Garth Ennis è tra gli ospiti internazionali di Lucca Comics & Games 2023 (1 – 5 novembre). Sarà presente al festival in collaborazione con Panini Comics e saldaPress.

Il primo numero di Marjorie Finnegan – Ladra temporale del 2021, esordio di Garth Ennis per la casa editrice AWA Studios, si apre con un monologo interiore della protagonista che potrebbe benissimo essere riferito allo sceneggiatore stesso: «La gente mi dice: Marj, il tuo senso dell’umorismo è così strano. È malato, scorretto e infantile. È grezzo. Allora io dico… e che cazzo! Cosa intendi per malato o crudo? Andiamo, chi credi di essere? La vecchia zia Agata? Scorretto? Stupidaggini! E per quanto riguarda il fatto che sia infantile, beh, chi lo pensa non è che nel frattempo si stia dedicando alla lettura de Le affinità elettive di Goethe. Capisci cosa voglio dire?». Al che estrae un grosso fucile e comincia a seminare il terrore tra i suoi aggressori.
Passano gli anni, eppure il tono di voce dello sceneggiatore nordirlandese non accenna a cambiare di una virgola. Orgogliosamente fuori tempo massimo, totalmente slegato da ogni forma di ricerca dello zeitgeist culturale. Oggi come negli anni Novanta, quando, neppure trentenne, sconquassava l’industria a fumetti statunitense scrivendo un filotto di lavori enormi.
Dopo essere diventato uno degli scrittori di punta della rivista britannica 2000 AD con una run di Judge Dredd ancora considerata tra le migliori di sempre, nel 1992, a ventuno anni, fu chiamato da Karen Berger per sceneggiare Hellblazer – la serie della linea Vertigo di DC Comics dedicata a John Constantine -, impiegando poco tempo per guadagnarsi abbastanza credito da farsi approvare dalla dirigenza della casa editrice due serie sopra le righe come Hitman e Preacher.
La sua figura diventò talmente di spicco da trovare subito casa anche presso Image Comics, dove il disegnatore Marc Silvestri lo volle al suo fianco nei primi numeri della sua creazione dell’antieroe The Darkness. Nel 2001 ci fu il passaggio in Marvel, dove consegnò forse la migliore gestione del Punisher di sempre, e da lì una serie infinita di titoli per praticamente tutte le case editrici statunitensi. Dagli esperimenti con John Woo per la defunta Virgin Comics, passando per l’apparente disponibilità da parte della Avatar Press di mandare alle stampe qualsiasi cosa con il suo nome sopra, fino alle celebrate Storie di Guerra per DC.

In seguito la Marvel lo ha richiamato più volte (per lavorare su Spider Man, Nick Fury, Thor, Ghost Rider) così come non sono mancate uscite più divisive come Pro – con protagonista una super prostituta – o le marchette come le miniserie di The Authority, il gruppo di DC Comics. Spulciare la bibliografia di Ennis significa passare da crudi racconti crime all’horror estremo, dalle commedie sboccate fino agli one-shot targati Star Wars o I Simpson.
Paradossalmente il pubblico mainstream finisce per conoscerlo per la versione live action di The Boys, la sua personale interpretazione del revisionismo supereroistico uscita per Dynamite Entertainment fra il 2006 e il 2012. Ancora oggi, nonostante le decine di migliaia di pagine date alle stampe, la sua grafomania pare non avere pace, così lo troviamo a bordo di qualsiasi nuova etichetta editoriale lanciata negli ultimi anni sul mercato statunitense (AfterShock Comics, TKO Studios, AWA Studios e così via).
Garth Ennis è una presenza costante del mondo a fumetti da trent’anni a questa parte, dato per bollito un numero infinito di volte eppure sempre in grado di riguadagnarsi la cresta dell’onda. Senza mai distaccarsi una virgola da quella strana miscela di ingredienti che lo hanno reso famoso. Considerando la sua scarsa propensione a stare all’interno dei limiti del consentito, questo sembrerebbe il periodo storico meno adatto a uno scrittore che ha fatto della scorrettezza la sua bandiera. Eppure, sebbene il concetto generale di politicamente scorretto sia sempre più sinistramente vicino a una barzelletta da vecchio zio ubriaco al pranzo di Natale, Ennis riesce comunque ad arrivare al punto e a non perdere un grammo di cattiveria.
Forse perché, mentre una fetta di scrittori fin troppo ampia pare essere vittima di una rincorsa al contemporaneo che finisce per lasciare a terra un gran numero di cadaveri, Garth Ennis si è sempre fatto gli affari suoi. All’inizio della sua carriera negli Stati Uniti veniva spesso e volentieri inserito in un filone di autori fortemente influenzati da Quentin Tarantino unicamente per la sua esplicita passione per il cinema di genere, l’amore per violenza e turpiloquio e la sua abilità nello scrivere grandi linee di dialogo. In realtà, tra i due c’è un’enorme differenza, dovuta soprattutto all’indole inclassificabile di Garth Ennis. Se il regista è una macchina da cinema al limite della perfezione, capace di indagare gli aspetti più microscopici del linguaggio con occhio analitico ed enciclopedico, il fumettista preferisce ogni volta sfruttare il genere più puro per raccontare se stesso.

Nella seconda metà degli anni Novanta, mentre un numero esagerato di sceneggiatori sfruttava l’effetto volano di Pulp Fiction – che più o meno significava fraintendere l’immensa operazione di Tarantino e limitarsi a scrivere dialoghi infarciti di volgarità e one-liner stoppose, infilare citazioni senza nessuna giustificazione e cercare sempre e comunque la soluzione più grottesca – Ennis arrivava con la sua retorica da pub fatta al contempo di furia iconoclasta e tendenze pericolosamente reazionarie. Allora come oggi, nei suoi fumetti riesce a rendere ridicolo tutto quello che c’è di generalmente ritenuto importante e intoccabile, ma al contempo a celebrare valori che lui vede come indispensabili.
Tra le principali fonti di ispirazione di Ennis sarebbe impensabile non considerare ai primissimi posti un anarchico come Sam Peckinpah. Senza tirare per il momento in ballo il capolavoro Il mucchio selvaggio – pilone centrale su cui ruota tutto il suo Hitman e che analizzeremo più avanti – il titolo da tenere bene in testa è La croce di ferro (esplicitamente omaggiato dallo sceneggiatore in Le storie di guerra: Il tiger di Johann). Realizzare un film di guerra ambientato tra le fila dei Nazisti a soli trent’anni dalla conclusione della Seconda guerra mondiale era una provocazione impensabile, eppure “Bloody Sam” riuscì a utilizzala per raccontare la sua visione della guerra. Umanizzando soldati inviati a morire sul campo di battaglia e descrivendo come meschini e mediocri i loro ufficiali.
In un momento in cui esplodeva il post-moderno e tutto doveva per forza di cose essere ironico e disincantato, Ennis costruiva le sue trame sboccate e iper violente su temi a cui teneva profondamente. C’erano il cazzeggio autentico – che non significava replicare all’infinito discussioni su Madonna o sui massaggi ai piedi a una donna – come legame implicito tra due persone, l’amicizia virile, la profonda consapevolezza di dover fare quello che c’era da fare.
La dimostrazione più cristallina di questo aspetto rimane la conclusione di Hitman. Anche se nasceva come parodia proletaria del mondo dei supereroi – era ambientata nel quartiere operaio di Gotham City e popolata da piccoli criminali e sicari dotati di improbabili super poteri – la serie si concludeva in maniera amara e commovente. Mentre nella gran parte dei fumetti edgy scritti all’epoca i personaggi morivano come mosche, senza nessun vero apporto emotivo da parte del lettore, in quelle pagine era davvero dura arrivare alla fine senza sentirsi privati di qualcuno che ormai conoscevamo a tutto tondo e a cui ci si era affezionati.

Garth Ennis era visto come l’autore più contemporaneo in attività, ma in realtà la sua visione è sempre stata fuori tempo massimo. Pensiamo a Preacher, serie disegnata da Steve Dillon che viene sempre ricordata per lo spunto blasfemo, il linguaggio sopra le righe e gli eccessi di ogni genere. Tutto vero, senza dubbio. Eppure alla base di tutta l’operazione abbiamo una storia d’amore alla Harmony e una narrazione costruita attorno all’idea di responsabilità da portarsi sulle spalle a ogni costo.
In un vecchio articolo su Preacher scrivevamo: «Nel 1994 Beck conquistava il mondo cantando “sono un perdente, tesoro, quindi perché non mi uccidi?”, Kevin Smith descriveva una gioventù svogliata e menefreghista, una nuova generazione di punk all’acqua di rose scalava le classifiche facendoci credere tutti ribelli, le major del fumetto pensavano di attirare nuovi lettori mettendo in scena sfilate di eroi disturbati alla Marvel Edge o giocandosi la carta della sociologia facile con titoli come Generation X di Lodbell e Bachalo. Il tutto mentre Kurt Cobain cambiava per sempre la concezione di idolo adolescenziale sparandosi in bocca. In uno scenario simile, la comparsa di un personaggio come Jesse Custer deve aver avuto l’effetto di un fulmine a ciel sereno. Duro come un blocco di marmo, altrettanto integro e sempre pronto a risolvere le cose menando le mani è il classico tipo che non ha esitazioni sul fare la cosa giusta, costi quel che costi. Concreto, senza peli sulla lingua, incapace di fare giochetti con chi gli sta accanto – se non per difendere la sua bella – e con l’amicizia maschile come massimo ideale vita, il protagonista di Preacher è uno degli ultimi maschi alfa del fumetto statunitense».
Ennis si confermava ancora una volta il più iconoclasta di tutti, ma la sua vena da uomo di altri tempi, ancorato a un passato che delle frivolezze del presente non sa che farsene, era sempre più evidente. Dopotutto l’unico personaggio di tutta la serie a vivere la sua sessualità senza devianze era proprio Jesse Custer, personaggio scolpito nella roccia e con John Wayne come spirito guida.
Quando il ragazzo terribile del fumetto americano accettò di prendere il timone del Punisher, il personaggio stava attraversando uno dei suoi periodi più bui. Pur di dargli una rinfrescata e renderlo il più ammiccante possibile per le nuove generazioni, la Marvel lo aveva trasformato in una specie di vendicatore angelico al servizio dell’aldilà. Uno stravolgimento non proprio apprezzato dal pubblico e a cui la dirigenza della casa editrice decise di mettere una pezza commissionando un nuovo corso narrativo proprio al team creativo dietro Preacher.

La maniera in cui Ennis e Dillon ignorarono quanto fatto nelle storie immediatamente precedenti per scrivere il loro personaggio fu un manifesto di quanto sarebbe arrivato nei mesi successivi. I due semplicemente se ne fregarono, liquidarono la questione angelica in una didascalia e portarono avanti una narrazione fatta di violenza, personaggi surreali e intrecci improbabili. Ci si divertiva parecchio, ma era evidente che quanto il nordirlandese aveva in testa per Frank Castle richiedesse ben altro contenitore.
La testata fu quindi spostata nella linea Max, indirizzata a un pubblico adulto, all’interno della quale venne pubblicata anche la miniserie Punisher: Born. Cruda vicenda bellica ambientata durante la guerra del Vietnam, la storia esplora il lento sprofondare di Frank nella follia e il suo bisogno di una guerra perpetua da combattere a ogni costo. Per quanto bene inserita nella poetica dell’autore – che si sarebbe dedicato sempre più spesso a scrivere storie di guerra, tanto da guadagnarsi una testata apposita prima in DC e poi in Avatar Press – ho sempre trovato Born un furbo escamotage per sistemare il più grosso dei problemi della gestione di Ennis del personaggio.
Leggendo la run della linea Max del personaggio è infatti evidente come, in fondo in fondo, per Ennis il genocidio portato avanti da Frank Castle avesse un valore tutto sommato positivo. Da un momento all’altro gli improbabili super cattivi da fumetto edgy sparirono ed entrarono in scena autentici criminali, come trafficanti di esseri umani e signori della guerra. Tutti irrimediabilmente falciati dal vigilante di New York. L’unico modo per uscire da questo imbarazzante cul de sac era scrivere una storia dove lo si ri-raccontava come uno psicopatico, che a un tale risultato sarebbe arrivato con o senza guerra in Vietnam e famiglia sterminata dalla mafia alle spalle. E se il protagonista diventava all’improvviso un pazzo violento e non un disperato vendicatore come eravamo abituati a vederlo, ecco quindi che scrivere di giustizia sommaria e brutale finiva per risultare lecito.
Anche se è chiaro come quel bisogno di azioni radicali e dolorose fosse profondamente radicato nella poetica di Ennis. Nelle sue storie il dovere è la più alta forma di motivazione per le azioni di un uomo, anche se le conseguenze potrebbero essere devastanti. Tutta la carriera del nordirlandese potrebbe essere congelata ancora una volta in un film di Sam Peckinpah. Arriviamo quindi al capolavoro Il mucchio selvaggio e nella fattispecie al finale, quando Pike e i suoi compagni decidono di andare al massacro. Sanno che nessuno rimarrà in piedi, ma è la cosa giusta da fare. Una soluzione narrativa che il fumettista conosce bene e che in carriera ha replicato più volte – basti per esempio Pro – dandoci ancora una volta la conferma che la sua poetica ha i piedi ben piantati in un solido sistema di valori, che li si condivida o meno.

Questo è evidente anche nei suoi titoli più supereroistici. Sia nel già citato Pro che in The Boys il tema pare essere lo stesso: eliminare ogni forma di retorica dalla figura del supereroe per spostare l’attenzione sul reale. Quello che conta davvero non sono la droga, le derive sessuali o lo sproloquio, ma far passare al lettore la mediocrità di personaggi che amano passare il tempo a prendersi a cazzotti senza fare davvero qualcosa per cambiare la situazione. Siamo all’antitesi di quello che fece Warren Ellis in The Authority, dove i super assumevano per la prima volta un carattere globale, preferendo dare asilo a un’intera nazione invece che mettere in piedi l’ennesima baruffa nel centro di New York. Per Ennis invece non occorrono eroi, ma gente che fa il lavoro sporco. Costi quel che costi.
Ancora una volta la furia iconoclasta è lo schermo dietro cui nascondere una morale scolpita nella roccia, concreta come un blocco di marmo e priva di ogni forma di retorica. Garth Ennis è il classico tipo che prende in giro ogni forma di manifestazione contro la guerra a base di gessetti colorati e cartelloni realizzati da bambini, preferendole qualche bombardamento ben mirato. Da notare come la serie The Boys si concluda con la sostanziale perdita di controllo da parte di Butcher.
Se nei primi numeri della serie il personaggio era descritto come il duro ex militare con tanto di dolorosa backstory, il leader carismatico di un gruppo di alienati, quello disposto a tutto pur di liberare il mondo dai super, alla fine la sua crociata sfocia nel patologico, lasciando spazio all’unico vero bravo ragazzo di tutta la serie, ovvero Piccolo Hughie. L’appassionato di teorie del complotto scoprirà presto come in realtà tutto sia estremamente più semplice e crudele di quanto credeva: i soldi comandano il mondo, il resto non conta nulla.
Forse il vero motivo per cui Ennis rimane uno dei pochissimi scrittori ancora nella posizione di spingere sulla scorrettezza senza sembrare fuori tempo massimo è proprio per la profonda moralità che riesce a infilare in ogni suo lavoro. Venduto per anni come incorreggibile iconoclasta, risulta evidente come in realtà lui sia interessato solo fare terra bruciata delle scempiaggini che ci riempiono la vita ogni giorno. Tipo la retorica, il buon senso o la mediocrità come voce da mettere nel curriculum.

In Crossed, sua personale revisione del tema zombi, non c’è spazio per la retorica sclaviana de «i veri mostri siamo noi». Nella serie i veri mostri sono i mostri, punto e basta. E noi dobbiamo comportarci orribilmente se vogliamo sopravvivere. Per il nordirlandese conta solo il dovere di comportarsi come si è chiamati a fare, costi quel che costi. Nel suo mondo non esistono cattivi diventati tali per chissà quale sopruso, ma autentici bastardi da abbattere a ogni costo. La sua è una mentalità spiccia, reazionaria, dritta come una strada in mezzo al deserto. In ogni sua storia Garth Ennis ci ricorda che la cattiveria pura esiste e si deve impiegare ogni mezzo possibile per estirparla.
A questa sua profonda rigidità morale uniamo poi una capacità di scrittura che in trent’anni di carriera non ha perso un’unghia di potenza. Le sceneggiature a cui ci ha abituato non avranno chissà quale slancio epico da gigantismo USA, ma riescono sempre e comunque ad avere la forza di un treno merci lanciato a piena velocità e che, innestato su rotaie ben rodate, procede senza il minimo tentennamento, guidato da una capacità di scrivere dialoghi con ben pochi pari e una progettazione dei plot sempre quadrata.
Come i suoi personaggi Garth Ennis arriva sempre al punto, incurante delle conseguenze. E se gli altri provano a stargli dietro pensando che basti inserire qualche riferimento blasfemo e due parolacce, be’… che si fottano.
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