Jim Lee, l’ultima superstar del disegno

Jim Lee è tra gli ospiti internazionali di Lucca Comics & Games 2023 (1 – 5 novembre). Sarà presente al festival in collaborazione con Panini Comics.

jim lee dc comics foto

Ti chiami Jim Lee e sei stato il re del mondo. Trent’anni fa hai disegnato il fumetto più venduto di sempre, poi hai fondato insieme a dei colleghi Image Comics, una casa editrice nata per sfuggire al duopolio dei due colossi Marvel e DC Comics, dopodiché sei diventato dirigente di uno di quei due colossi. Sei stato il ragazzo d’oro, il più educato e di conseguenza quello che guardavano dall’alto in basso, ma sei stato anche il più furbo, consapevole dei tuoi limiti e capace di lavorarci attorno. Nel frattempo, il tuo stile ha rivoluzionato il fumetto supereroistico tra gli anni Ottanta e Novanta, segnando un decennio, facciamo anche due, e generando una schiera sterminata di emuli. Non ti è bastato e ora fai lo streamer come la gente che ha un terzo dei tuoi anni. Ti chiami Jim Lee e tutto questo è successo perché hai, da sempre, la testa cablata per rimanere contemporaneo.

Tutto ciò che è Jim Lee lo si può trovare nella sua infanzia: disegnatore compulsivo fin da piccolo, iniziò a leggere fumetti spronato dai genitori, che vedevano in quelle letture uno strumento didattico per imparare l’inglese. La famiglia Lee era infatti nativa della Corea del Sud e nel 1969 era emigrata in Ohio (si sarebbe poi trasferita a St. Louis, nel Missouri) affinché il padre di Jim, medico dell’esercito, potesse lavorare in America, all’epoca particolarmente bisognosa di medici.

Dato che Jim non sapeva una parola d’inglese, il primo giorno di scuola gli insegnanti lo rimandarono a casa, ma solo dopo avergli scattato una foto di gruppo con gli alunni di altri paesi che sarebbe poi apparsa sul quotidiano locale, a corredo di un articolo sugli emigrati a St. Louis. La comunità coreana della città era piccola, religiosa, accogliente e cocciuta, ma la forza gravitazionale della cultura americana di più. E Jim voleva diventare americano in fretta, per non dover più comparire in foto di gruppo con qualche altra minoranza etnica.

Perciò, in maniera abbastanza istintiva, abbracciò senza ritegno il folclore a stelle e strisce: c’è forse qualcosa di più americano di scegliersi come nome “Jim”, il diminutivo di “James”, per il quale Lee optò quando ottenne la cittadinanza statunitense a 12 anni? (Sì, la motivazione per cui lo scelse: era il nome del capitano Kirk di Star Trek). I fumetti erano parte di questo folclore, utili per imparare un po’ la lingua e per fuggire da una quotidianità fatta di scuole private e abitudini piccolo borghesi.

Le letture di Jim iniziarono con Tarzan 236, albo scritto da Joe Kubert e disegnato da Francisco Reyes. Col senno di poi sembra quasi di poter tracciare una linea che unisce la copertina di quell’albo, disegnata da Kubert e ritraente Tarzan su un ramo in mezzo a un torrente, attaccato da un leopardo, a tutto ciò per cui diventerà famoso Lee: il tratteggio scalmanato, la ricerca dell’inquadratura a effetto e perfino il modo in cui Kubert simula l’acqua che nasconde il piede di Tarzan, risolto con qualche linea sbrigativa e bidimensionale.

A Tarzan si aggiunsero i fumetti di Superman, Batman, Justice League e X-Men e i loro autori: John Byrne, George Perez, Barry Windsor-Smith e poi ancora Arthur Adams, Mike Mignola, Frank Miller. «Mio padre», racconterà Lee in un’intervista a Wizard, «ci portava con lui ai convegni medici in grandi città come Houston, Los Angeles e Denver. Appena entravamo in un hotel, io tiravo fuori le Pagine Gialle, cercavo una fumetteria e cominciavo a rompere le scatole ai miei finché non mi ci portavano. Durante i viaggi leggevo i fumetti nel retro della station wagon, disegnando tutto il tempo. Ho passato molte estati così».

Jim era un ragazzo a modo, che diceva le preghiere e si impegnava nello studio e in tutte le attività extrascolastiche, dallo sport (praticava atletica leggera, era mediano della squadra di football e capitano di quella di wrestling) al giornalino scolastico. Grazie al suo curriculum scolastico nell’autunno del 1982 entrò a Princeton, una delle università più esclusive del paese e parte del circolo della Ivy League (quelle, per capirci, che hanno fatto della riga in parte e delle magliette polo la propria cifra iconografica). Studiò psicologia con l’obiettivo poi di andare in una scuola medica. Anche se aveva sempre continuato a disegnare nel suo tempo libero, Lee non aveva mai preso in considerazione l’idea di diventare un fumettista, se non a 12 anni, quando qualsiasi carriera, dall’astronauta all’impiegato, ha la stessa probabilità di concretizzarsi.

Poi però, all’ultimo anno di università, frequentò un corso d’arte tenuto da un’assistente di Frank Stella. Fu il corso che gli piacque di più e quello che gli piantò il seme di trovare un lavoro con il disegno. Qualsiasi cosa sarebbe andata bene, ma fare l’artista come Stella, o anche solo costruirsi una carriera come disegnatore commerciale, sembrava fuori dalla sua portata. Non che il fumettista fosse una professione tanto più facile, ma Jim non sapeva quale fosse l’iter per diventarlo e, avendoli sempre letti, pensava che i fumetti sarebbero potuti essere una strada più semplice. Ora, comunque, il problema più grande era un altro: dirlo a mamma e papà. «Sono stato un ragazzo che si è sempre comportato bene, ma che era parecchio testardo riguardo alla carriera che avrebbe voluto intraprendere, le persone che frequentava, le lingue che parlava» ha detto Jim Lee.

Fra lui e i genitori passava qualche decennio anagrafico, ma nei fatti i tre erano molto più distanti: i signori Lee si erano sposati con un matrimonio combinato, avevano intrapreso carriere scelte dalle rispettive famiglie, erano emigrati alla ricerca di un riscatto sociale, pur restando radicati alle loro tradizioni e permettendo poi al resto dei parenti di giungere in America. Erano stati, insomma, dei «buoni coreani». Le indipendenze di Jim – amorose e aspirazionali, tutte normali, tollerate e persino pudiche per gli standard occidentali – erano uno sputo in faccia ai loro valori.

Conseguita la laurea, tornò a casa e comunicò ai suoi di volersi prendere un anno sabbatico per tentare la carriera nel mondo dei fumetti. Fu, a detta di Jim Lee, «una litigata con tutti i crismi, verbalmente sanguinaria, in cui diedi loro un ultimatum: se non mi appoggiate nella mia scelta, me ne vado di casa». E se ne andò davvero, solo che nei sobborghi di St. Louis, se anche ci fosse stato un posto dove stare, lui di certo non lo conosceva. Fece un centinaio di metri finché il padre andò a riprenderlo. «Si arresero, capirono quanto era importante e mi lasciarono fare.»

Per tranquillizzare i suoi, si diede un anno di tempo e pagò una tassa di 25 dollari all’università affinché mantenessero validi i test d’ammissione che avevo superato per entrare alla scuola di medicina. Se non ce l’avesse fatta, sarebbe potuto tornare alla carriera che i genitori avevano scelto per lui. Era una ribellione, ma pur sempre una ribellione al gusto di Ivy League.

Nel concreto, non sapeva cosa fare davvero per esaudire il suo sogno. Essendoci ben pochi manuali in giro (sia di disegno che di avviamento alla professione) fece l’unica cosa che gli sembrava richiesta dall’incarico: disegnò. Ogni mattina, senza neanche vestirsi, rotolava fuori dal letto e si metteva sulla scrivania a sfornare tavole, come se lo facesse di mestiere. Per dieci ore, tutti i giorni che Dio mandava in terra, alternando il disegno al tirocinio negli ospedali per l’eventuale entrata alla scuola di medicina. Lee imparò a disegnare con la forza bruta, per quantità.

«Sembrerà una cosa banale, ma pochissime persone sono disposte a stare al tavolo da disegno per così tante ore, ogni giorno» avrebbe poi raccontato. «È un impegno che mette a dura prova il corpo, ma è l’unico che dà dei risultati. A volte, quando valuto degli aspiranti disegnatori, chiedo loro quanto tempo dedicano al disegno e certe persone mi rispondono “ah, la sera, dopo cena”. Non è così che si diventa professionisti.»

Chiedendo in giro ai frequentatori della fumetteria cittadina e leggendo interviste nelle riviste riuscì a mettere insieme un piano d’azione: nell’estate del 1986 preparò dei portfolio da spedire a qualunque casa editrice di fumetti del Paese. Nei portfolio c’era The Wild Boys, una storia su un’agenzia di spie scritta da un suo amico d’infanzia, Brandon Choi, che all’epoca aveva ormai messo da parte l’ambizione creativa per studiare giurisprudenza.

Ricevette solo lettere di rifiuto. Erano comunque risposte utili, perché sottolineavano le lacune del suo stile («ricandidati quando avrai imparato a disegnare le mani»). Una in particolare gli fu di sprono, quella di Dick Giordano, editor per DC Comics, nella cui risposta prestampata aveva aggiunto una nota a penna: «C’è della roba interessante, continua». La svolta avvenne poco dopo, quando Rick Burchett, disegnatore che viveva a St. Louis, gli disse che «spedire quelle prove non ti porterà lontano, ti devi presentare di persona alle fiere». Grazie all’ospitalità di alcuni ex-compagni del college che lavoravano a Wall Street e che lo fecero dormire sul loro divano, andò alla fiera di New York e mostrò i suoi lavori agli editor delle case editrici presenti.

jim lee alpha flight
Particolare da “Alpha Flight” 51 del 1986, il primo fumetto disegnato da Jim Lee e pubblicato da Marvel Comic

Malibu Comics e Marvel Comics, nella persona dello storico supervisore Archie Goodwin, gli offrirono un lavoro. Quando lo disse in famiglia, sua madre lo prese per le mani e iniziarono a ballare per la cucina. Jim scelse, ovviamente, la Marvel, per cui realizzò una storia di Alpha Flight, pubblicata nell’autunno del 1986. Si trattava di una serie creata da John Byrne in cui venivano raccontate le vicende dell’omonimo gruppo di supereroi canadesi. Non una grande squadra, ma il talento e la popolarità di Byrne avevano aiutato a raccogliere lettori. Tuttavia, dopo l’abbandono dell’autore, Alpha Flight era diventata una seriaccia di seconda fascia, affidata a mestieranti e, appunto, esordienti. Ma era comunque un punto di partenza.

L’impegno che ci aveva messo e l’esito positivo – seppur non regolare – dei suoi sforzi convinsero i genitori che il figlio era sulla giusta strada e non ebbero più nulla da ridire. Anzi, diventarono i suoi fan più accaniti, presenziando a tutte le prime apparizioni di Jim alla fiere o nelle fumetterie («così sembra che ci sia più gente che ti segue»).

Dopo quel numero di Alpha Flight, la carriera di Jim prese velocità. L’editor Carl Potts gli affidò altri numeri di Alpha Flight, su cui imparò lo stile di casa Marvel, fatto di campi medi e composizioni chiarissime, come da regola tassativa dell’editor-in-chief Jim Shooter. In quei numeri, spalmati su quasi un anno di lavoro, si vede ogni tanto un po’ di tratteggio, una vignetta, una posa, degli sprazzi di personalità che fanno capire come Jim Lee stesse trovando, pezzo dopo pezzo, il proprio stile. Di quel periodo dirà che veniva «pagato per imparare».

jim lee punisher war journal
Una tavola di Jim Lee da “Punisher War Journal”

Sempre Carl Potts, colpito dalla professionalità di Lee, decise di chiamarlo per una nuova serie, Punisher War Journal. Questa volta, però, Potts avrebbe realizzato dei layout – un abbozzo di tavola che stabiliva le inquadrature e le pose sommarie – su cui Lee avrebbe dovuto intervenire, completandoli. Anche in questo caso, la legnosità dei primi numeri lascia spazio a prese di consapevolezza sempre più evidenti, fino a esplodere nello scontro con Wolverine pubblicato sui numeri 6 e 7 della testata. Quelli, avrebbe detto Lee, erano i primi fumetti che sentiva suoi, realizzati con intenzione e con la voglia di essere un disegnatore riconoscibile e non «un tizio che cerca di imparare a disegnare».

Gli albi vendettero molto bene e Bob Harras, editor degli X-Men, gli affidò un numero di Uncanny X-Men per colmare i ritardi del titolare Marc Silvestri, per poi promuoverlo a disegnatore regolare. Gli X-Men erano i suoi supereroi preferiti ed è facile capire il perché: i mutanti rappresentano le minoranze, i reietti, gli esclusi. Jim Lee era il figlio di immigrati «e anche se puoi imparare la lingua, le pratiche, i costumi e il modo di interagire della nazione in cui vivi, nel profondo del cuore ti sentirai sempre uno straniero con qualcosa di diverso dagli altri».

E forse Lee sentiva che anche gli X-Men vivevano di contrasti come lui: il disegnatore era uno straniero molto ben inserito nel tessuto sociale che aveva frequentato un’università prestigiosa e gli X-Men erano emarginati i cui fumetti erano sempre in cima alle classifiche di vendita. Insomma, dentro e fuori le storie i punti di contatto erano evidenti. «No, non è per quello», puntualizza Lee, «è perché un personaggio spara laser dagli occhi e un altro crea isole di ghiaccio, e hanno tutti dei costumi fighissimi. Qualsiasi fosse la ragione non riuscivo a collegare l’analisi letteraria ai fumetti: per me i fumetti erano puro escapismo, divertimento, colori, costumi, poteri». 

Anche se Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller («una storia sofisticata e piena di sfumature più di qualunque altra ne avessi letta») – insieme ad altre opere di spessore uscite nello stesso anno, il 1986 – gli fece capire le potenzialità del mezzo, i fumetti per lui restavano un’espressione puramente visiva, tanto che «se un disegnatore che mi piaceva cambiava a metà della storia smettevo di leggerla». Lee ebbe l’occasione di affermare le proprie convinzioni in merito con una storia breve dal titolo Accoppiamenti infelici, apparsa sulla testata parodistica What The–?! nel 1989, in cui prendeva in giro gli intellettualismi dei supereroi (il Punisher faceva una strage di personaggi troppo inclini ai sofismi come Silver Surfer).

jim lee uncanny x-men
La copertina di “Uncanny X-Men” 268 illustrata da Jim Lee

L’incarico da disegnatore regolare iniziò nel 1990 con Uncanny X-Men 268, in cui era pubblicata la storia Cavalieri di Madripoor (in realtà Lee è accreditato anche sul numero precedente, ma quello era un albo che aveva dovuto realizzare su richiesta di Harras in dieci giorni insieme a Whilce Portacio e all’inchiostratore Scott Williams). Con Jim Lee, gli X-Men tornarono a essere ultracontemporanei e anche un po’ di più, calati in tutto ciò che era visivamente nuovo per l’epoca. Lee ingegnerizzò gli X-Men per gli anni Novanta. Dismessa la cifra cottagecore degli anni Settanta e Ottanta (fatta di costumi essenziali e abiti civili che comprendevano giacche di pelo, maglioni di lana, giubbini da neve e altri indumenti disegnati con rara specificità da autori come John Byrne, Paul Smith e John Romita Jr.), fece indossare ai mutanti occhialoni a specchio, tute attillate, armature e sedie a rotelle ultra-tecnologiche, vestiari di plastica, metallo e latex, costruendo un bagaglio estetico che avrebbe definito i personaggi per una generazione di lettori, spettatori e videogiocatori.

Dalla sua matita uscì Gambit, un nuovo personaggio che diventò da subito uno dei preferiti del pubblico. La personalità e i poteri di Gambit erano basati sul concetto chimico di valenza (gli studi universitari tornarono utili) e sullo chef francese Emeril Lagasse, che all’epoca era una personalità televisiva molto nota in America. Anche qui: grande capacità di farsi metronomo stilistico di ciò che stava attorno. Non c’era personaggio, per quanto strambo o scemo, che in mano sua non sembrasse il più figo della stanza. I suoi X-Men – poi ripresi paro paro anche nel cartone animato di grande successo trasmesso tra il 1992 e il 1997 – si cristallizzarono nell’immaginario comune.

jim lee x-men
Gli X-Men e i loro costumi visti da Jim Lee

Dentro le pagine di Jim Lee c’erano sicuramente le storie e gli autori che aveva letto fino ad allora, ma c’era anche il contesto coevo, fatto di una nuova generazione di autori come Arthur Adams, Todd McFarlane, Rob Liefeld, Whilce Portacio e Marc Silvestri, che stavano vivendo grande popolarità grazie a un tratto ricco di dettagli e bizantinismi.

Questi autori, coetanei di Jim Lee, avevano in comune uno stile di disegno esagerato, votato alla ricerca delle soluzioni più appariscenti a discapito della chiarezza narrativa o di altre regole formali (spesso più per incapacità artistiche che per una vera scelta consapevole, altre volte per una calcolata mossa commerciale: il nascente mercato collezionistico valutava meglio le tavole originali con splash page appariscenti e portava i disegnatori a concessioni più illustrative), un’inchiostrazione graffiata e piena di tratti che conferiva un’energia cinetica, quasi nevrotica, anche al più immobile dei mezzibusti, e un desiderio molto forte di rinnovare l’immaginario dei supereroi. Era un modo di guardare al disegno che rompeva con il passato e si preoccupava soltanto di una cosa: essere figo. L’approccio, manco a dirlo, fece presa sui lettori, specialmente i più giovani.

Jim Lee non rimase immune a queste tendenze: nei suoi fumetti l’elemento decorativo – che fossero i peli di Wolverine, le ghiere dei costumi, le maschere in testa a Gambit, Jean Grey o Sabretooth, il tratteggio ereditato da Barry Windsor-Smith (e poi filtrato attraverso le lezioni di Frank Miller e Mike Mignola) – si fece esasperato, le anatomie lussuriose, le inquadrature sfrontate. «Quello che sto cercando di fare ora è esagerare» disse Lee in un’intervista del 1991 apparsa su Marvel Age 104. Fatto ribadito nel 2021, commentando il proprio lavoro: «Forme grandi, forme grandi. Volevo disegnare queste forme grandi, questi personaggi enormi che occupavano la tavola, spingere il limite di cosa si potesse fare con le pose dinamiche.»

jim lee x-men
Ancora gli X-Men secondo Jm Lee

Quasi ogni sua pagina era costruita attorno a una vignetta che fungeva da àncora, come fosse una micro splash page su cui si poggiava il resto. Già il bisticcio linguistico insito nell’idea di miniaturizzare un gesto che, in teoria, dovrebbe prendersi tutto lo spazio possibile rende l’idea di un’energia compressa. Tutto però, anche se non sembra, era disegnato con un senso della misura che lo faceva fermare a un passo dal tracollo, appena prima di entrare nel territorio del grottesco come capitava a Todd McFarlane o Rob Liefeld (da questo punto di vista, si può anche guardare a Lee come a un autore normie e alla lunga più noioso degli altri due, capaci invece di produrre mostruosità tali da fare il giro e diventare artistiche nell’accezione più alta del termine).

Tra i disegnatori della sua generazione, Lee era il meno trasgressivo nella rottura delle norme fumettistiche. «Ero invidioso ogni volta che lo vedevo» dirà McFarlane. «Era in grado di disegnare al meglio i dettagli, le persone, sempre bellissime, e aveva una narrazione dinamica. Se metti tutte queste cose insieme vedrai che la gente presterà attenzione. Io ero più appariscente ma non sapevo disegnare nemmeno lontanamente bene quanto lui.»

Ricevette comunque commenti negativi per il suo senso della narrazione tutto votato alla spettacolarizzazione di ogni gesto. Proprio Barry Windsor-Smith disse che «non c’è alcun investimento emotivo nei suoi lavori. Certo, sa disegnare, è tecnicamente capace, ma non penso che gli sia mai passato per la testa che i fumetti siano un mezzo per esprimersi in modo intimo».

Arrivò presto un punto in cui erano i disegnatori a tenere alte le vendite, perché i lettori erano disposti a leggere persino il più insipido dei canovacci se a disegnarlo c’erano i loro beniamini. Lee, McFarlane, Liefeld e gli altri muovevano milioni di copie, aiutati anche da convergenze magiche (tra cui l’arrivo di speculatori che investirono nell’acquisto di fumetti e tavole originali, con l’obiettivo di rivenderle), che li resero estremamente potenti nel mercato fumettistico. Avanzarono richieste, come quella di poter sceneggiare le loro storie, prontamente accolte. Nel 1990 debuttò Spider-Man, serie scritta e disegnata da Todd McFarlane il cui primo albo vendette più di un milione di copie, e l’anno successivo toccò a X-Men 1, scritto (con l’aiuto di Chris Claremont) e disegnato da Lee, che diventò il fumetto più venduto di sempre.

x-men 1 jim lee marvel comics 1991
Una tavola di Jim Lee da “X-Men” 1

Tuttavia, pensando di potersi arricchire molto di più in proprio, McFarlane si organizzò con un gruppo di altri quotati disegnatori per abbandonare la Marvel e fondare Image Comics, una casa editrice che avrebbe pubblicato fumetti i cui diritti restavano nelle mani dei rispettivi creatori. «La Marvel Comics sapeva che avrebbe potuto perdere me e Rob [Liefeld], perché eravamo incontrollabili», dirà McFarlane in Marvel Comics. Una storia di eroi e supereroi. «Jim era un aziendalista. Pensavano che avrebbero vinto la guerra, se avessero perso noi ma tenuto Jim. Così Jim finì per essere la pietra angolare del nostro progetto.»

Lee era in buoni rapporti con la redazione Marvel, ma iniziò a ripensare la propria lealtà all’editore quando si accorse di quanti pochi soldi stava ricevendo dalle vendite delle magliette e dei poster, e quando la Marvel gli chiese di volare a New York per la prima asta di tavole a fumetti originali di Sotheby’s (tra cui tutte quelle di X-Men 1) fu sorpreso di sentirsi dire che non avrebbero pagato il biglietto aereo di sua moglie. «E quella è la cosa sbagliata da dire a uno come Jim», dirà McFarlane. «Jim è uno che fa i suoi conti, e sa di aver fatto guadagnare loro 22 milioni di dollari negli ultimi tre mesi… E loro non vogliono tirar fuori nemmeno 200 dollari in più per un biglietto aereo? Fu quando cominciarono a dire cose del genere che iniziarono a perderlo.»

image comics Erik Larsen, Rob Liefeld, Todd McFarlane, Marc Silvestri, Whilce Portacio, Jim Lee e Jim Valentino
I fondatori di Image Comics in una foto dei primi anni ’90. In alto da sinistra: Erik Larsen, Rob Liefeld, Todd McFarlane, Marc Silvestri. In basso da sinistra: Whilce Portacio, Jim Lee e Jim Valentino

Ma Lee era talmente poco convinto di intraprendere la carriera di editore che per un periodo prese in considerazione la proposta di DC Comics, che gli offriva di varare una nuova testata di Batman tutta per lui – quella che sarebbe poi diventata l’antologica Legends of the Dark Knight. L’accordo saltò solo perché Lee chiese di disegnare anche le copertine della serie, ma DC non acconsentì (non si sa bene per quale motivo: ingaggi il fumettista più richiesto del momento e fai disegnare le copertine a qualcun altro?). Per Lee fu la spinta finale a imbarcarsi in un’avventura in cui avrebbe potuto fare tutto lui. Il problema ora è che avrebbe dovuto fare tutto lui.

All’interno di Image Comics, ogni fondatore aveva una propria etichetta editoriale autogestita. Quella di Lee era la Wildstorm, con cui il disegnatore pubblicò Wildcats, un rimaneggiamento di quel Wild Boys che aveva realizzato dieci anni prima con l’amico Brandon Choi. Se il salto da creativo a editore per alcuni fu quasi ideale, per un tipo come Lee fu difficile da digerire: oltre a disegnare, bisognava stare appresso a mille altre questioni inerenti l’albo, dai redazionali alla distribuzione, senza contare la nascita della primogenita, che gli sottrasse tempo al lavoro. Lee e altri fondatori di Image, tra cui il disorganizzatissimo Rob Liefeld, accumularono da subito pesanti ritardi, creandosi la nomea di inaffidabili. Nel 1993, dopo un anno di vita, Image Comics registrava la percentuale più bassa di fumetti pubblicati rispettando le scadenze, il 15%, contro il 90% dei titoli DC e il 79% di quelli Marvel.

jim lee wildcats
LA copertina di “Wildcats” 1 illustrata da Jim Lee e Scott Williams

Nel complesso, però, Image Comics fu una svolta e portò ai suoi fondatori indipendenza creativa ed economica. Ognuno si stava costruendo il proprio impero di fumetti (quelli di Lee, in gran parte creati ma poi fatti scrivere e disegnare ad altri, includevano, oltre a Wildcats, anche Stormwatch, Deathblow e Gen¹³) e licenze, in un momento storico molto difficile per il mercato americano: la bolla speculativa che aveva reso popolare il fumetto esplose, con enormi contraccolpi per tutto il settore.

A metà anni Novanta, una serie di tensioni interne portò poi Liefeld e Lee ad accettare l’offerta di Marvel Comics, che, alla disperata ricerca di fumetti che la risollevassero dalla bancarotta, affidò loro la gestione di quattro serie all’interno della neonata linea Heroes Reborn (in Italia La rinascita degli eroi): Fantastic Four e Iron Man a Lee, Captain America e Avengers a Liefeld. McFarlane lo definì un «ritorno alla piantagione», mentre Frank Miller, che aveva applaudito il desiderio di indipendenza creativa di Image Comics, sulle pagine di Wizard 55 scrisse che la rimpatriata tra Marvel, Lee e Liefeld «fa sembrare la fondazione di Image uno stratagemma negozionale. È una piega degli eventi molto triste».

Uscito nell’autunno 1996, il quartetto di titoli andò bene nelle vendite – in particolare le due serie di Lee – ma non così tanto da giustificare gli stipendi dei due autori. E poi, come nel caso di Image, Liefeld non riuscì a rispettare le consegne: dopo pochi numeri Lee dovette prendere in gestione anche le sue serie. Nessuna delle quattro testate si fa ricordare per la bontà dei contenuti: la meno peggio, Fantastic Four, disegnata e scritta (con l’aiuto di Brandon Choi) da Lee – che per sua stessa ammissione, non è mai stato «uno bravo con le sceneggiature, posso ideare momenti e canovacci, ma mi riesce difficile entrare nel dettaglio delle storie» – si fa ricordare come un pessimo remake delle origini dei Fantastici Quattro filtrato dalla sensibilità di Michael Bay. Di nuovo, può non piacere, ma Lee aveva capito come rielaborare il materiale per i lettori contemporanei.

jim lee fantastici quattro
I Fantastici Quattro di Jim Lee

L’esperienza in Marvel si concluse dopo un anno, e Lee tornò a gestire la sua Wildstorm. Alla fine degli anni Novanta, il richiamo ai fumetti si fece sentire, e il disegnatore, apparentemente stanco di dover gestire un’azienda (o, forse, con un po’ di pragmatismo, dopo avere visto il panorama attorno a sé bruciare e, presagendo il peggio, preferendo incassare il suo tesoretto prima di vederlo in cenere), decise di vendere Wildstorm a DC Comics, firmando inoltre un contratto in esclusiva con l’editore. Sarebbe tornato a disegnare fumetti su base regolare, dimostrando di poter affrontare le tanto temute scadenze, e lo avrebbe fatto con un personaggio di punta: Batman.

Il risultato di questo accordo fu Batman: Hush, maxisaga scritta da Jeph Loeb in cui Batman deve sbrogliare il giallo dietro l’identità di Hush, misteriosa figura che gli sta rendendo la vita un inferno. Hush è un giocattolone a fumetti che, se non rientra propriamente nelle migliori opere di Loeb, di certo mostra un Jim Lee in stato di grazia che fa quello che gli riesce meglio: dare spettacolo.

jim lee batman hush
Una copertina della saga “Batman: Hush”

Uscito tra il 2002 e il 2003 Hush primeggiò nelle vendite, e Lee proseguì con Superman: Per il domani. Nella saga si intrecciano le vicende di Superman, che deve risolvere il mistero attorno alla sparizione di un milione di persone, inclusa la moglie Lois Lane, affrontando il proprio senso di colpa per non essere riuscito a prevenire l’evento, e quelle di un giovane prete, nel pieno di una crisi di fede, che gli fa da confessore. Per il domani è una storia bizzarra, scritta da un Brian Azzarello che non sembra a suo agio con il personaggio e disegnata da un Lee che proprio non sa gestire le parti più intimiste della vicenda.

Nelle intenzioni di Lee, queste due opere dovevano essere la coronazione di una carriera attraverso i due personaggi più famosi dei fumetti. Questa sua particolare ossessione è viva ancora oggi: a settembre 2023 ha disegnato una copertina di Wonder Woman dicendo di aver «completato la trilogia della Trinità» dopo vent’anni dalla copertina del primo numero di Hush. In casa DC l’altra sua grande opera, incompiuta, è All Star Batman & Robin, the Boy Wonder, progetto del 2005 scritto da Frank Miller e ambientato nello stesso universo de Il ritorno del Cavaliere Oscuro. La serie avrebbe dovuto raccontare l’incontro tra Batman e Dick Grayson, alias Robin, ma si interruppe dopo dieci numeri. Della serie, aspramente criticata dalla stampa, resta famigerato uno scambio tra Robin e Batman, in cui quest’ultimo afferma «I’m the goddamn Batman» («Sono Batman, cazzo»).

Negli anni Duemila, quello di Jim Lee diventò lo stile di casa DC, sia perché venne emulato da molti disegnatori sia perché a Lee furono affidati molti lavori che servivano a rappresentare DC Comics fuori dai fumetti (design di giocattoli, videogiochi, collaborazioni con altri marchi). Nel 2010 fu nominato co-publisher della casa editrice e supervisionò il rilancio New 52, prestandosi in prima persona a disegnare la serie Justice League, sui testi di Geoff Johns. Seguirono brevissime gestioni come la serie Superman Unchained, lanciata in concomitanza con il film L’uomo d’acciaio, e Suicide Squad, anche quella in occasione dell’omonima pellicola.

jim lee superman unchained
Particolare da “Superman Unchained”, illustrazione di Jim Lee

Diventato publisher, poi chief creative officer nel 2018 e presidente di DC Comics nel maggio del 2023 (tutte cariche di cui è difficile tracciare confini e competenze: una volta descrisse il suo ruolo di chief creative officer come un supervisore che si assicura che lo spirito dei personaggi rimanga inalterato in tutte le produzioni extra-fumettistiche, fornendo spunti e storie agli autori di film, tv e videogiochi), Jim Lee ha combattuto con tutte le sue forze per restare un disegnatore, ma nei fatti si è trasformato in una specie di eredità vivente, di marchio, imprenditore, creativo e impiegato, stile che si è costretto a diventare sostanza.

Jim Lee è l’ultima superstar del fumetto perché dopo di lui, le persone che sarebbero potute diventare famose quanto e più di lui se ne sono andate per altri lidi (videogiochi, cinema) e anche oggi, quelli che sono molto famosi al punto da essere brand lo sono relativamente al mondo dei fumetti. Lui invece quel mondo lo ha navigato per bene, è stato protagonista di uno dei suoi apici, poi si è insediato in una gigantesca multinazionale ed è ancora lì per raccontarlo. Anche se il suo ultimo fumetto rilevante risale a vent’anni fa, può permettersi di fare pagare 60 dollari un suo autografo. Non ha più bisogno di dimostrare niente. E forse è per questo che nella sua bio su Twitch gli è bastato scrivere «faccio solo immagini».

Fumettologica è media partner di Lucca Comics & Games 2023

Entra nel canale WhatsApp di Fumettologica, clicca qui. O seguici su Telegram, Instagram, Facebook e Twitter.