Don Rosa è tra gli ospiti internazionali di Lucca Comics & Games 2023 (1 – 5 novembre). Sarà presente al festival in collaborazione con Panini Comics.

Capita spesso che un artista debba la propria fama a un’unica, grande opera. Può averla realizzata da giovane ed essere morto poco dopo, o essersi dedicato ad altro per la maggior parte del tempo, o non aver prodotto niente di altrettanto memorabile. Per alcuni autori, invece, certe opere sono una vera maledizione: talmente osannate da mettere in ombra tutto ciò che porta la stessa firma. Anche quando la qualità media non cambia. Anche quando l’opera magna e quelle “minori” sono legate a doppio filo.
In ambito disneyano, Don Rosa vive questo paradosso da più di trent’anni. Da quando, cioè, cominciò a fare ordine nel passato di Paperon de’ Paperoni per ricostruirne le gesta e i fallimenti, attenendosi scrupolosamente al verbo di Carl Barks, il creatore del personaggio. Il primo risultato significativo di questo scavo fu La Saga di Paperon de’ Paperoni (in originale The Life and Times of Scrooge McDuck), una storia in 12 capitoli che ci mise poco a fare scuola e che ridefinì l’identità del suo autore. Per gli appassionati diventò naturale associare il suo nome a quello della $aga.
Con il tempo il resto della produzione di Don Rosa si è confuso con la $aga stessa, ma non sempre è stato ripubblicato con altrettanta costanza. In Italia molti lettori hanno dovuto aspettare anche vent’anni per scoprire storie ugualmente interessanti, in grado di gettare nuova luce su qualche capitolo del fortunato ciclo. E ora che abbiamo la conferma che quel ciclo non potrà più essere ripubblicato nella sua interezza, è arrivato il momento di dare un’occhiata a tutto quello che gli sta attorno. Perché l’immaginario di un autore che ha prodotto quasi 90 fumetti utilizzando sempre gli stessi personaggi non può starci tutto in una dozzina di storie.

Una piccola nota di metodo prima di iniziare. Don Rosa è un autore monolitico: la sua produzione disneyana è omogenea non solo dal punto di vista tematico o formale, ma anche sul piano concettuale. Lo scopo dichiarato del cartoonist di Louisville è omaggiare in grande stile il proprio mentore, trattare tutte le sue storie autoconclusive come tasselli di un’unica grande epopea della quale Barks ha raccontato solo alcune parti. Rosa tenta quindi di colmare tutti gli spazi rimasti vuoti, e lo fa praticamente in ogni suo fumetto in misura più o meno esplicita. La $aga non è che la punta dell’iceberg, l’ideale punto di arrivo di un discorso che potrebbe durare all’infinito, e che infatti l’autore ha interrotto soltanto a fine carriera.
Tutto questo per dire che in certi casi è difficile stabilire in che misura una storia “appartenga” o meno a Life and Times. Alcune sono ambientate nel passato di Paperone e andrebbero lette tra un capitolo e l’altro del ciclo originale, altre riprendono fatti barksiani senza collegarsi direttamente alla biografia di Scrooge, e in altre ancora Don Rosa cita unicamente se stesso prendendo la $aga come modello.
Quando si parla di quest’ultima sarebbe più corretto attenersi al suo nucleo originale: una serie di 12 storie pubblicate tra il 1992 e il 1994, in stretta continuità l’una con l’altra. Tutti i fumetti “borderline” che approfondiscono a loro volta questa grande opera di approfondimento (qui trovate l’elenco completo) andrebbero trattati al pari di qualsiasi altra storia donrosiana.
Il signore dei sequel
Pur essendo l’apice della produzione di Don Rosa, la Saga di Paperon de’ Paperoni si basa sul presupposto contrario a quello di molti altri suoi lavori. È infatti un lungo prequel ai fumetti di Barks degli anni Cinquanta, il racconto di come si era giunti fin lì. Solo che Don ci mise mano appena dopo essersi specializzato nell’esercizio opposto: scrivere e disegnare dei sequel di quelle stesse vicende.
L’occasione si era presentata già nel 1988, quando Rosa lavorava per il mercato statunitense. Bruce Hamilton, il proprietario della Gladstone Publishing, gli aveva commissionato una storia che riprendesse la vicenda di Paperino e il sentiero degli Incas da dove Barks l’aveva interrotta, con il ritorno a casa di Paperino e nipoti dopo mille peripezie. Nacque così Paperino e il ritorno a Testaquadra, che prendeva spunto proprio da un dipinto a olio di Barks ambientato nello sperduto paese delle Ande, e dove c’era anche Zio Paperone (assente nel fumetto originale).
Dal 1990, quando Don cominciò a lavorare per il gruppo editoriale danese Egmont, ricevette la stessa richiesta più e più volte, perché i lettori nordeuropei chiedevano espressamente i sequel delle loro storie preferite. Rosa rispose presente, e in breve divenne un’istituzione in materia.

Quasi tutti i suoi sequel erano tra le migliori storie Disney degli anni Novanta. Entravano in dialogo con l’opera di partenza, non scadevano nel fanservice più spinto, si preoccupavano di mettere i lettori al corrente dei fatti pregressi, attualizzavano le tematiche originali, ma soprattutto brillavano di luce propria senza gareggiare con i fumetti di Barks. Più ancora che nella $aga, era qui che Don Rosa aveva modo di confrontarsi con il suo maestro, replicando quello specifico frangente o riprendendo il carattere di Paperone per come lo ritraeva quella storia precisa.
Rosa non ambiva a realizzare parabole esemplari sulla condizione umana, com’era tipico di Barks. Insisteva invece sul registro avventuroso (anche a costo di esibire l’intelaiatura del racconto), perché sapeva di avere a che fare con delle icone, personaggi di un’altra epoca (gli anni Cinquanta) ancora in grado di parlare al nostro presente.
Chi si aspettava una fedele riproposizione della poetica barksiana restava puntualmente deluso. Zio Paperone e il ritorno a Xanadu (1991) era ambientata nella stessa valle himalayana che faceva da sfondo a Zio Paperone e la dollarallergia (1954). I suoi abitanti erano rimasti pacifici e anche in questa occasione il ritorno dei Paperi sconvolgeva le loro vite. Per il resto, si trattava di due storie completamente diverse. L’originale era una satira corrosiva del capitalismo, narrata con un distacco quasi sociologico per vivisezionare le dinamiche di quel sistema. Il suo sequel, invece, era una grande storia avventurosa, dove il narratore strizzava l’occhio ai suoi personaggi ed enfatizzava battute, gesti, luoghi, ammantandoli di un’aura di mito.
In certi casi Rosa fu più esplicito nel rimodernare le storie di origine. Zio Paperone e la guerra dei Wendigo (1991), che ripropose le dinamiche di Paperino nella terra degli Indiani Pigmei (1957), non si limitò a recuperare il messaggio ambientalista, ma lo rese il perno dell’intera vicenda. Le mutate condizioni ambientali nella terra dei Pikoletos rendevano ancora più drammatico e attuale il loro scontro con Paperone, che non poteva sfangarsela facendo combattere Paperino con qualche re storione come nell’originale, perché nelle acque dei laghi non c’erano quasi più animali del genere. In questo modo Don riuscì a omaggiare Barks con una storia coerente con la propria poetica revisionista, e onorare le richieste dell’editore, che voleva pubblicare un fumetto per sensibilizzare i lettori sul tema delle piogge acide in Scandinavia.
In altre circostanze Rosa usò i sequel come pretesto per cementare la propria produzione con quella di Barks. Paperino e le carte perdute di colombo (1995) fu concepita come seguito del classico Paperino e il cimiero vichingo (1952) e di un’altra storia donrosiana, Zio Paperone e i guardiani della biblioteca perduta (1993). Mai come stavolta i legami con i fumetti omaggiati erano tanto ambigui. Le carte perdute intrecciava l’attendibilità della ricostruzione storica “alla National Geographic“, tipica di Barks, con un umorismo demenziale e un’enfasi sull’avventura (era in ballo il destino del Nordamerica) perfettamente donrosiani.
A fare da tramite tra questi due poli, un finale antiretorico che riscriveva la Storia riducendo per una volta i Paperi a semplici comparse sullo sfondo di un ingarbugliato ordito secolare. Ancora una volta Rosa era partito dall’idea per un sequel e l’aveva trasformata in qualcos’altro, lontano tanto dal modello quanto dai suoi precedenti lavori.

Il re dell’umorismo demenziale
La Saga di Paperon de’ Paperoni è tante cose: una fanfiction genuina, un racconto di formazione orchestrato con sapienza, un maestoso lavoro di worldbuilding e un ottimo prodotto di intrattenimento, punteggiato di gag talvolta raffinate talvolta votate alla demenzialità. Eppure, sotto questo aspetto, è altrove che Don Rosa ha sparato le sue cartucce migliori. Più precisamente in una tipologia di storie che ha sempre trovato difficile da realizzare, e che infatti costituisce una fetta esigua della sua produzione: i fumetti brevi da 10-12 tavole (le cosiddette tenpage).
Le tenpage donrosiane funzionano in modo molto simile a quelle di Barks, inanellando una serie di battute e trovate visive che gravitano attorno a un tema o a un luogo comune della commedia classica. Ma è nell’umorismo messo in campo che si differenziano dai modelli. Al posto dei paradossi, delle iperboli o degli sketch da cartone animato della tradizione barksiana, fumetti come Accadde al grattacielo de’ Paperoni o Il papero che cadde sulla Terra premono sull’acceleratore del nonsense. Ingigantiscono situazioni ordinarie (lavare i vetri di un grattacielo o inseguire una moneta caduta per strada) e ne banalizzano di enormi (andare e tornare dallo spazio a bordo di un aereo scassato), facendosi influenzare nelle battute dalla commedia intelligente dei Monty Python e del primo Woody Allen.
Ma Don Rosa strappava un sorriso ai lettori giocando soprattutto con l’impatto visivo delle sue trovate, ad esempio ruotando la metà inferiore di ogni tavola in Una questione di estrema gravità (1996), per ricreare la prospettiva distorta dei Paperi frutto di una magia di Amelia. Oppure facendo percorrere ai Bassotti lo spazio bianco tra una vignetta e l’altra a mo’ di condotto dell’aria condizionata, per farli arrivare più velocemente al cuore del deposito (Bassotti contro Deposito, 2001).
Al metafumetto è legato anche uno degli espedienti comici donrosiani più frequenti, praticamente assente in Disney prima degli anni Novanta: il botta e risposta di balloon in una stessa vignetta, che azzera l’incredulità nel momento in cui la battuta diventa fuori sincrono con l’espressione del personaggio. Escamotage ottimo per rimarcare i frangenti più esagerati o demenziali.
All’essenzialità della messa in pagina di Barks, frutto di un lento processo di sintesi, Rosa contrapponeva tavole ipertrofiche, ricche di contrappunti comici che rafforzavano fino allo spasimo la gag di turno e rendevano più stratificata la lettura. In qualche modo tutto il contenuto della vignetta interagiva con i personaggi, in un continuo gioco al rialzo che quasi entrava in competizione con Paperino enciclopedico (1948), tra le poche tenpage di Barks votate a questo tipo di umorismo. Anche la $aga straripava di trovate del genere, ma era nelle storie brevi che Don dava sfogo a tutta la sua creatività.

In ogni caso la vis comica scaturiva sempre dai personaggi ed era spesso giudice del loro agire. Rosa utilizzava le caricature per criticare la riduzione a caricatura dei suoi protagonisti, una loro decisione avventata (Paperone ne prendeva molte in Cuori nello Yukon) o un’azione sleale (la benzina di cui si alimentava L’astuto papero del varco di Culebra).
In questo approccio e nelle sue ripercussioni sui personaggi, le differenze tra la $aga e il resto non si contano. Basti il trattamento di Manibuche de’ Paperoni, lo zio di Paperone che aveva esordito nel secondo capitolo di Life and Times come padre putativo del giovane protagonista, la sua prima vera guida nell’insidiosa America. In una storia del 1996 (Il vigilante di Pizen Bluff) sarebbe riapparso in veste di macchietta per certificare il suo cambiamento, da cacciatore di tesori a bieco sfruttatore del mito della Frontiera. In entrambi i casi, neanche a dirlo, godeva di uno spessore adatto al ruolo. E le sue demenziali disavventure ne ribadivano con amarezza l’involuzione.
Il cuore di un’epopea
Nel 1995, Paperino e le carte perdute di Colombo era l’ennesima grande opera di un autore che aveva appena ultimato il suo capolavoro e che aveva davanti a sé altri dieci anni di carriera. Dieci anni in cui non sarebbe cambiato nulla (personaggi, temi, umorismo, leitmotiv), eccetto forse una cosa: il rapporto con i fumetti di Barks.
Quella storia, infatti, diceva anche di un fumettista che stava per affrancarsi dal suo mentore, facendosi influenzare unicamente dalla propria poetica, dalla concentrazione ossessiva sulla genealogia della famiglia dei Paperi, famiglia che lui stesso, di fatto, aveva creato basandosi sugli estemporanei appunti di Barks.
Proprio questo input diede vita a molte storie di ampio respiro degli anni successivi, da Qualcosa di veramente speciale (1997) a Una lettera da casa (2004), che nei casi migliori (vedi la prima) aggiunsero ancora qualcosa, in quelli peggiori (vedi la seconda) misero in luce i segnali di un’eccessiva autoreferenzialità.
Esattamente nel mezzo si colloca l’ultimo fumetto di Don Rosa in ordine di tempo, La prigioniera del fosso dell’Agonia Bianca (2006). Discussa, quasi rifiutata dai fan più ortodossi, aspramente criticata ancora oggi per la sua assenza di mezze misure nel dipingere il sentimento tra Paperone e “la stella del Polo” Doretta Doremì, è allo stesso tempo summa e riscrittura della poetica del suo autore. Summa, perché porta all’estremo la volontà di riempire ogni interstizio dell’epopea, anche quello più intimo e doloroso. Riscrittura, perché nel farlo tradisce in profondità proprio il vecchio spirito guida barksiano che si sarebbe limitato ad alludere, glissare, sfocare. Eppure nei piani di Rosa era la vera perdita dell’innocenza da parte di Scrooge, che avrebbe dovuto essere raccontata già ai tempi di Life and Times.

Per recuperare altre grandi avventure donrosiane bisogna guardare, se non proprio agli anni prima della $aga, perlomeno alla fine dei Novanta. Il capitano cow-boy del Cutty Sark (1998) era e rimane probabilmente il miglior fumetto autoconclusivo sulla giovinezza di Paperone, dove la consueta cura maniacale per l’affresco storico si sfalda di fronte all’insensatezza dei fatti di cui il Nostro è testimone oculare (l’eruzione del vulcano Krakatoa in tutte le sue fasi).
Con Sua Maestà de’ Paperoni (1989), invece, Rosa aveva firmato il suo miglior lavoro pre-$aga, una grande recita in costume al tempo stesso critica e benevola verso la lucida follia di Scrooge, che riusciva a rendere la Collina Ammazzamotori indipendente dal Calisota e la trasformava in un improvvisato reame a conduzione famigliare. Altro esempio perfetto di fumetto in bilico tra squarcio storico, commedia intelligente e omaggio affettuoso al mentore, nel tentativo di tramandarne l’eredità.
Don Rosa del resto si rivolgeva a una generazione che non aveva conosciuto direttamente Barks e che quando sentiva parlare di Paperi pensava più probabilmente a DuckTales e alla sua dimensione avventurosa priva di spigoli o sovrastrutture. All’autore non piaceva quella versione così ingenua ed edulcorata dei personaggi che amava, ma sapeva di dover intercettare anche i gusti dei fan della serie.
Nei suoi fumetti sembrava assecondarne la ricetta (ritmo indiavolato e sense of wonder di seconda mano), ma in realtà la problematizzava, la riproponeva in chiave adulta infarcendola di citazioni alte e basse, dalla termodinamica al vaudeville, e riusciva a far sentire la propria voce senza essere schiacciato dal materiale di partenza – un modello rievocato di continuo e proprio per questo, teoricamente, ancora più ingombrante. In questo stava la sua forza. Su questo si fondano ($aga o non $aga) tutte le sue storie migliori.
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