
Howard Chaykin ha una tazza che gli ha regalato il disegnatore Joe Jusko con scritto sopra «I am a ray of fucking sunshine» (ovvero «sono un cazzo di raggio di sole»). Il fumettista americano, classe 1950, è infatti noto per il suo stile (e il suo carattere) brusco e incapace di compromessi. Ha lavorato per grandi editori come DC e Marvel Comics (fu lui a disegnare, per esempio, la copertina dello storico numero 1 di Star Wars), ma ha anche segnato gli anni Ottanta con opere personali come American Flagg! (il fumetto che «predisse tutto») e Black Kiss, fumetto cult che consacrò Chaykin tra i grandi autori del periodo.
saldaPress, dopo aver pubblicato diverse sue opere – tra cui proprio la prima raccolta integrale di Black Kiss al mondo – ha presentato quest’anno al pubblico italiano una delle più recenti serie di Howard Chaykin, The Divided State of Hysteria, opera grottesca in cui, per rintracciare le cellule terroristiche che hanno scatenato un attacco a New York, il Governo degli Stati Uniti decide di affidarsi a una squadra singolare formata da una donna trans, un nazionalista di colore, un contabile truffatore e uno spietato serial killer.
Vista anche la sua partecipazione all’imminente Lucca Comics & Games 2023 (1 – 5 novembre) ospite di saldaPress, abbiamo colto l’occasione per realizzare un’intervista con Howard Chaykin, che con le sue risposte franche si è dimostrato davvero un cazzo di raggio di sole.
Come ti è venuta in mente l’idea The Divided States of Hysteria?
Non ho mai capito perché si dica “venuta in mente” parlando di una storia. Non vengo colpito da un’idea. È piuttosto un processo di sviluppo e continuo aggiustamento di un concetto.
Per quello che mi ricordo, il soggetto nasce da due considerazioni che avevo fatto all’epoca. La prima era che Hilary Clinton sarebbe stata la prima donna a essere eletta presidente degli Stati Uniti e la seconda era che quell’elezione avrebbe provocato moti e insurrezioni per le strade. Tutto il resto – i personaggi, l’azione, la trama – è scaturito da questi spunti, erronei nello specifico ma con una buona dose di verità nel quadro generale.
Sottolineo che stiamo parlando di fatti accaduti sei anni fa, quando l’identitarismo che ha avvelenato la cultura in ogni punto della linea che corre tra gli estremi stava diventando per la prima volta una teoria unificante di ricatto emotivo per l’esibizione morale di qualsiasi fumetto politico. Questa tendenza ha plasmato ogni mia scelta narrativa e purtroppo mi ha lasciato cieco alla stessa esibizione morale che poi mi ha colpito come un randello culturale dopo l’uscita del primo numero.
In The Divided States of Hysteria la pagina è rumorosa, oltre ai disegni ci sono molte scritte ed effetti sonori. Sembra di essere tornati ad American Flagg!, dove la cacofonia visiva era una cifra stilistica importante.
Quando consegnai le sceneggiature e le tavole a Ken Bruzenak, la persona responsabile di tutti quegli effetti, non avrei mai previsto quell’assalto visivo, la traslitterazione di una carneficina uditiva sotto forma di testo, che si sarebbe inventato Ken. Sia chiaro, ne fui entusiasta, è stato un vero genio, cazzo.
Ma non ho mai pensato ad American Flagg! mentre scrivevo e disegnavo The Divided States of Hysteria. Flagg! è/era una commedia satirica con elementi burlesque. Hysteria è quanto di più vicino a una narrazione horror mi sentissi in grado di fare – una narrazione che, per me, è molto più vicina alla realtà sociale, al netto delle metafore e dei significati secondari.
Quindi l’autore che ha scritto e disegnato The Divided States of Hysteria non ha nulla in comune con quello di American Flagg?
Quando realizzai Flagg! avevo appena trent’anni e mi stavo abituando all’idea di avere qualcosa da dire come scrittore, figurarsi come fumettista, o di poter contribuire con qualcosa di valore nel mondo dei fumetti. Ero anche strafatto la gran parte dei miei giorni e un forte bevitore, quasi sempre sbronzo.
Ho ideato, scritto e disegnato The Divided States of Hysteria all’età di 66 anni, dopo trent’anni di lavoro costante e quindi di costante pratica nell’arte della scrittura e del disegno. Ero sicuro delle mie abilità e della mia capacità di mettere su carta quello che mi ero immaginato.
E, per rendere chiara la natura della pratica costante di questi trent’anni, a differenza della maggior parte dei miei colleghi, non avendo mai lavorato a un super franchise che mi permettesse di costruire un pubblico di lettori fedeli, non avevo allori su cui dormire, quindi ho passato quegli anni reinventando i miei strumenti e me stesso, per assecondare le richieste creative sempre cangianti che avvenivano nella mia carriera.

Su American Flagg! lavorasti insieme alla colorista Lynn Varley, che per quanto mi riguarda è stata una delle figure di rottura nell’ambito della colorazione dei fumetti, grazie anche ad opere come Il ritorno del Cavaliere Oscuro, Ronin. Che esperienza fu lavorare con lei?
Tanto per cominciare, non condivido il tuo eccessivo entusiasmo per Varley, che mi sa tanto di nostalgia o forse di esagerato nerdismo per il suo lavoro sulla roba di Batman, ignorando l’esecuzione della forma attraverso la trama del contenuto.
«Di rottura»…? Ma dai. Non l’ho mai considerata nient’altro che una colorista nella media in un’epoca in cui il colore era una rottura che più rottura non si poteva, e la riproduzione su carta in quei giorni bui era per lo più una merda. Consegnò un primo numero e poi lasciò la serie senza dare spiegazioni, e io fui grato che la mia moglie di allora, Leslie Zahler, sia subentrata come colorista, facendo un ottimo lavoro. Inutile dire che non ho mai più pensato di lavorare con Varley.
Black Kiss fu figlio di un moto di ribellione nei confronti di Marvel e DC Comics, che all’epoca della realizzazione della storia stavano creando un nuovo sistema di codificazione dei fumetti che rimpiazzasse il Comics Code. Secondo te nel mainstream adesso c’è più o meno libertà rispetto a quella in cui nacque Black Kiss?
A essere precisi, non ci fu alcun tentativo di creare un nuovo Comics Code. Sembra un puntiglio, ma si trattò in realtà del tentativo di imporre una griglia di visti simili a quella utilizzata dal sistema cinematografico.
Il fumetto americano, e i fanatici del fumetto americano, provano un certo disagio nei confronti del materiale che disegnavo in Black Kiss, perché preferivano le immagini patinate piuttosto che qualcosa di anche vagamente implicito a livello sessuale, figurarsi dei contenuti sessualmente espliciti.
Per certi versi, questa tendenza si è amplificata, in una cultura fumettistica che scambia la castità per virtù e il perbenismo schizzinoso per acutezza morale. Ovviamente io dico fanculo a queste baggianate.

Di recente è uscito un nuovo episodio di Hey Kids! Comics! (in uscita per saldaPress con il titolo Sono solo fumetti!), una serie ambientata nell’industria del fumetto, come accaduto in Un brutto weekend di Brubaker/Phillips e Public Domain di Chip Zdarsky. Il mondo dell’industria fumettistica è così divertente da raccontare?
Tanto per cominciare, Hey Kids! Comics! è uscito prima delle due opere che citi. Se ti sembro puntiglioso, è un problema tuo. Ed è anche un problema il fatto che ho passato gran parte della mia carriera a fare molte cose per primo, senza che il pubblico se ne accorgesse e che, anzi, le ritrovasse in altri lavori più commerciali pensando che quelle fossero delle novità. Mi sento in diritto di riconoscermi certi meriti.
Ho trascorso più di mezzo secolo nell’industria del fumetto, per non parlare dei quindici anni precedenti alla professione, passati da lettore fanatico. Non mi interessano i fumetti mainstream, che sono tutti incentrati su supereroi, mostri, fantascienza, fantasy e altri contenuti fatti per i nerd.
Mi sono sempre considerato un ponte tra la mia generazione e quella precedente. Ho passato decenni ad ascoltare vecchi uomini, e qualche vecchia donna, e le loro storie di amarezza, spesso amarezza divertente. Hey Kids! Comics! mi sembrava l’ovvia conseguenza di questi ricordi.
Ovviamente negli Stati Uniti non ha alcun riscontro commerciale perché non risponde ad alcun bisogno infantile di un pubblico infantilizzato. Forse se tutti i personaggi avessero superpoteri… o cavalcassero un drago…
Dalla tua prospettiva, la cultura nerd che hai imparato a conoscere negli anni Settanta e Ottanta è cambiata?
Nei decenni, ho perso qualsiasi interesse nei confronti di un pubblico che vuole essere accontentato. Rimango stupefatto e rattristrato da quello che sembra essere un appetito sempre più vasto per immondizia adolescenziale priva di profondità e sfumature. E il fatto che troppi dei miei colleghi si divertano con questa robaccia mi lascia senza speranze. Gli standard che il pubblico di questa monnezza utilizza per giudicare ciò che legge o vede non hanno alcuna correlazione con il cosiddetto pensiero critico. So che questa opinione non mi procurerà nuovi amici, ma mi sta bene.
Hai citato Marc Guggenheim e Mark Waid come due tra i pochi sceneggiatori con cui ti trovi bene, perché capiscono davvero il loro lavoro. Cosa ti infastidisce degli altri?
Chiariamo: ho parlato bene di Marc e Mark perché, in modi diversi, hanno una profonda e chiara comprensione dello spazio, dei limiti e delle implicazioni della pagina a fumetti. Negli Stati Uniti, lo scrittore è diventato l’alfa del processo creativo, per un numero di ragioni svariate che non vale la pena spiegare. Questo ha portato a un sistema di valori che considera lo scrittore come una risorsa preziosa e il disegnatore come forza lavoro – un’idea senza senso ma che il pubblico, che non ha alcuna idea di come si scrivano i fumetti, ha accettato come un dato di fatto.

So che in passato hai tenuto un corso per alcuni disegnatori di Marvel Comics in cui insegnavi loro come non essere dei “deadline fuckers”, persone che bucavano le consegne. Qual è l’insegnamento più importante per non essere fra questi?
Il primo di quei tre giorni di seminario lo passo a distruggere ogni traccia di hobbysmo rimasto nei disegnatori e a fare capire quanto sia vitale la gestione del tempo. Ovviamente, la gran parte dei disegnatori sono convinti di essere dei ribelli che combattono contro il sistema. È una stupidità aberrante. Il momento in cui accetti un pagamento da una azienda sei un ingranaggio in quella macchina e svolgi un servizio. Se vuoi ribellarti, ribellati. Fallo per conto tuo. Ma non ti aspettare che il cliente sovvenzioni le tue deliranti fantasie adolescenziali.
Sei stato un disegnatore anche erotico, in opere come Black Kiss. L’erotismo si disegna come tutto il resto?
Io ho sempre approcciato l’erotismo come un qualsiasi altro problema grafico. A essere onesti, non l’ho mai considerato un problema a sé. Ma forse adesso lo farò.
E qual è il problema grafico più difficile da risolvere?
Gli animali, di ogni tipo. Scarpe col tacco. Piedi nudi. La musica continua e cambia ritmo ogni giorno.
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