
La prima volta che incontriamo il Willy Wonka di Gene Wilder ci appare claudicante, fasciato nell’iconico cappotto viola, che arranca verso il cancello della sua grande fabbrica caricando tutto il peso sul bastone da passeggio. Appena arrivato all’ingresso, incastra con un abile trucco la canna tra un sampietrino e l’altro, così che sembri in grado di stare in piedi da sola. Poi finge di svenire, risolve la caduta in un agile piroetta e si presenta ai suoi ospiti in forma smagliante.
In meno di un minuto, e senza nessuna parola, abbiamo una delle migliori presentazioni di un personaggio di sempre. Ora sappiamo che quel buffo signore è uno di cui non ci si può fidare, abilissimo nell’alterare la realtà, sempre nascosto dietro una cortina di fumo colorato e stordente. A conti fatti, il cioccolataio di Wilder è forse il trickster per eccellenza. Ambiguo, imprevedibile, probabilmente pericoloso. Senza dubbio affascinante.
Come scrive Valerio Mattioli nel suo Ex Machina. Storia musicale della nostra estinzione 1992 → ∞, «tanto nel libro quanto nel film, è difficile stabilire a quale spettro morale appartenga la sua figura: nonostante fabbrichi cioccolato e sia il beniamino dei bambini di mezzo mondo, i suoi comportamenti sono tutto tranne che candidi; la meravigliosa fabbrica in cui invita i suoi giovani ospiti è essa stessa un girone infernale di trucchi, tranelli e persino scherzi fatali. Dietro l’aspetto di bonario, estroso maestro pasticcere dai modi eccentrici, si cela un tentatore dalla natura intrinsecamente demoniaca. È un personaggio in tutto e per tutto liminale, uno di quei pochi che possono permettersi di attraversare indefessamente la soglia che separa il bene dal male, la realtà dall’artificio».
Il trickster, spesso reso in italiano come “briccone”, è la figura più enigmatica e sfuggente tra le dodici definite da Carl Gustav Jung nella sua descrizione dei modelli di comportamento a cui l’essere umano fa riferimento a livello inconscio. Come scrive lo studioso Lewis Hyde in Il briccone fa il mondo. Malizia, mito e arte, «ogni comunità ha i suoi confini, il suo senso del fuori e del dentro, e l’impostore (il “trickster”) è sempre lì alle porte della città o alle porte della vita, facendo in modo che ci sia sempre scambio. Egli presiede anche i confini attraverso cui i gruppi articolano la loro vita sociale. Distinguiamo costantemente giusto e sbagliato, sacro e profano, pulito e sporco, maschio e femmina, giovane e vecchio, vivente e morto, e ogni volta l’impostore varcherà la linea e confonderà le distinzioni. Egli incorpora dunque l’ambiguità e l’ambivalenza, la doppiezza e la duplicità, la contraddizione e il paradosso».
Insomma il briccone divino è uno a cui piace confondere le idee perché nello scompiglio ci sguazza beato. Ama il caos, i limiti e i confini che si sgretolano come castelli di sabbia. È talmente sopra le righe da sfuggire a ogni definizione chiara e definita. Il trickster è l’incarnazione perfetta del camp, categoria estetica in cui, guarda caso, il Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato di Mel Stuart ricadono alla perfezione.
Ora sarebbe necessaria una piccola parentesi per chiarire questa particolare deriva di quello che generalmente verrebbe definito semplicemente come “cattivo gusto”. Peccato però che cercare di capire di cosa si sta parlando quando si parla di camp sia impossibile per definizione. «Il camp si offre come modalità sovversiva per eccellenza, oltraggiando e scardinando gli assi tradizionali» ci illumina Fabio Cleto dalle pagine del suo splendido Intrigo internazionale. Pensate a una sorta di codice segreto destinato solo agli iniziati, atto prima di tutto a destabilizzare.
Lo possiamo inscrivere in maniera iper semplicistica alla massima «è bello perché è orribile», ma interiorizzandola a tal punto da non riuscire più a capire se si faccia sul serio o sia tutto parte di un raffinatissimo gioco intellettuale a cui non è detto che si sia stati invitati. A essere celebrato è tutto ciò che sta nel mezzo, tra uomo e donna, tra bello e brutto, tra originale e derivativo, tra intenzionale e involontario.
Impossibile non pensare alla mitologica scena del Batusi negli episodi Processo a Batman e Profumo di morte nella serie tv di Batman interpretata da Adam West. Ogni singolo aspetto di quella serie era impregnato in maniera folle di sensibilità camp, ma con le scene di ballo appena citate – soprattutto nel secondo di quei due episodi – si raggiungevano vette folli, destinate a rimanere nella storia. Si trattava del frutto di scelte ragionate o solo il risultato casuale e miracolato del lavoro di produttori convinti di realizzare un semplice telefilm per ragazzi?
Quegli sfondi così poveri, i trucchi con la telecamera inclinata di novanta gradi, gli arci-cattivi dai costumi sgargianti, le battute di Robin, le musiche, l’omosessualità latente (e neppure troppo). Come puoi definire semplicemente brutto un gioiello simile? La somma di tutti questi elementi dava forma a un pasticciaccio gioioso e frizzante, irripetibile nel suo ambiguo candore. E infatti il lungometraggio tratto dalla serie si apriva con la schermata «Vorremmo esprimere la nostra gratitudine ai nemici del crimine di tutto il mondo per il loro esempio e per l’inspirazione. A loro e agli amanti dell’avventura, agli amanti del puro escapismo, agli amanti dell’intrattenimento più sincero, del ridicolo e del bizzarro. Amanti del divertimento di tutto il mondo, questo film è dedicato a voi. E se ci siamo dimenticati qualche considerevole gruppo di amanti di qualcosa, ce ne scusiamo».
Il divertimento prima di tutto, insomma, anche se forse sotto quella coltre di esagerazioni fuori luogo in realtà si stava pensando a qualcosa di più importante. Magari a un ribaltamento dell’ordine precostituito delle cose. Una spinta al cambiamento portata avanti giocando sul filo dello scherzo e della provocazione più paradossale. Tutti strumenti molto pericolosi se messi in mano al nostro briccone. Soprattutto se si sposta il discorso su gender e sessualità, visto che per lui si trattano di aspetti ambigui o polimorfi per definizione. Il trickster è sbilenco, a cavallo tra troppi estremi, nebuloso. Il termine inglese queer (insolito, storto) lo definisce benissimo, soprattutto se lo contrappone al ben più banale straight (retto).
Ora che lo abbiamo inquadrato, pensate a che personaggi memorabili ci ha regalato questo archetipo. Solo rimanendo nella pop culture moderna penso al Doctor Who, al Joker, a Deadpool, a Jack Sparrow, a Bugs Bunny, a Joseph Joestar, a Nimona, a Jareth di Labirynth. Tutti memorabili, capaci di incastrarsi istantaneamente nell’immaginario collettivo. Talmente sopra le righe da sfuggire a ogni forma di incasellamento coatto. Poco importa quanto sessualmente possano essere ambigui. Sono talmente carismatici che la cosa passa subito in secondo piano. Sono rockstar e delle nostre misere barriere mentali non sanno che farsene.
Ora invece pensate a come viene gestita la questione LGBTQIA+ all’interno dell’intrattenimento mainstream. Ogni forma di ambiguità, divertimento, voglia di infrangere i limiti è stata eliminata per una versione rassicurante dell’alterità. Siamo di fronte a una naturalizzazione così artefatta da perdere ogni forma di carica eversiva. Dopo qualche anno di questo trattamento possiamo concludere che l’inclusività coatta ha fatto tanti danni. Ha dato spazio a bigotti e ignoranti di lamentarsi e di urlare al complotto gender, ha portato alla noia tutti quelli che alla questione non erano neppure interessati, ma soprattutto alla lunga finirà per privarci del trickster. La paura di offendere chiunque ci ha spinto in un limbo a prova di idiota, dove ogni rischio è stato chirurgicamente eliminato.
Appena entra in ballo la questione queer – che a questo punto non ha neppure più senso chiamare così, visto che stanno facendo di tutto per raddrizzarla – tutto diventa ipercontrollato. In Elemental della Pixar si vede una giovane coppia chiedere un consulto amoroso alla madre della protagonista. Si tratta di una coppia gay ma, tanto per rincarare la dose e non dimenticarsi nessuno, uno dei due è sulla sedia a rotelle. Sono carini e innamorati, naturalmente. Non potrebbe essere altrimenti. Si tratta di un’apparizione di pochi istanti, ma è così perfetta nella sua totale assenza di naturalità da fare la fine della pubblicità progresso. Una noia terrificante.
Prendiamo invece cosa succedeva nel quinto episodio della seconda stagione della serie Modern Family (siamo nel 2010, non un secolo fa). Nella puntata vedevamo la coppia formata da Mitchell e Cameron tentare di iscrivere la loro figlia a una prestigiosa scuola privata. Presentandosi come coppia gay con figlioletta asiatica al seguito avevano la certezza di essere selezionati, in quanto minoranza spendibile in società. Finivano però per essere battuti da una coppia di donne, di cui una indiana e sulla sedia a rotelle, con un bambino africano in adozione. Cameron si giocava il tutto per tutto e fingeva di essere nativo americano.
È ancora oggi una gag perfetta, sagace ed estremamente feroce. Prende l’inclusività a tutti i costi e la riduce a brandelli, come il gioco ipocrita che non porta da nessuna parte quale è. I sabotatori non sono però due maschi etero cis, ma la quota gay della serie tv. Sono i vandali che sfasciano la bella facciata della pubblicità progresso, e lo fanno colpendo duro dall’altra parte della barricata. Fanno la figura dei meschini un poco idioti, ma ne escono comunque da vincitori. Ribaltano la situazione, scardinano le nostre aspettative. Arrivano al punto senza farci venire il latte alle ginocchia.
Questo significa che ogni singolo personaggio LGBTQIA+ deve essere ritratto come un agente del caos? Assolutamente no, significherebbe tornare a trattare la questione in maniera quantomeno macchiettistica. Il fatto che prima si sia utilizzato ancora il termine alterità significa che il percorso di naturalizzazione è ancora lungo e soprattutto necessario. Questo però non vuol dire che da qui ai prossimi vent’anni dobbiamo sorbirci solo ritratti stucchevoli e zuccherini, privi di spigoli o superfici abrasive. Un’autentica maturità narrativa dovrebbe finire per contemplare ogni aspetto della realtà, anche quelli che non riusciamo a controllare completamente.
Occorrono più sfaccettature, da quelle più controllate e rassicuranti – legittime e indispensabili – a quelle sottilmente sgradevoli e ambigue. Continuare a proporre unicamente una rappresentazione della realtà artefatta ed edulcorata non porterà a nessun risultato utile. Abbiamo bisogno di spazi ambigui in cui muoverci, del senso di pericolo di territori in cui non sappiamo come muoverci. Ignorare cosa ci possano riservare gli eventi è il regalo più prezioso che il trickster ci possa fare, e non possiamo sprecarlo nella speranza di piacere per forza a tutti.
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