessante di tutta l’industria mainstream del fumetto statunitense. Grazie al suo apporto, il carattere camp di calzoncini portati sopra la calzamaglia e stivali con risvolto fu stemperato, arrivando a un compromesso sorprendentemente funzionale.

Poco convincente fu invece la parentesi All New, All Different, arco narrativo compreso tra i numeri 18 e 21 della serie All-New X-Men (2013), con il maldestro tentativo di infilarsi in un tipo di estetica alla Apple che in quegli anni periodicamente faceva capolino nei fumetti di supereroi. Basti pensare alla Future Foundation dei Fantastici Quattro e alle loro anemiche tutine: in un mondo dove l’uomo più intelligente del mondo ha il potere di deformarsi come la gomma, cercare di apparire moderni puntando su un minimalismo moscio e privo di mordente non ha proprio senso.
Nel 2013 arrivò per gli X-Men l’ennesimo rilancio e uno dei cambi di abito più radicali di sempre, realizzati dal solito Bendis alle sceneggiature e da Chris Bachalo ai disegni. I personaggi erano incazzosi come non mai, a partire da un Ciclope digrignante e con una bella X stampata in faccia. Si trattava di una scelta coraggiosa, che ripagava con un costume iconico troppo sottovalutato dai fan (non vi piace perché vi sembra eccessivo? Allora vi meritate questo). Stesso discorso per Emma Frost – ora in versione BDSM – e parzialmente per Magik, alias Illyana Rasputin.

Il redesign di -magik prendeva evidentemente spunto da un’estetica prettamente nipponica – nello specifico la combo spada sovradimensionata più quantità di tessuto limitata al minimo – rivisto attraverso una sensibilità da studio di videogiochi indie occidentale, restituendo al lettore un personaggio ben progettato e in grado di imporsi subito. Mancava però ogni forma di eversione, con una preferenza invece per scelte studiate per essere unicamente accattivanti. Maluccio invece il nuovo Magneto, che si prendeva lo slot del tipo enorme in armatura e finiva per sembrare tratto da un generico videogioco prodotto da Joe Madureira. In generale, si trattava comunque di un ottimo lavoro, perfettamente incorniciato nel gusto degli anni Dieci del nuovo secolo. Compresa la versione furry.
Eviterei ogni commento su quel pastrocchio grafico orchestrato da Jonathan Hickman per il suo rilancio dell’intera X-Family nel 2019. Scorrendo gallerie di annunci editoriali come questa l’impressione è quella di voler infilare praticamente di tutto nel calderone, consegnandoci un guazzabuglio di design senza né capo né coda. Se si osserva la copertina di Leinil Francis Yu la confusione è tale che addirittura alcuni personaggi sembrano realizzati da disegnatori diversi, come un Wolverine super dettagliato e una Rachel Summers quasi in una brutta versione american manga.

Va detto che la storia degli X-Men è sempre stata flagellata da un moltiplicarsi senza senso di testate aperte e poi chiuse alla velocità della luce, di cambi di look e di roster così sconclusionati da finire dimenticati nel giro di qualche numero. Senza considerare i continui mega crossover e i vari eventi catastrofici. Se a questo aggiungiamo uno scrittore demiurgo come Hickman lasciato evidentemente libero di fare tutto quello che gli pare, senza nessuna mediazione da parte di un editor un minimo cosciente di dove si voglia arrivare, il risultato è una costante perdita di presa sul pubblico.
Mi risulta difficile immaginare come il consueto fiume di icone vettoriali e loghi alla wannabe Ian Anderson generato dello sceneggiatore possa restituire qualcosa di realmente iconico, in grado di descrivere un minimo anche la realtà fuori da quelle pagine piene di esplosioni e scazzottate. Anche perché stiamo parlando di una narrazione spalmata su un intreccio di uscite sempre più difficile da seguire. Mi pare che la costante e coatta nerdizzazione del fumetto mainstream sia una delle cose peggiori che potesse capitargli. Non che alcune soluzioni grafiche (come quelle dei Secret X-Men) siano pessime, ma risultano prive di ogni forma di attrito. Sembrano fatte apposta per essere dimenticate, progettate con la verve con cui si disegnerebbe il menù di avvio di un videogioco (escludiamo da questo parallelismo quelli clamorosi di Persona 5).
Se riguardo le orrende versioni xtreme/alpha/next generation degli anni Novanta ci vedo tanti eccessi invecchiati male, ma anche la volontà di dettare uno stile che della timidezza a cui ci stiamo abituando non sa che farsene. Un gusto forse ridicolo, ma ricco di una sicumera in grado di illuderlo di poter andare oltre le strette pareti di una fumetteria. Che ci siano riusciti o meno è qualcosa di cui discutere. Rimane il fatto che almeno ne stiamo ancora parlando.
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