Era il 1963 quando gli X-Men, un gruppo di giovani supereroi mutanti, dotati cioè di un potere unico derivato da una mutazione genetica, fecero la loro prima apparizione nei fumetti di Marvel Comics. A idearli erano stati Stan Lee e Jack Kirby, che all’epoca avevano già creato buona parte dell’universo supereroico della casa editrice.
Al contrario di quanto era successo con Spider-Man o i Fantastici Quattro, in quei primi numeri, le avventure degli X-Men non erano però esattamente come quelle che avremmo imparato a conoscere negli anni successivi e furono tutto meno che un successo di vendite: la loro testata chiuse così dopo pochi anni, per poi essere rilanciata intorno alla metà degli anni Settanta.
A partire da quel momento, grazie al cambio di autori e all’introduzione di nuovi personaggi, gli X-Men diventarono prima i personaggi più venduti di Marvel Comics e poi una delle proprietà intellettuali più calde dell’intrattenimento in generale, protagonista di film, serie animate, videogiochi e tanto altro.
In tutto questo marasma, dal 1963 a oggi ci restano soprattutto 60 anni di storie a fumetti. Per celebrare questo importante anniversario, abbiamo voluto selezionare 10 storie degli X-Men che consideriamo pietre miliari, tra lunghe saghe e piccoli racconti, popolari o sconosciute, ma tutte da riscoprire.
La saga di Fenice Nera, di Chris Claremont e John Byrne

Se c’è una storia a fumetti degli X-Men che probabilmente tutti i fan dei personaggi conoscono è La saga di Fenice Nera. C’è chi l’ha letta in prima persona, chi ne ha sentito anche solo parlare, chi l’ha vista citata più e più volte nelle storie di epoche anche di molto successive, chi l’ha scoperta tramite gli adattamenti nella serie animata degli anni Novanta o nel film (molto poco riuscito) Dark Phoenix del 2019.
La saga di Fenice Nera – pubblicata nel 1980 su Uncanny X-Men 129-138 – rappresentò il primo apice della gestione Claremont degli X-Men, che da pochi mesi aveva trovato in John Byrne un collaboratore molto più innovativo e propositivo del pur apprezzabile Dave Cockrum, disegnatore delle sue prime storie. La trama era incentrata sulle vicende di Jean Grey, che qualche mese prima si era apparentemente sacrificata per salvare uno shuttle precipitato dallo spazio, rinascendo come Fenice con poteri molto più forti dei precedenti.
Con il tempo, però, la ragazza si trasformò in una versione malvagia di se stessa, Fenice Nera, fino a distruggere un’intera galassia, attirando le attenzioni dell’impero extraterrestre degli Shi’ar, intenzionati a fermarli. La guerra che ne derivò coinvolse ovviamente anche gli X-Men, che si ritrovarono fra la volontà di salvare in qualche modo la loro amica e la necessità di impedirle di distruggere altri sistemi solari. Alla fine, la ragazza – ritornata brevemente in sé – si suicidò per salvare il suo amato Scott Summers e impedire sviluppi ancora peggiori.
La storia portò gli X-Men in una nuova dimensione, mettendoli al centro di una grande epica fantascientifica dai toni profondamente drammatici, in cui a spiccare erano i caratteri dei personaggi nel mezzo di momenti memorabili – come Wolverine che riemerge dalle fogne nei sotterranei della base del Club Infernale. E tutto questo nonostante Claremont e Byrne non poterono dare alla saga il finale da loro voluto, con una Jean Grey che avrebbe dovuto ravvedersi invece di sacrificarsi (cosa ritenuta inaccettabile dai vertici di allora della Marvel).
(Andrea Antonazzo)
Giorni di un futuro passato, di Chris Claremont e John Byrne

Nel futuro, enormi robot noti come Sentinelle governano gli Stati Uniti e i mutanti sono confinati in campi di concentramento. Ma ora che il loro obiettivo di sterminio è quasi raggiunto, le Sentinelle meditano di conquistare il mondo. Temendo un olocausto nucleare, gli ultimi X-Men rimasti mandano Kitty Pryde nel passato affinché sventi l’assassinio del senatore Robert Kelly per mano della Confraternita dei Mutanti Malvagi capeggiata da Mystica, evento che aveva dato inizio alla lotta feroce tra umani e mutanti.
In solo due albi (Uncanny X-Men 141 e 142, usciti nel 1981) Claremont e Byrne raccontarono una storia apocalittica ambientata nell’allora futuro del 2013 (data scelta non a caso, dato che in quell’anno sarebbero passati 50 anni dalla creazione degli X-Men), declinando in versione mutante un topos fantascientifico che si sarebbe visto spesso nei fumetti dei decenni successivi. Nel panorama editoriale contemporaneo, una storia del genere sarebbe probabilmente allungata ad almeno sei albi e promossa come l’evento dell’anno. Invece, all’epoca, era soltanto un’avventura come un’altra, realizzata però con una precisione e una visionarietà fuori dal comune.
Giorni di un futuro passato rappresenta uno dei tantissimi vertici della gestione di Chris Claremont, qui in coppia con il disegnatore John Byrne. Fu proprio quest’ultimo a ideare una trama che avesse come protagonista le Sentinelle, personaggi verso cui Claremont non provava alcun interesse. La storia, che ha ispirato il film del 2014 X-Men – Giorni di un futuro passato, è stata spesso citata come fonte d’ispirazione per Terminator di James Cameron, uscito tre anni dopo la pubblicazione del fumetto – anche se in realtà storie molto simili a entrambe le opere si erano già viste in passato: lo stesso Byrne ammise di aver inconsapevolmente tratto ispirazione da Day of the Daleks, arco narrativo di Doctor Who andato in onda nel 1972 (senza contare il racconto di Ray Bradbury Rumore di tuono del 1952 o due episodi della serie tv The Outer Limits scritti nel 1964 da Harlan Ellison, che poi fece causa a Cameron).
(Andrea Fiamma)
Dio ama, l’uomo uccide, di Chris Claremont e Brent Anderson

Il tema del razzismo e le derive più tremende di certa politica reazionaria sono sempre stati tra i punti centrali degli X-Men. Fin dalle origini, i giovani dotati del Professor Xavier non erano eroi che dovevano i loro poteri a un morso di ragno radioattivo, a sostanze tossiche o ad armature ipertecnologiche. Per quanto ne avrebbero fatto volentieri a meno, vestivano il ruolo dei rappresentanti di una nuova evoluzione della razza umana. Se i protagonisti di casa DC miravano a essere qualcosa di simile a una moderna mitologia, quelli della Marvel spesso giocavano con la loro marginalità e il loro ritrovarsi, proprio per questa, a possedere loro malgrado poteri straordinari. E tra tutti questi, gli X-Men erano i più diversi tra i diversi. Costretti a nascondersi tra una missione e l’altra in una finta scuola privata per non essere linciati in piazza.
Nel quinto volume della serie Marvel Graphic Novel, innovativa linea di albi autoconclusivi voluti della dirigenza Marvel, Chris Claremont e Brent Eric Anderson decisero di sfruttare a pieno il nuovo formato varato dal caporedattore Jim Shooter per raccontare questo aspetto dei mutanti con una crudezza che non si era mai vista fino ad allora. A partire dalla sequenza d’apertura, con due bambini mutanti (e afroamericani) uccisi a sangue freddo e impiccati all’altalena di un parco giochi. Con tanto di cartello “Mutie” appeso al collo.
Come se i riferimenti alle tragedie della persecuzione razziale non fossero già abbastanza puntuali, ecco introdotto il cattivo di turno. Non un mostro proveniente da chissà quale anfratto della realtà o un mutante malvagio fuori controllo, ma il pastore creazionista William Stryker. Benestante, con un seguito enorme e un piano ben chiaro in testa per eliminare definitivamente i mutanti dalla faccia della Terra. Inutile dire che in un simile contesto, oltre agli X-Men, fa la sua comparsa anche Magneto, qui più deciso che mai a portare avanti la sua crociata di ribaltamento dei ruoli tra persecutore e perseguitato.
La situazione è così tesa che a Claremont è concesso un po’ di tutto, dall’utilizzo della “n-word” a scrivere di uno Xavier tentennante, pericolosamente vicino ad abbracciare le posizioni speciste di Magneto. Il tutto inserito in una storia che non svetta di certo per la potenza del suo intreccio o dei suoi colpi di scena, preferendo concentrarsi su un messaggio politico mai così esplicito. Anderson ci mette del suo, fa guadagnare spazio allo sceneggiatore riempiendo le pagine di vignette – tenendo anche conto che il formato dell’albo era sovradimensionato rispetto allo standard – e limitando al minimo i disegni ad affetto. Notevole la vignettatura che segue la morte di uno dei personaggi mentre cade privo di vita in diretta televisiva, una soluzione che sarebbe stata ripresa – con effetti altrettanto grotteschi – da Paul Verhoeven nel film Robocop.
Dio ama, l’uomo uccide non è certo la migliore storia degli X-Men in quanto tale, ma sicuramente quella in cui l’idea dietro al gruppo di eroi mutanti raggiunse la sua maturità e fu restituita al pubblico in maniera esplicita, senza più bisogno di nascondersi dietro a metafore o sovrastrutture.
(Marco Andreoletti)
Vitamorte, di Chris Claremont e Barry Windsor-Smith

Vitamorte e il suo seguito Vitamorte II (pubblicate a metà anni Ottanta rispettivamente su Uncanny X-Men 186 e 198) sono storie particolarmente preziose innanzitutto per un motivo: sono tra i pochi fumetti realizzati in carriera da Barry Windsor-Smith, disegnatore raffinato che da un certo punto in poi della carriera ha preferito curare i propri lavori in maniera maniacale, senza piegarsi ai ritmi della produzione commerciale.
Incentrate su Tempesta, presentano situazioni decisamente fuori dagli standard per un fumetto di supereroi: il loro focus non è sugli scontri tra esseri dai poteri sovrumani (che nel secondo racconto non sono nemmeno presenti), ma una riflessione introspettiva sulla protagonista, che viene restituita ai lettori come un personaggio ancora più sfaccettato e umano.
Da sempre considerata una “dea” dalle popolazioni indigene africane a causa dei suoi poteri di controllo degli agenti atmosferici, qui Tempesta si ritrova priva delle sue super capacità e costretta quindi a gestire in maniera diversa le situazioni a cui era abituata. Entrambe le storie iniziano così con la stessa frase, che richiama il mondo delle favole e delle principesse: «C’era una volta una donna che sapeva volare».
Ponendo la protagonista in due ambienti agli estremi fra di loro (un appartamento nel cuore di una grande città nella prima storia, le giungle africane nella seconda), Claremont e Windsor-Smith la accompagnano attraverso un ideale percorso alla ricerca di se stessa, fino a giungere alla necessaria morale finale, ovvero che non c’è bisogno di avere dei super poteri per essere vivi, per essere umani, financo degli eroi.
(Andrea Antonazzo)
Cavalieri di Madripoor, di Chris Claremont e Jim Lee

Madripoor, 1941: Un novello Capitan America arriva in aiuto di un russo che è stato attaccato dai ninja della Mano. Entrambi gli uomini vengono poi salvati da un nuovo arrivato, Logan. Dopo aver vinto la battaglia, quest’ultimo li porta in un bar gestito da una donna molto bassa, Seraph (nelle intenzioni di Claremont avremmo poi dovuto scoprire che era la madre di Wolverine, ma l’addio dello sceneggiatore agli X-Men mandò a rotoli queste e altre sottotrame), dove trova il barone von Strucker e un altro nazista.
Il russo, Ivan Petrovitch, dice loro che i Nazisti e la Mano stanno progettando un’alleanza e che hanno rapito una bambina a lui affidata: Natasha Romanoff (la futura Vedova Nera). L’intervento di Logan riesce a mettere in salvo la bambina. Quarant’anni dopo, nel presente: Vedova Nera si è recata a Madripoor come favore a Nick Fury per apprendere tutto sull’incontro tra i Fenris, i gemelli figli del barone Strucker, e Tsurayaba, il nuovo leader della Mano. La donna cade in una trappola dalla Mano, ma viene salvata da Wolverine, Psylocke e Jubilee.
Messa così, la storia di Cavalieri di Madripoor (uscita orginariamente su Uncanny X-Men 268 del settembre 1990) non sembra nulla di che. Anzi, è proprio così. Eppure è una perla nella gestione quasi ventennale di Chris Claremont. Scordatevi le trame da soap opera, dimenticatevi i complicati intrecci delle saghe mutanti, perché qui la storia è dritta come l’asfalto. Claremont confeziona un racconto autoconclusivo con tre personaggi che in linea teorica non avrebbero niente da spartire fra loro e invece funzionano molto bene: Wolverine, Capitan America e Vedova Nera. Lo fa intrecciando le due linee temporali, creando ritmo e attesa nella lettura e riuscendo a costruire un rapporto triangolare molto sentito e sfaccettato, tra un personaggio che cresce e due che sono praticamente immortali, senza dimenticare piccoli momenti di caratterizzazione del cast di contorno (Jubilee, Seraph, Psylocke).
Uno degli albi singoli di Marvel Comics più memorabili, con una copertina entrata nella Storia (è apparsa perfino in un video musicale di “Weird Al” Yankovic) e uno dei primi exploit di Jim Lee, che mise un’immagine d’impatto in ogni pagina dell’avventura, tra azione a schiaffi e corpi sensuali.
(Andrea Fiamma)
L’era di Apocalisse, di Scott Lobdell e autori vari

La grande saga mutante del 1995 nacque da una domanda molto precisa: «E se Charles Xavier non avesse mai fondato gli X-Men?». Uno spunto in linea con quelli dei “What If…?” pubblicati con regolarità da Marvel Comics fin dagli anni Sessanta, ma che, invece di finire su una testata secondaria per una ventina di pagine di spazio, divenne uno degli eventi più ricordati nella sessantennale storia editoriale del gruppo.
Per alcuni mesi tutte le (tante) testate mutanti dell’epoca furono rinominate – Uncanny X-Men per esempio diventò Astonishing X-Men, X-Men si trasformò in Amazing X-Men e così via – e l’azione fu del tutto spostata in un universo alternativo in cui Charles Xavier era morto prima di fondare la sua scuola per giovani dotati e Apocalisse aveva conquistato buona parte del mondo, rendendo i mutanti la specie dominante.
L’Era di Apocalisse fu l’apice della gestione mutante di Scott Lobdell, colui che per buona parte degli anni Novanta sostituì Chris Claremont come sceneggiatore principale degli X-Men e ideatore della saga insieme all’editor Bob Harras. Il crossover rappresentò un nuovo punto di partenza per il franchise degli X-Men, offrendo nuove versioni dei personaggi – i cui tratti caratteriali, senza la presenza di una guida come Xavier, potevano cambiarono in modo notevole –, creandone di nuovi in grado di affermarsi e rimanere almeno per un po’ di tempo in giro (X-Man, Blink) e segnando l’universo mutante a lungo.
Rimodellando tutti i personaggi più classici anche da un punto di vista grafico, L’Era di Apocalisse permise inoltre a disegnatori come Joe Madureira, Chris Bachalo, Tony Daniel e Salvador Larroca di scatenare la loro fantasia, mettendo in luce le influenze di manga e anime sul loro stile, offrendo qualcosa di fresco e innovativo, per l’epoca.
(Andrea Antonazzo)
E come Extinzione, di Grant Morrison e Frank Quitely

New X-Men di Grant Morrison fu la serie che diede una nuova audace direzione agli X-Men agli inizi degli anni Duemila, ridefinendo numerosi personaggi chiave e introducendone di nuovi, poi diventati punti fermi del mondo mutante.
Quando Morrison arrivò in Marvel, nel 2001, gli X-Men non se la stavano passando molto bene. I mutanti erano stati campioni delle vendite durante gli anni Novanta, ma un cast di centinaia di personaggi e trame sempre più arzigogolate avevano reso impenetrabili i fumetti per i nuovi lettori. Morrison affrontò i problemi di petto, eliminò il sottobosco di personaggi e alleggerì la continuity.
Insieme al disegnatore Frank Quitely, poi, propose un’estetica più vicina al minimalismo dei film che agli sgargianti costumi a cui erano abituati i lettori. Quello che ne venne fuori fu un lungo ciclo che aggiornò gli X-Men alla contemporaneità, trovando il giusto equilibrio fra tradizione e innovazione, e arrivando a vette visionarie come Silenzio: salvataggio psichico in corso, una storia muta in cui Emma Frost e Jean Grey partono per una missione telepatica all’interno del subconscio di Charles Xavier.
Innanzitutto, però, Morrison partì con il botto, con una prima saga dal titolo E come Extinzione (pubblicata su New X-Men 114-116) in cui rivelò che gli umani si stavano estinguendo. Introdusse, inoltre, una sorella gemella malvagia di Xavier che si macchia del genocidio di 16 milioni di mutanti prima di essere freddata a colpi di pistola da Xavier stesso, il quale, non contento, rivela pubblicamente in diretta televisiva la propria identità di capo e guida degli X-Men. Una delle migliori saghe degli X-Men di sempre, imperdibile.
(Andrea Fiamma)
Pericoloso, di Joss Whedon e John Cassidy

Nel 2004 Joss Whedon era all’apice della sua carriera televisiva. Buffy si era concluso da appena un anno ed era già considerato un classico della televisione moderna. Anche Angel era ormai alle battute finali, mentre la meno fortunata Firefly lo aveva consegnato definitivamente al gotha del mondo nerd. Lo sceneggiatore, regista e showrunner era noto a tutti per la sua capacità di scrivere grandi storie, leggere ma al contempo dotate di una spiccata profondità. Aveva i piedi ben piantati in un immaginario fantastico fatto di fumetti e blockbuster e una sensibilità in grado di fargli interpretare in maniera cristallina il contemporaneo. Quando Marvel Comics decise di affidargli il rilancio degli X-Men, la curiosità fu tanta, anche in virtù di chi l‘aveva preceduto. La gestione Morrison-Quitely si era infatti dimostrata la più impegnativa, cervellotica e visionaria dell’intera carriera dei mutanti.
Per fortuna all’epoca la dirigenza Marvel non veleggiava a vista come quella odierna, e l’operazione assunse subito i connotati di un piano ben congegnato. In primo luogo la nuova serie fu definita fin dalla testata in copertina come qualcosa di del tutto inedito (da New X-Men si passava ad Astonishing X-Men). In secondo luogo le matite furono affidate a John Cassaday, nel suo realismo forse il disegnatore stilisticamente più lontano dai grafismi dello scozzese impegnato prima di lui sui personaggi, eppure altrettanto abile nel costruire tavole spettacolari e memorabili.
Con un partner simile Whedon avrebbe potuto permettersi di tutto, e invece scelse la via più basilare. Nella lunga run che aveva in testa non c’era spazio per voli pindarici o esperimenti astrusi. Sapendo di arrivare dopo una gestione di rottura come quella di Morrison, l’idea di un ritorno alle origini fu tanto scontata quanto funzionale. Così il primo ciclo di storie si pose subito come una specie di bigino della serialità: c’era una idea grossa e sorprendente a fare da motore a tutti gli snodi narrativi, il ritorno di un personaggio amato, tensione tra i soliti noti, spettacolarità quanto basta, la solita cura nei dialoghi e tutti gli agganci di rito con quello che sarebbe arrivato più avanti. Una ricetta perfetta che raggiunse però il suo culmine con il secondo story arc: Pericoloso (su Astonishing X-Men 7-12), riassumibile in un pugno di parole: «E se la Stanza del Pericolo volesse uccidere DAVVERO gli X-Men?».
Un’idea di una semplicità sorprendente, che dà il via a una vicenda completamente votata all’azione, dove tensione e impunture di umorismo convivono con un ritmo forsennato. Tutta la gestione Whedon-Cassaday viaggiò su livelli altissimi, ma questo pugno di numeri la sintetizzò alla perfezione. Gli X-Men tornarono a essere un fumetto di evasione, fatto di grandi avventure e trovate rocambolesche. In quest’ottica, l’amaro finale, dove Xavier ammette di avere imprigionato e sfruttato per anni un’intelligenza artificiale senziente, arriva come una cazzotto in pieno stomaco. Sulla copertina vediamo i suoi X-Men voltargli le spalle, e tutta questa run finisce per guadagnare una dimensione di dramma necessaria a farla finire tra le migliori di sempre.
(Marco Andreoletti)
Nuovi Mutanti, di Brian Michael Bendis e David Finch

Di tutto il parco testate Ultimate (l’etichetta di inizio anni Duemila che aggiornava i supereroi Marvel per un pubblico contemporaneo), Ultimate X-Men non fu la migliore delle serie, anzi, al ventesimo numero sembrò aveva già finito le cose da dire. Scritta per i primi due anni da Mark Millar, nel 2003 la serie passò di mano a Brian Michael Bendis. Lo sceneggiatore debuttò, affiancato da David Finch, con un manifesto programmatico, un arco narrativo dal titolo Blockbuster.
Lo sceneggiatore rimase sulla serie per un annetto, sceneggiando due cicli, Blockbuster, per l’appunto, e Nuovi Mutanti (pubblicata su Ultimate X-Men 40-45). Le sue storie seguivano il tono impostato da Millar – mondo reale + mutanti minacciati + vrooom vrooom scooteroni – ma sostituivano la caciara e gli high concept con un umorismo asciutto e l’interesse verso personaggi e relazioni.
In Nuovi Mutanti il Presidente degli Stati Uniti, consigliato dal suo staff, decide di allontanarsi da Charles Xavier per costituire una squadra governativa di mutanti guidata da Emma Frost. Durante la presentazione del gruppo alla stampa, una Sentinella inizia a seminare il panico tra la folla, e solo l’intervento degli X-Men evita una strage. I mutanti governativi vengono poi accolto nell’istituto di Xavier.
In mezzo a questo bailamme Bendis infila intrighi politici e momenti atipicissimi come una storia – la seconda della saga, nonché senza dubbio il suo apice – dove non c’è né una lotta né mezza scazzottata, ma solo uno dei protagonisti della serie, Wolverine, mentre tutto il racconto è incentrato su un adolescente che scopre di essere un mutante.
Il potere mutante del ragazzo consiste nel nebulizzare chiunque gli stia attorno. Si sveglia una mattina e trova i vestiti della famiglia stesi in cucina, le strade fuori di casa deserte. Solo quando la sua ragazza lo avvicina all’ingresso di scuola ed evapora davanti ai suoi occhi capisce che in quei pantaloni e camicie e magliette i suoi cari ci erano morti. Wolverine è mandato dal professor Xavier a informarlo della sua natura e dell’estrema pericolosità del suo potere (soprattutto per la reputazione di fronte all’opinione pubblica dei mutanti, impegnati a promuovere una coabitazione pacifica tra umani e mutanti). Dopodiché gli comunica la sua reale missione: giustiziarlo.
È una storia devastante, eseguita con un unico gesto, fermo e preciso. È disegnata così così da un David Finch più a suo agio con le scazzottate che con la resa delle emozioni, ma la sceneggiatura riesce a superare anche quello scoglio. L’episodio non serve come introduzione a nessun’altra vicenda, non ci saranno ripercussioni di quell’atto e tutto continuerà a scorrere come prima. In una gestione altrimenti lievissima, Bendis si prese il tempo per questa tangente che dimostrò quanto cinico e barbarico potesse essere il sogno di Charles Xavier aggiornato al Ventunesimo secolo.
(Andrea Fiamma)
House of X/Powers of X, di Jonathan Hickman, Pepe Larraz e R.B. Silva

Per anni nei fumetti gli X-Men sono stati in balia di gestioni altalenanti e una presenza sottotono, per decisione della casa madre, che voleva lasciare in secondo piano i franchise di cui non aveva i diritti cinematografici, come i Fantastici Quattro e, appunto, gli X-Men. Ma quando anche quei personaggi sono tornati all’ovile, le cose sono cambiate. E così, nel 2019 Jonathan Hickman progettò una mastodontica e ambiziosa gestione che mirava a ripensare gli X-Men dalle fondamenta.
Aperta da una saga di dodici episodi, divisa in due miniserie, House of X e Power of X, la gestione svelava che Moira MacTaggert – personaggio di lungo corso creato da Chris Claremont e Dave Cockrum nel 1975 (scienziata, amante di Banshee e primo amore di Charles Xavier) – non era un’umana come avevamo sempre saputo, ma bensì una mutante dotata del potere della reincarnazione. Hickman rivelò che la donna aveva già vissuto nove vite cercando di risolvere il problema della convivenza tra umani e mutanti, battendo strade diverse (la diplomazia, il pugno di ferro, l’alleanza con Xavier, Magneto, Apocalisse), ma sempre fallendo nella missione. Ogni sviluppo portava infatti alla creazione delle sentinelle (l’intelligenza artificiale, dice MacTaggart, è come il fuoco: non viene inventata ma solo scoperta, e dunque ogni mossa potrà solo ritardare l’ascesa dei robot senzienti) e allo sterminio dei mutanti.
Arrivata alla decima vita, Moira incontra Xavier molto presto, portando alla scena del parco in cui il professore le legge la mente e scopre la storia della donna. Il futuro degli X-Men – gli ultimi dieci anni di storie, dal momento in cui si incontrarono i due – era dunque cambiato e avrebbe dato origine allo status quo presentatoci da Hickman: i mutanti vivono in maniera apparentemente pacifica sull’isola senziente Krakoa, diventato stato mutante indipendente. Ma il nuovo rapporto di forza tra umani e mutanti, e tra mutanti stessi, è solo il primo passo di una nuova, difficile, era.
Strizzando l’occhio alle tendenze della letteratura sci-fi contemporanea (il new weird, il biopunk, i giochi col linguaggio di Ted Chiang, l’horror ambientale di Jeff VanderMeer, i discorsi sulla naturale e la bioingegneria) Hickman provò ad allargare il pubblico coinvolgendo gli appassionati del fantastico at large, nel contempo operando una riscrittura dei temi portati da Chris Claremont e Grant Morrison. Non tutto funzionava a dovere, anche perché la gestione era orchestrata su più testate ed era ricca di rimandi interni e al passato, rendendo la lettura un piacere per i lettori più impallinati, meno per quelli distratti, ma le ambizioni dello sceneggiatore – e del gruppo di autori con cui collaborò – entusiasmavano: House of X/Power of X era una lettura stratificata e appagante che mancava da tempo nel mondo degli X-Men.
(Andrea Fiamma)
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