Il mito di Ken il guerriero

di Mario A. Rumor*

ken il guerriero Hokuto no Ken

Bisogna saperla meritare, l’investitura divina nel mondo dei fumetti. A 40 anni dalla nascita, l’onorificenza riservata a Ken il guerriero è semplice formalità. L’ammissione nell’olimpo, il manga Hokuto no Ken di Tetsuo Hara & Buronson se l’è conquistata praticamente dalla pagina 1, quando diventa uno dei titoli di punta di Weekly Shōnen Jump, mentre noi poveri occidentali l’atto di fedeltà nei suoi confronti lo tributiamo durante la messa in onda, a dir poco gloriosa, della serie animata sulle tv locali in Italia dal 1987.

La successiva e inevitabile investitura è avvenuta tramite conoscenza diretta del fumetto in una staffetta di edizioni realizzate nel corso degli anni. La prima con tavole ribaltate la propone Granata Press nel 1990, poi arriva la versione fedele al senso di lettura originale e traduzione di Star Comics nel 1997 (quando capitava di vedere l’anime su Telenova alle 2 di notte…), quindi la pubblicazione con diverso formato di d/visual nel 2005 e infine l’edizione Panini Comics del 2013.

Manga di fine secolo

Sono pochi i manga con una naturale propensione a esaltare i gusti del pubblico e unire nella lettura giovani e adulti. La reputazione solida e duratura, Ken la deve non soltanto al mastodontico giro d’affari smosso dal manga poi allargatosi ad altri media (anime, remake, live action, videogiochi e altro ancora). La parte più consistente della sua fortuna si concilia principalmente alla personalità di tre figure, ognuna con un ruolo e una metodologia di lavoro, che ne hanno rafforzato l’identità: il disegnatore Tetsuo Hara, l’autore dei testi Buronson e il redattore Nobuhiko Horie di Shūeisha. Cuore, cervello e arte del disegno. Tre individui non necessariamente uniti per la vita, ma parte di un fenomeno che ha illuminato il destino di Hokuto no Ken. Un’unione affatto insolita nell’industria dei manga ma avercene di così determinanti.

Il fascino è venuto da sé. Diventare un baluardo della cultura pop, nonostante l’avversione mediatica cotta a puntino in alcuni Paesi europei (compreso il nostro), ha richiesto il passaggio da una routine sanguinosa fatta sostanzialmente di confronti corpo a corpo a pellegrinaggio in un futuro distopico ammantato di leggenda e poesia. Il presente polveroso e soffocante di Hokuto no Ken rimanda a un altro tempo in cui il pensiero e l’arte del combattimento avevano una loro sacralità che il mondo del futuro a malapena riconosce. Un mondo dove sopravvivono pochi ideali e gli ultimi avanzi di un’umanità destinata a disperdersi.

La storia del solitario guerriero in marcia, un eletto nel cui nome è custodita una qualche eccezionalità e nel cui destino è scolpita la necessità di sopravvivere e diventare più forte e imbattibile, parte così da una violazione: il rapimento della donna amata, Julia, stella lucente di un firmamento quasi esclusivamente maschile che la reclama. Per Kenshiro ottenere vendetta è l’apoteosi della distruzione: una sequela di duelli e scontri che finiscono per dissolvere gli emblemi delle Sacre Scuole fino al confronto con il fratello maggiore Raoul che di quel miserabile mondo vuol essere il dominatore (ma per nobili propositi).

Comandamenti ferrei sui quali l’universo creativo del manga si regge nulla possono di fronte alla frase che fa di Kenshiro un simulacro subito riconoscibile: «Tu sei già morto!» (in giapponese: «Omae wa mou shindeiru!»). Sentenza cacciata fuori con un filo di disprezzo e di solito rivolta alla feccia che infesta il mondo in rovina. Se il trio di autori si fosse accontentato di un eroe come altri, Hokuto no Ken non avrebbe mai funzionato. Si sarebbe aggrappato alla sua muscolosa possanza senza diventare metafora della fine dei tempi e personaggio “vivo” per riportare ordine sulla Terra.

Il signor Buronson

Un fattore dell’equazione vivente che ha creato il manga è Buronson, l’alias più noto di Yoshiyuki Okamura (nato nel 1947 nella prefettura di Nagano). Educazione scolastica incompleta, un mestiere nell’Aeronautica Militare nipponica come meccanico radar, Okamura rivela un inaspettato talento per il racconto e la scrittura che lo porta alla Motomiya Production del fumettista Hiroshi Motomiya, di cui diventa assistente. Lì un collega nota una vaga somiglianza con l’attore Charles Bronson visto accanto ad Alain Delon nel film Saraba Tomoyo (1968, in italiano Due sporche carogne – Tecnica di una rapina di Jean Herman).

Debutta con il manga di 31 pagine Gorō-kun tōjō (1972) di Yō Hasebe, poi sopporta periodo di bassa marea creativa, troppi fumetti partiti e poi interrotti, fino all’exploit nel 1975 con Doberman Deka di Shinji Hiramatsu. Rispetto al giovane Hara, proviene da famiglia troppo povera per permettersi l’acquisto dei principali mensili a fumetti (Shōnen Magazine e Shōnen Book), quindi con pochi yen si fa una cultura nelle librerie a noleggio tra letture ondivaghe (in prima fila Hiroo Terada) e predilezione per le commedie spiritose e surreali di Shigeru Sugiura e Hifumi Yamane. Nulla che faccia intuire il futuro post-apocalittico di Hokuto no Ken. Però è anche vero che il suo primo vero personaggio, Gorō-kun, è uno studente debole e bullizzato cui tocca rialzare la testa.

La bravura di Buronson agevola abbordaggio narrativo dappertutto: commedie, drammi e perfino fumetti per ragazze. Pare uno capace di sapersi adattare e captare le necessità del pubblico giovane, tant’è che nel 1980 viene coinvolto nel lancio di Young Magazine. L’altro alias che lo accompagna (risultato di un gioco linguistico di un redattore Kōdansha) è Shō Fumimura, ma tra l’uno e l’altro non esiste particolare spartizione di generi o storie. Lo ritroviamo quindi sanguigno e fieramente maschile in collaborazioni con Kentaro Miura (Il Re Lupo, 1989) e Ryoichi Ikegami (Sanctuary, 1991)

Apprendere dai Maestri

Uno che invece assimila tutto il possibile è proprio Tetsuo Hara (classe 1961), che dal suo podio generazionale guarda con rispetto il buon Buronson senza troppo interferire, partecipa alla costruzione del manga seguendo le indicazioni di Horie e occasionalmente si confronta con il collega anziano. La sua esistenza risulta totalmente succube al verbo fumettistico. L’obiettivo di affermarsi come disegnatore non lo abbandona un secondo e l’esplicitazione di tale sogno prende il sopravvento negli anni di scuola.

A indicargli la strada sono linguaggi differenti fra loro: quelli di Osamu Tezuka, Shōtarō Ishinomori, Fujio Akatsuka, Tetsuya Chiba, lo stesso Ikegami. L’apprendistato comincia imitando i Maestri (un po’ come farà Naoki Urasawa nei suoi album e quaderni di ragazzino) ma a un livello di svolgimento più intuitivo e non banalmente amatoriale. Lui lo chiama il “potere dei manga”. In pratica, Hara già pensa quali personaggi potrebbero apparire nelle storie che legge. Da ciascun autore seleziona aspetti che poi influenzeranno la visione di Hokuto no Ken. Perfino le gag esilaranti di Akatsuka diventano nutrimento per il momento topico in cui i malcapitati avversari di Kenshiro si avviano a disastrosa fine. Da Chiba e Ikegami assorbe il rigore e la profondità d’animo dei personaggi: l’attrattiva che scaturisce da essi dipende insomma da come dominano la scena.

Persa la possibilità di lavorare con Takao Yaguchi e Buichi Terasawa, viene dirottato su Yoshihiro Takahashi, il cui stile all’inizio non ama. Anche Kazuo Koike elargisce consigli nella creazione dei personaggi, che Hara vorrebbe fossero tutti ganzi e forti, affascinato com’è dalla fisicità de L’Uomo Tigre di Ikki Kajiwara. La passione del disegnatore per il realismo mette radici qui, influenza non solo Hokuto no Ken ma pure le opere successive che guardano alla Storia e ai lavori dello scrittore Ryu Keiichiro (con il quale realizza Hana no Keiji, 1989).

Nascita del progetto

Incrociare la biografia di Horie a quella dell’allora giovane Hara permette di intravvedere il medesimo fuoco artistico. Sono due combattenti nati e il panorama fumettistico lo vogliono ribaltare con nuove idee, stando comunque dentro la carreggiata e le direttive di una rivista “impostata” come Shōnen Jump (nata nel 1968). Quando il disegnatore gli viene assegnato, Horie accoglie di buon grado la proposta di realizzare un manga incentrato sulle arti marziali. Ormai lo sanno anche i sassi che Hara ha un debole cinefilo per Bruce Lee e Yusaku Matsuda, e l’ambizione di creare un personaggio che possieda i geni eroici di entrambi stuzzica l’ingegno. Inoltre, quel tipo di fisicità si addice al suo stile grafico, che nel corso degli anni perfeziona sempre di più e meglio (magari tenendo d’occhio Otokogumi del 1974, dell’adorato Ikegami).

Prima di arrivare a Hokuto no Ken, Hara realizza un fumetto breve che i fan considerano l’episodio pilota, apparso su Fresh Jump nel 1983 con il titolo Hokuto no Ken – Kasumi Kenshiro. Il protagonista è anch’egli successore della Hokuto Shinken, vive però nel mondo di oggi e la sua compagna si chiama Yuki. Un prototipo in piena regola, anche nelle affinità caratteriali con “l’altro” e più famoso Kenshiro, che genera subito il secondo capitolo Hokuto no Ken II – Taizanji Kenpō, incentrato su una vendetta da compiere.

Nel mezzo del tragitto per passare alla fase successiva, cioè la pubblicazione di una serie regolare basata su quel soggetto, troviamo Horie affaccendato in qualche libreria del celebre quartiere bibliofilo Jimbōchō a sfogliare libri cinesi: uno studio medico sull’agopuntura che gli fornisce l’idea geniale dei punti di pressione che permettono a Ken di annientare i corpi dei nemici e infine un volume di antiche leggende, che aiuta a definire l’impalcatura e il contorno leggendario dell’arte di combattimento del protagonista. Il tutto risponde a esigenze narrative precise, per esibire nel manga tratti distintivi e iconici (mosse speciali, terminologia) e guadagnare il consenso dei lettori.

Tanti muscoli e molto cervello

L’ambientazione in epoca moderna dell’episodio pilota non convince Buronson, convocato dalla Shūeisha dopo valutazione di altri scrittori per occuparsi dei testi di Hokuto no Ken. Decide lui lo scenario post-apocalittico stile Interceptor – Il guerriero della strada (il primo film della saga del Mad Max di George Miller con Mel Gibson). Da lì in avanti, senza un quadro generale della storia concepito in anticipo, il fumetto procede un passo alla volta trovando costantemente escamotage per irrobustire l’impianto narrativo (le cicatrici sul corpo di Ken, la ricerca di Julia) e dettare le regole della sua permanenza in quel contesto.

Serve soprattutto a Hara, che deve tradurre tutto in immagini e al tempo stesso perfezionare lo stile ancora acerbo, senza mettergli pressione nonostante le scadenze e le richieste di Horie. La parte introspettiva del fumetto, tramite avvicendamento dei legami di sangue e il circolo ristretto dei fratelli del protagonista (ognuno con personalità e obiettivi precisi), regala ai lettori pagine indimenticabili e solenni. Buronson va oltre le apparenze, i suoi personaggi sono altrettanto vivi e ispirati (perfino il destriero Re Nero!). Il contorno action è spettacolo di gran classe per le pagine di Shōnen Jump, raramente così intenso.

Si materializzano quindi spin-off e prequel, dall’alto di cento milioni di copie vendute. Kenshiro influenza altri autori (pensiamo a Hirohiko Araki) e consegna a Hara la libertà di gestirsi come autore senza più legami con Shūeisha. Ci guadagna lo schermo animato grazie a maestri come Masami Suda, probabilmente uno dei pochi ad aver saputo guardare dritto nel cuore di Kenshiro.

*La versione originale di questo articolo è disponibile sul mensile Fumo di China 333, ora in edicola, fumetteria e online.

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